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Terapia aggressiva nel diabete tipo 2 riduce progressione aterosclerosi carotidea
Inserito il 09 novembre 2008 da admin. - metabolismo - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Un trattamento aggressivo della colesterolemia e della pressione arteriosa riduce la progressione dell'aterosclerosi carotidea nel diabete tipo 2, ma si tratta di strategie percorribili nella pratica clinica?


In questo studio in aperto, ma con valutazione in cieco degli end-point, sono stati arruolati 499 pazienti indiani americani, di almeno 40 anni, affetti da diabete tipo 2. Dopo randomizzazione i partecipanti sono stati trattati in modo aggressivo (così da raggiungere valori di colesterolo LDL di 70 mg/dL o inferiori e valori di pressione arteriosa di 115 mmHg o inferiori) oppure in modo da arrivare ai valori target standard (colesterolo LDL 100 mg/dL o inferiore e pressione arteriosa sistolica di 130 mmHg o inferiore). L'end-point primario dello studio era la progressione dell'aterosclerosi valutata mediante la misurazione dello spessore dell'intima-media carotidea. End-point secondari erano altre misure ecografiche carotidee e cardiache e gli eventi clinici. Lo studio ha avuto una durata di 3 anni. Negli ultimi 12 mesi il colesterolo LDL medio fu di 72 mg/dL nel gruppo terapia aggressiva e di 104 mg/dL nel gruppo terapia standard, mentre la pressione arteriosa sistolica fu rispettivamente di 117 mmHg e 129 mmHg.
Nel gruppo terapia aggressiva lo spessore dell'intima-media carotidea si ridusse di 0.012 mm mentre aumentò di 0,038 mm nel gruppo di controllo ( P < 0,001). Nel primo gruppo si ebbe anche una maggior riduzione dell'indice di massa ventricolare sinistra (p = 0,03). Gli eventi avversi legati ai farmaci antipertensivi furono maggiori nel gruppo terapia aggressiva (38,5% vs 26,7%; p = 0,005), ma quelli gravi non differivano tra i due gruppi (n = 4 vs n = 1; p = 0,18).Gli eventi clinici cardiovascolari non differirono tra i due gruppi.
Gli autori concludono che il trattamento aggressivo della colesterolemia e della pressione nel diabete tipo 2 produce una regressione dell'aterosclerosi cartidea. Gli eventi clinici furono meno di quanto atteso (1,6/100 persone-anno nel gruppo terapia aggressiva e 1,5/100 persone-anno nel gruppo controllo) e non differivano statisticamente tra di due gruppi. Sono necessari ulteriori studi per stabilire se i miglioramenti a livello carotideo e cardiaco si traducono in miglioramenti degli end-point clinici a lungo termine.


Fonte:

Howard BV et al. Effect of Lower Targets for Blood Pressure and LDL Cholesterol on Atherosclerosis in Diabetes. The SANDS Randomized Trial. JAMA. 2008 Apr 9; 299(14):1678-1689.


Commento di Renato Rossi

Gli autori di questo studio sono partiti dalla constatazione che, sebbene le linee guida consiglino un trattamento intensivo nel diabete tipo 2 dell'ipertensione e dell'ipercolestrolemia, i target raccomandati non sono mai stati sottoposti al vaglio di un RCT disegnato ad hoc.
I dati confermano che nel diabete tipo 2 una terapia aggressiva per controllare la pressione e la colesterolemia è in grado di produrre una regressione dell'aterosclerosi. Non era per nulla scontato, visti i risultati negativi raggiunti dal recente studio ENHANCE in cui era stato testato l'ezetimibe e a cui questa testata ha dato ampio risalto. In questo senso quindi lo studio SANDS ha avuto esito positivo.
Naturalmente il trial ci lascia con alcuni interrogativi che gli autori, giustamente, mettono in risalto nelle loro conclusioni. Gli eventi cardiovascolari erano un end-point secondario e non si notò differenza tra le due modalità di trattamento. Anche se ci fosse stata una riduzione degli eventi statisticamente significativa in uno dei due gruppi, il dato dovrebbe comunque essere interpretato con prudenza (sia in un senso che nell'altro) per i noti limiti degli end-point secondari. Lo studio, in ogni caso, aveva arruolato una casistica non particolarmente numerosa e quindi non c'era abbastanza potenza per evidenziare una riduzione degli eventi statisticamente significativa. Inoltre gli eventi furono minori di quanto gli autori si attendevano, il che potrebbe dipendere dal fatto che sono stati arruolati diabetici a basso rischio oppure dipendere da una durata inadeguata. Infine la particolare etnia dei partecipanti (tutti indiani americani) rende i risultati difficilmente generalizzabili. Lo studio quindi, si può considerare interlocutorio e non conclusivo.
In definitiva, un trial senz'altro interessante dal punto di vista sperimentale e di studio, ma inadatto a rispondere alla domanda: fin quanto bisogna essere aggressivi nel diabete tipo 2 sui fattori di rischio associati come la colesterolemia e la pressione per ottenere benefici clinici rilevanti rispetto ad un trattamento più morbido? Ci possiamo accontentare di arrivare ai valori target consigliati dalle linee guida (cosa già di per sè molto difficile da ottenere in molti pazienti nella pratica clinica) oppure dobbiamo spingerci ancora più in là? E si tratta di target realisticamente raggiungibili nella medicina di ogni giorno? Non sarebbe preferibile, invece di cercare a tutti i costi di raggiungere obiettivi difficilissimi, accontentarsi di finalità più facili da raggiungere ma perseguite con costanza? Da ultimo il rapporto costi/benefici di una strategia così intensiva è favorevole? Si tratta di una serie di incertezze e domande che per ora non hanno risposta. Nello studio SANDS meno della metà dei partecipanti randomizzati al gruppo trattamento intensivo riuscì a raggiungere il target a cui erano stati destinati in più del 75% dei controlli clinici a cui venivano sottoposti durante il trial. Il che la dice lunga su quanto siano poco realistici alcuni obiettivi consigliati dalle linee guida nella pratica clinica. Se nel setting di un RCT durato solo 3 anni si ottengono risultati di questo tipo, è facile immaginare cosa si possa ottenere nel mondo reale somministrando terapie complesse che devono durare tutta la vita. Come abbiamo più volte sostentuo, a nostro avviso, è sicuramente preferibile accontentarsi di risultati meno rigorosi ma che siano mantenuti a lungo perchè, in termini di popolazione, i benefici sono maggiori, piuttosto che insistere su interventi molto aggressivi che fatalmente finiscono col diventare solo delle lodevoli intenzioni senza possibilità di applicazione.
Insomma, il medico pratico spesso deve appoggiarsi su una "realpolitik" che traduca i dati dei trials in azioni realizzabili e condivise dai pazienti.
Un'ultima osservazione è questa: i diabetici arruolati nello studio erano a basso rischio in quanto non avevano precedenti eventi cardiovascolari. In diabetici a rischio più elevato (per esempio per la presenza di malattia aterosclerotica clinicamente manifesta) forse i risultati sugli eventi clinici sarebbero stati più vistosi. E' consigliabile quindi, quando si deve trattare un diabetico, personalizzare l'intensità del trattamento in base al suo profilo di rischio cardiovascolare.




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