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La delegazione italiana salva i bambini di Baghdad

Data : 26 dicembre 2004
Autore : admin

Pagina: 1 - Le lacrime di Alì

Nei corridoi polverosi dell’ospedale infantile Al Mansud il frastuono provocato dalle urla e dai lamenti dei piccoli pazienti mi impedisce di dialogare correttamente con i colleghi irakeni. Ovunque ci sono bambini in lacrime, denutriti, alcuni sotto una coperta appena deceduti, madri sedute per terra che allattano i loro piccoli, padri infuriati nel vedere i loro bambini in preda a sofferenze indescrivibili. Abdul Majeed Hammadi, direttore del reparto ematologico dell’ospedale pediatrico di Baghdad, mi spiega come tutti i servizi siano sospesi a causa della mancanza di corrente elettrica e di acqua. Le sale operatorie sono ferme, gli ambulatori non funzionano, la disinfezione è impossibile; mancano farmaci, soluzioni di infusione endovenosa e sangue trasfusionale.

Benché venga continuamente coinvolto nelle disperate richieste di aiuto dei genitori dei bambini ricoverati, cerco di spiegare ai responsabili dei reparti di degenza come il nostro arrivo in Iraq sia finalizzato a portare loro soldi, attrezzature e farmaci, grazie ai finanziamenti del “Il Giornale” e dell’”Unità” in collaborazione con l’ospedale infantile Burlo Garofolo di Trieste.

La mia visita continua, il mio sguardo incrocia spesso quello disperato ed interlocutivo dei genitori e dei loro bambini. Percepisco come le loro espressioni raccontino le paure e le sofferenze passate, ma anche come in loro ci sia la speranza, anche grazie al nostro aiuto, di poter superare e risolvere i loro problemi.

Le lacrime scorrono lentamente segnando il viso di Ali Iaseim, un bambino di 4 anni. Il padre disperato me lo porge nel tentativo di cogliere la mia attenzione e a gesti mi implora di aiutare il suo piccolo. La spalla sinistra è vistosamente avvolta da una benda che cerca di fermare un’emorragia che continua da giorni. Il tumore di cui è affetto il bambino è benigno e se l’ospedale funzionasse e, se ci fossero i chirurghi adatti, potrebbe essere asportato. I medici mi raccontano come il padre abbia attraversato il deserto a piedi con il piccolo in braccio per arrivare a Bagdad dal nord dell’Iraq e come, dopo la guerra, il suo villaggio sia incapace di sopravvivere economicamente. Ma molte sono le storie di degrado, Saja Naim, una stupenda bambina di 12 anni dagli occhi neri sta morendo per una leucemia acuta. Durante la guerra, dopo aver perso nei bombardamenti sia la casa che la loro attività di sostentamento, lei e la sua famiglia hanno dovuto vivere nei sobborghi di Bagdad. Ma ora, proprio quando la speranza di ricostruire la propria vita in un paese libero cominciava ad essere consistente, Saja si ammala, è sempre più debole, pallida, perde sangue, ha febbre. Il padre la porta in ospedale dove i medici utilizzano l’ultimo ago per biopsia midollare che ancora avevano. Il responso è drammatico, la prognosi è infausta e se non potrà essere trapiantata a Saja mancano solo pochi giorni di vita.

Mi sentivo impotente, avevamo consegnato gli stipendi al personale dell’ospedale per l’ammontare di 25000 dollari, avevamo portato antibiotici, chemioterapici e fattori antiemofilici per altri 15.000, ma mentre visitavo quella bambina il senso di frustrazione per non riuscire a dare speranza ai genitori e a salvare le vite di questi bambini annebbiava tutti i miei pensieri.

Mi rivolgo allora alla delegazione italiana in Iraq, presieduta da Gian Ludovico de Martino, che avevo avuto l’occasione di sentire per telefono alcuni giorni prima. Il loro lavoro è encomiabile, in tutto il periodo nel quale sono stato a Bagdad si sono preoccupati di conoscere la mia posizione ed i miei spostamenti. Ma ora avevo bisogno di qualcosa di più, avevo bisogno di un loro appoggio per portare in Italia i bambini più gravi e quelli che non potevano essere curati a Bagdad. Ero scettico, troppe erano le difficoltà, indescrivibili i cavilli burocratici possibili, ma per fortuna mi sbagliavo. Già dopo poche parole mi rendevo conto della disponibilità e dell’umanità della nostra delegazione. Non solo mi viene promesso tutto l’aiuto per riuscire a portare in Italia 10 bambini, ma la delegazione si sarebbe occupata anche di fornire i documenti necessari all’espatrio sia dei piccoli pazienti che dei genitori accompagnatori.

Esco dall’ambasciata più sereno e fiducioso, ancora angosciato per tutto quello che mi resta da fare; ma vi assicuro che nella situazione in cui mi trovavo sapere di contare sull’aiuto del proprio paese non è una cosa da poco.
Massimiliano Fanni Canelles




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