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DIARIO DI UN MEDICO Seconda puntata
Inserito il 07 gennaio 2024 da admin. - Narrativa - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  



Questa è la seconda puntata di un breve racconto che abbiamo trovato nelle pagine ingiallite di un vecchio diario tenuto da un medico di campagna.
Qui la prima puntata: http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8307
Buona lettura.

Renato Rossi


Durante gli ultimi due anni di corso frequentai un reparto di clinica medica. Mi piaceva la medicina interna. Amavo il ragionamento diagnostico e le sue difficoltà. Spesso il professore ci metteva alla prova, voleva vedere la nostra abilità. Adesso studiavamo l’uomo vivo e non più il cadavere. Si trattava di uomini e donne in carne e ossa, con le loro sofferenze e le loro paure. Queste sofferenze erano la materia del nostro studio. Ma non condividevo molto il modo in cui lo facevamo.
Un giorno discutevamo sul caso di una donna che era stata colpita da un ictus. Doveva soffrire molto perché le si erano formate delle piaghe da decubito sull’osso sacro e alle caviglie. Osservavo l’infermiera che, con gesti delicati, medicava quelle ferite mentre il professore spiegava impassibile perché bisogna usava quel tal antibiotico e non il talaltro. E mi sembrava, forse sbagliando, di percepire nel suo tono una nota di indifferenza e quasi di fastidio. La povera malata aveva metà del corpo paralizzato, faceva fatica a respirare e non poteva parlare perché l’ischemia aveva danneggiato il cento cerebrale del linguaggio. Guardava il professore e poi noi, alternativamente, e mi parve che i suoi occhi dicessero che lei non è un animale da circo da mettere in mostra. Negli studenti miei compagni di corso coglievo solo un interesse professionale ma non umana pietà, ascoltavano il professore e prendevano appunti, come da questo dipendesse la loro vita. Solo nei gesti dell’infermiera, che girava delicatamente l’ammalata e puliva la piaga con l’antisettico e poi apponeva le bende, notai gentilezza e bontà. Quando gli altri passarono in un’altra stanza mi fermai ad aspettare che quell’infermiera avesse finito la sua opera pietosa. Le chiesi se la malata avesse mai parlato. Mi rispose che le parlava sempre, ma non con la bocca, con i suoi occhi chiari.
– Che cosa le dice? – domandai.
– Mi dice grazie per quello che faccio e che Dio me ne renderà merito quando sarà il momento. Forse mi sbaglio, ma questo leggo nei suoi occhi.
Il professore ci insegnava come si esegue una puntura lombare oppure una toracentesi e si arrabbiava con il povero malato perché si torceva per il dolore e per la paura. Mi ripromettevo che non sarei diventato insensibile alle sofferenze degli altri. Una volta espressi questi sentimenti a un medico che mi aveva preso un po’ in simpatia. Mi rispose che una certa durezza d’animo nei medici è necessaria per poter esercitare la professione con equilibrio e distacco. Il medico non può e non deve lasciarsi prendere dalle emozioni.
– Si ricordi che il medico pietoso fa la piaga purulenta – disse a conclusione del suo discorso.
Pensai a lungo a questa frase e probabilmente era vera. Eppure ci doveva essere una via di mezzo.
Durante una delle dimostrazioni pratiche in corsia entrammo in una stanza dove era ricoverata una ragazza molto giovane. Avrà avuto non più di sedici anni. L’assistente che ci seguiva illustrò il caso. Da piccola aveva sofferto di reumatismo articolare acuto. Purtroppo ne era risultata una lesione a carico delle valvole cardiache. L’assistente ci spiegò che in questi casi l’auscultazione del cuore permette di rilevare un soffio abbastanza caratteristico durante la fase del ciclo cardiaco.
– Si tratta di un reperto molto importante – disse l’assistente – che dovete imparare bene a riconoscere perché vi permetterà di fare subito la diagnosi.
L’assistente proseguì spiegandoci che la paziente, da un paio di mesi, aveva cominciato ad accusare mancanza di respiro e tosse. Con il catarro qualche volta emetteva anche un po’ di sangue.
– Si tratta di segni caratteristici della stenosi mitralica – disse l’assistente – dovete memorizzarli per bene e questo vi sarà di sicuro utile in futuro.
L’infermiera che era con noi si rivolse alla ragazza e le chiese di spogliarsi per la visita. La giovane aveva un viso cosparso di lentiggini e il naso all’insù. Probabilmente era molto timida. Infatti ci guardava e si teneva le mani sul petto quasi a difendersi. Aveva i capelli corti di color castano chiaro che formavano dei riccioli sulle tempie. Il mento era ben disegnato e le guance molto pallide. Gli occhi erano spaventati. Mi guardò di sfuggita e i nostri sguardi si incrociarono per un attimo. Le sorrisi per cercare di infonderle un po’ di coraggio, ma lei distolse subito gli occhi.
– Dai, non fare la preziosa – disse l’infermiera – i dottori qui hanno altro da fare che aspettare i tuoi comodi. Non hai motivo di vergognarti, sai quanti ne vedono come te!
Così dicendo cominciò a toglierle la maglietta del pigiama e poi le sganciò il reggiseno e la fece sdraiare sul letto. Lei cercava con le mani di coprirsi, ma l’infermiera, implacabile, lo impediva. Uno dei miei colleghi, antipatico e che non avevo mai potuto sopportare, mi diede di gomito e mi strizzò l’occhio. Vidi che altri due studenti sorridevano maliziosi.
L’assistente ci invitò a visitare la giovane. Lei aveva girato la testa verso la finestra e il viso era diventato di color porpora. Teneva gli occhi chiusi.
Quando fu il mio turno appoggiai delicatamente lo stetoscopio sul torace cercando di esercitare la minor pressione possibile. In quel momento lei si girò e aprì gli occhi: erano di un bel colore marrone, con alcune striature verdi. Poi li chiuse. Io mi ritrassi subito, non volevo prolungare oltre quello che lei probabilmente considerava un oltraggio. L’assistente mi chiese se avevo udito il soffio cardiaco e io risposi di sì. Mi ripromisi di tornare in seguito da quella ragazza per domandarle scusa, ma quando lo feci nella stanza c’erano i suoi genitori. Io farfugliai che avevo sbagliato numero di stanza, e me ne andai.


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