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CPAP nella sindrome delle apnee notturne
Inserito il 02 ottobre 2016 da admin. - pneumologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Due studi hanno valutato l'efficacia della CPAP nel ridurre sintomi ed eventi cardiovascolari nei pazienti con sindrome delle apnee notturne.


E' noto che la sindrome delle apnee notturne (OSAS) è associata ad un aumentato rischio di eventi cardiovascolari.

Il trattamento durante il riposo con dispositivi che assicurano una pressione continua positiva nelle vie respiratorie (continuous positive airway pressure o CPAP) è una delle opzioni disponibili, ma non è noto quale sia l'impatto sulle complicanze cardiovascolari.

Ha cercato di determinarlo uno studio randomizzato e controllato in cui sono stati reclutati 2717 soggetti (età 45-75 anni) affetti sia da OSAS (da moderata a grave) sia da malattia coronarica o cerebrovascolare.

I partecipanti sono stati trattati con le terapie usuali oppure con terapie usuali associate a CPAP.

Nei soggetti trattati con CPAP si ebbe una riduzione significativa del numero di apnee o di episodi ipossiemici per ora (da 29 eventi per ora a 3,7 eventi per ora).
In media i pazienti tollerarono il dispositivo CPAP per 3,3 ore per notte.

Dopo un follow up medio di 3,7 anni l'endpoint primario dello studio (morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus, ospedalizzazione per angina instabile. scompenso cardiaco e attacco ischemico cerebrale transitorio) non differiva significativamente tra il gruppo trattato con CPAP e quello di controllo.

Tuttavia la CPAP migliorò significativamente la qualità di vita, l'umore, la sonnolenza diurna e il russamento.

In un altro studio [2] sono stati arruolati 244 pazienti con OSAS che erano stati sottoposti a rivascolarizzazione coronarica. Sono stati esclusi soggetti che avevano una sonnolenza diurna. Anche in questo caso, dopo un follow up di oltre 4,5 anni, la CPAP non ridusse l'incidenza di infarto miocardico, rivascolarizzazione coronarica, ictus o mortalità cardiovascolare. Tuttavia nei soggetti che riuscivano a tollerare la CPAP per più di quattro ore per notte si ebbe una riduzione degli eventi cardiovascolari.

Che dire?

Gli studi suggeriscono che la CPAP non è in grado di ridurre le complicanze cardiovascolari associate con la sindrome delle apnee notturne. A nostro avviso due sono le spiegazioni possibili: o la CPAP effettivamente non è in grado di influire positivamente riducendo gli eventi cardiovascolari oppure il mancato effetto è dovuto alla scarsa compliance con il dispositivo. Infatti, nello studio di McEvoy e coll. in media la CPAP era tollerata per poco più di tre ore per notte e questo potrebbe aver ridotto la sua efficacia, mentre nello studio di Peker e coll. si aveva una riduzione degli eventi cardiovascolari nei soggetti che tolleravano la CPAP per più di quattro ore per notte.

In ogni caso anche migliorare i sintomi e la qualità di vita dei pazienti affetti da OSAS è un obiettivo importante. La CPAP sembra una scelta da proporre soprattutto a pazienti con sintomi disturbanti (russamento, frequenti risvegli notturni, sonnolenza diurna).

Da sottolineare che gli studi avevano arruolato soggetti che, oltre alle apnee notturne, presentavano una coronaropatia o una cerebrovasculopatia: non è noto se la CPAP sia efficace in soggetti senza patologia cardio-cerebrovascolare nota.

Oltre alla CPAP sono stati proposti altri trattamenti come per esempio l'applicazione di devices per mantenere in posizione avanzata la mandibola. In futuro studi di confronto tra le varie opzioni terapeutiche potranno chiarire quali siano le scelte più efficaci e in quali sotoogruppi di pazienti.


Renato Rossi


Bibliografia

1. McEvoy RD et al. CPAP for Prevention of Cardiovascular Events in Obstructive Sleep Apnea. N Engl J Med. Pubblicato online il 28 agosto 2016.

2. Peker Y et al. Effect of positive airway pressure on cardiovascular outcomes in coronary artery disease patients with nonsleepy obstructive sleep apnea: The RICCADSA randomized controlled trial. Am J Respir Crit Care Med 2016 Sep 1; 194:613.


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