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DIARIO DI UN MEDICO - Prima puntata
Inserito il 03 gennaio 2024 da admin. - Narrativa - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  



Questa è la prima puntata di un breve racconto che abbiamo trovato nelle pagine ingiallite di un vecchio diario tenuto da un medico di campagna.
Buona lettura.

Renato Rossi


Dopo aver preso la maturità scientifica mi iscrissi alla facoltà di medicina. Ho pensato molto al perché di quella scelta e la risposta la trovo in un libro che lessi quando avevo appena finito le scuole medie. Parlava dei grandi medici del passato e delle loro scoperte: nel mio ardore di adolescente mi figuravo di essere come loro, di scoprire la cura per malattie mortali, di passare la vita a lenire sofferenze e fare interventi chirurgici difficilissimi.
Durante i primi due anni di università studiai chimica, fisica, biochimica. Cose che avevano poco a che fare con i malati e mi domandavo cosa servisse quel sapere a un medico. In seguito, seguii lezioni di microbiologia, fisiologica, anatomia, istologia e questo già mi apriva un mondo diverso. Negli anni successivi affrontai patologia generale e poi le materie più propriamente cliniche.
Tutto quello che imparavo mi permetteva di vedere con sguardo diverso cose che prima, nella mia ignoranza, osservavo con occhi da selvaggio. Mi sembrava impossibile essere arrivato a quell’età senza sapere cos’è un batterio o un virus, qual è la differenza tra un infarto e un ictus, quali processi si innescano nell’infiammazione, perché ci viene la febbre. In quegli anni ogni volta che uscivo da una lezione portavo con me nozioni nuove e importantissime per il mio futuro di medico.
La mattina mia madre mi svegliava alle sei per prendere il treno che arrivava a Padova appena in tempo per la prima lezione delle otto. Alla stazione vedevo sempre una ragazza che frequentava le scuole superiori a Vicenza. Aveva capelli neri lunghi e ondulati, occhi grandi e una faccia simpatica. Avrà avuto sui diciassette anni. La guardavo e pensavo al suo corpo come a un insieme di cellule che si rinnovavano continuamente e le permettevano di conservarsi così bella.
Qualche volta assistetti alle autopsie. Non era un’esperienza che mi piaceva. C’era con me uno studente che veniva da Treviso. La prima volta, quando vide l’anatomopatologo sezionare il cadavere ed estrarne le viscere, cadde svenuto. In seguito mi disse che aveva sbagliato a scegliere medicina e che pensava seriamente di cambiare facoltà. E infatti dopo poco non lo vidi più a lezione.
Di fronte a quei cadaveri che venivano tagliati come bestie al macello provavo pietà per loro, ma soprattutto per i loro familiari. Il medico si accaniva su un corpo inerme, ancorché privo di vita. Con bisturi e seghe sezionava e tagliava. La madre, la sorella, la moglie, avrebbero mai immaginato a quali umiliazioni veniva sottoposto il loro caro? L’autopsia era necessaria per determinare la causa della morte. Poteva essere stata chiesta dal magistrato o dai medici e avrebbe forse contribuito ad aumentare i progressi scientifici. Me ne rendevo benissimo conto, ma questo non toglieva nulla al senso di orrore che provavo. Smisi presto di assistere alle autopsie e decisi che dopo la laurea non sarei mai diventato un anatomo-patologo. Ne provavo come una specie di avversione. Era un sentimento che non potevo vincere.
Man mano che procedevo nello studio interpretavo ogni mio più piccolo disturbo come il segnale di una gravissima malattia. Credo sia un’esperienza comune a molti studenti di medicina. Ricordo che una volta soffrii di un dolore localizzato al dorso e ai lombi. Avevo appena assistito a una lezione di clinica chirurgica e il professore aveva spiegato il cancro del pancreas. Uno dei caratteri che lo distinguono è il dolore irradiato posteriormente alla schiena. Mi ero quindi già immaginato sul letto di ospedale con le infermiere che venivano a misurarmi la febbre e tra loro parlottavano sottovoce. Ma per quanto cercassero di non farsi udire io sentivo benissimo:
– Poverino! Così giovane e non ha speranze.
Entrava il professore con il camice bianco e inamidato, rigido e dal volto impenetrabile, seguito dagli assistenti e dagli specializzandi. Aveva la barba ben rasata e i capelli in ordine.
Mi diceva con aria contrita:
– So che lei è un mio studente del sesto anno, è abbastanza addentro al mestiere, quindi tanti giri di parole sono inutili, gli esami radiologici mostrano chiaramente che c’è purtroppo un tumore del pancreas. Deve essere forte, non ci sono speranze perché non è operabile. Adesso avviseremo i suoi genitori e penseremo noi a tutto.
E io mi chiedevo a cosa dovesse pensare, al funerale forse?
Un’altra volta credevo di avere un osteosarcoma al ginocchio. Facendomi coraggio andai dal mio medico di famiglia e gli esposi i miei timori. Lui sapeva che studiavo medicina e, invece di visitarmi, cominciò a chiedere chi era il professore di clinica medica e in quali libri stavo preparando l’esame. Volle sapere se avevo trovato difficile l’esame di anatomia e se si usava ancora il vecchio testo sul quale lui aveva perso le notti. Quando si degnò di esaminarmi disse che era un semplice dolore, forse una distorsione di cui non mi ero accorto. Per scrupolo mi fece eseguire una radiografia che risultò del tutto normale. E allora l’osteosarcoma scomparve dalla mia mente e fu relegato nella soffitta delle cose dimenticate.


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