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La responsabilità giuridica del medico
Inserito il 30 agosto 2000 da admin. - medicina_legale - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

(Monografia dell’Avv. Bruno Sechi del Foro di Cagliari)



L’attività medica è tra le attività umane piu’ difficoltose.
Essa viene ad incidere direttamente su beni primari quali la vita e l’incolumità psicofisica; per questo motivo essa è un’attività rischiosa.
Secondo autorevole dottrina, si tratterebbe di un’attività autorizzata che comporta, ai fini del suo espletamento, l’accettazione di un ragionevole livello di rischio.
Sarebbe impensabile, pertanto, un’attività medica che non si muovesse nell’ambito di uno standard di rischio, non sentito come un fatto riprovevole dalla collettività, ma un’utilità sociale.
Non si può concepire l’assenza di un minimo dolore, fastidio o sacrificio nel piu’ banale intervento medico.
Il medico è stato ed è una figura molto importante nella società, e piu’ d’ogni altro consociato, è soggetto ad un continuo vaglio critico.
Il progresso tecnologico e le scoperte scientifiche, applicati al campo della medicina, hanno permesso di combattere efficacemente e debellare numerose patologie.
E’ migliorata la prevenzione contro l’insorgere di molte malattie, anche gravi, e passi consistenti sono stati compiuti nella marcia contro le grandi, che affliggono la nostra epoca.
L’attività medica, nelle sue manifestazioni (prevenzione, prognosi, diagnosi, intervento, trattamento terapeutico), ha guadagnato in efficienza e precisione, grazie al progresso tecnologico.

Dal panorama normativo e giurisprudenziale, nonostante le oscillazioni e le contraddizioni di quest’ultimo, emerge un dato costante, costituito dall’esigenza di assicurare la piena ed effettiva tutela della salute degli individui (art. 32 Cost.).
Il medico, inoltre, dovrebbe avere una certa libertà d’intervento, di modo che non sia esposto a continue minacce di gravi sanzioni e "ritorsioni" giuridiche da parte del paziente.
Questo sistema dovrebbe consentire al medico l’esercizio della sua attività con serenità, discrezionalità, senza che quest’ultima si traduca in arbitrio.
La Relazione ministeriale al codice civile precisa, in sostanza, che le due esigenze suindicate sono poste a fondamento del regime di responsabilità giuridica del medico.
Passiamo, ora, ad analizzare la responsabilità civile, la cui disciplina è contenuta essenzialmente nel codice civile; essa si suddivide in responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La prima acquista rilevanza nell’ambito di un rapporto contrattuale, intercorrente tra il medico ed il paziente, che scaturisce dal contratto d’opera ex art. 2229 c.c. e ss.
Fondamentali sono i principi contenuti nei seguenti artt.: 2236 c.c. ( responsabilità del prestatore d’opera ): " Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave ";
art. 2232 c.c. ( esecuzione dell’opera ): " Il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto. Può tuttavia valersi, sotto la propria direzione e responsabilità, di sostituti e ausiliari, se la collaborazione di altri è consentita dal contratto o dagli usi e non è incompatibile con l’oggetto della prestazione ";
l’art. 2230 c.c. rinvia alle norme compatibili con quelle suindicate, che sono comprese nel Titolo III, capo I ( disposizioni generali sui contratti d’opera ).
A tal proposito, assume indicativa rilevanza la disposizione di cui all’art. 2228 c.c. (Impossibilità sopravvenuta dell’esecuzione dell’opera): " Se l’esecuzione dell’opera diventa impossibile per causa non imputabile ad alcuna delle parti, il prestatore d’opera ha diritto ad un compenso per il lavoro prestato in relazione all’utilità della parte dell’opera compiuta ".
Inoltre, occorre rilevare che in virtù dell’art. 1256 c.c. l’impossibilità definitiva della prestazione, per causa non imputabile al debitore, estingue l’obbligazione, dedotta in contratto.
L’istituto in esame costituisce un elemento essenziale, ai fini dell’esenzione da responsabilità del debitore.
Infatti, l’art. 1218 c.c. così recita: " Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile ".
Il creditore, che abbia interesse al risarcimento del danno, ha l’onere di provare in giudizio l’inadempimento del convenuto; quest’ultimo, affinché sia esente da responsabilità contrattuale, deve provare che l’inadempimento non è a lui imputabile, e che egli ha tenuto il comportamento richiesto dalla legge e dalle pattuizioni contrattuali.
Nell’ambito della responsabilità contrattuale, il paziente deve, pertanto, provare l’inadempimento del medico, e non necessariamente il dolo (o la colpa ), e il danno conseguente.
Deve, inoltre, dimostrare che l’intervento concordato era di facile esecuzione, allo scopo di far valere la responsabilità per colpa lieve.
Il medico deve provare di aver adottato, con diligenza, tutti i mezzi e gli strumenti, acquisiti alla scienza medica del momento storico considerato.
Secondo un’autorevole giurisprudenza ( Cass. civ. sez. III 30 maggio 1996 n° 5005 ), poiché si tratta di un’obbligazione di mezzi e non di risultati, la prova della relativa responsabilità è sganciata dall’accertamento del danno psicofisico.
Il consenso, quale momento che integra l’accordo ex art. 1325 c.c., acquista un particolare rilievo nell’ipotesi d’interventi medici.
Il consenso, in via generale, esprime l’accettazione a ricevere la prestazione contrattuale, ed il contratto, in virtu’ dell’art. 1326 c.c., s’intende concluso quando il proponente " ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte ".
Nelle ipotesi contrattuali in oggetto, il consenso o accettazione si rivolge ad interventi o prestazioni d’alto contenuto tecnico, che sfuggono alle normali conoscenze dell’individuo.
Si è posto, quindi, il problema di assicurare al paziente il diritto ad esprimere il consenso sulla base delle indicazioni precise e chiare che il medico deve fornire.
Lo scopo è di porre il paziente nelle condizioni di valutare e soppesare i rischi e le conseguenze che un intervento medico potrebbe comportare.
Il paziente deve essere "informato",in modo completo e preciso, del suo stato di salute, del ventaglio di possibilità degli interventi, offerte dalla scienza medica, e degli eventuali rischi.
Si tratta, cioè, di porre il paziente in grado di prestare il cosiddetto "consenso informato".
Dal punto di vista civilistico, il consenso informato costituisce un elemento essenziale del contratto medesimo; il consenso, non preceduto dalla corretta e chiara informazione medica, non è da considerare valido, facendo venir meno l’elemento fondamentale dell’accordo di cui all’art. 1325 n. 1 c.c.
Dal consenso non informato le conseguenze invalidanti il contratto sono diverse secondo l’impostazione giuridica che si segue per la definizione della relativa problematica.
Se da esso consegue la mancanza dell’accordo, quale elemento essenziale, il contratto è nullo ex art. 1418 c.c.; se, invece, si ammette la sussistenza dell’accordo, fondato sul consenso "dato per errore" o "carpito con dolo", il contratto è annullabile ex art. 1427 c.c.
Le differenze tra la nullità e l’annullabilità sono rilevanti sul versante della legittimazione ( art. 1421 c.c. per la nullità; art. 1441 c.c. per l’annullabilità ), della prescrizione ( imprescrittibilità dell’azione di nullità ex art. 1422 c.c.; prescrizione quinquennale dell’azione d’annullamento ex art. 1442 c.c. ), della convalida ( inammissibilità della convalida del contratto nullo ex art. 1423 c.c.; convalida del contratto annullabile ex art. 1444 c.c. ) ecc……..
Con riferimento al consenso informato, è da segnalare il Ddl Camera n. 5673 intitolato " Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari.
Nel Ddl in discussione alla Camera dei Deputati si prevede il principio generale in base al quale " ogni persona ha il diritto di conoscere i dati sanitari che la riguardano e di esserne informata in modo completo e comprensibile……….."; la persona può nominare una persona di fiducia che provvederà a prestare il consenso per suo conto; inoltre, la persona incapace, in assenza di persona di fiducia, è rappresentata, nella manifestazione del consenso, da una persona nominata direttamente dal Giudice tutelare, su segnalazione dell’istituto di ricovero o di chiunque sia venuto a conoscenza dello stato d’incapacità.
La ormai unanime giurisprudenza di legittimità considera informato il consenso che sia preceduto dalle informazioni sui benefici, modalità d’intervento, sui rischi, sulla natura dell’intervento, sulla qualità dei risultati, sulla possibilità o probabilità del loro conseguimento ecc……
Il principio ora esposto è applicato anche agli interventi di équipe medica; esso trova una deroga nelle ipotesi di stato di necessità ed urgenza in virtu’ del combinato disposto degli artt. 13 e 32 Cost. ( Cass. Civ. Sez. III 15 gennaio 1997 n° 364; sez. III 8 aprile 1997 n° 3046; sez. III 25 novembre 1994 n° 10014 ).
In tali casi, la tutela della salute dell’individuo, quale bene primario, non può aspettare un consenso e tanto meno un’informazione adeguata da parte del responsabile medico.
Il mancato tempestivo intervento medico potrebbe compromettere la sopravvivenza dell’individuo o la sua guarigione.
Nel quadro ipotetico, desumibile dalle norme costituzionali suindicate, può verificarsi il caso di una malattia infettiva e, quindi, di seri pericoli di diffusione.
La mancata informazione o l'assenza del consenso non inficia la validità e l’opportunità di un intervento immediato.
Autorevole giurisprudenza di legittimità stabilisce che la mancata informazione medica concretizza un concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, qualora ne derivasse un danno alla salute.
La Corte di legittimità ( Cass. Sez. III 6 ottobre 1997 ), in un caso da questa esaminata, relativo all’intervento di chirurgia estetica, ha ritenuto che l’inadempimento del dovere di informazione è causa della responsabilità contrattuale;
sorge, accanto a quest’ultima, la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., qualora si verificassero danni psicofisici, conseguenti al trattamento o intervento chirurgico, eseguiti senza informare il paziente.
Secondo la Corte che si considera, rientrano nella sfera di responsabilità del medico i rischi, connessi ai trattamenti medici o alle relative modalità, che non siano stati preventivamente " comunicati" al paziente.
Quest’ultimo, in virtu’ della corretta informazione sui rischi concreti, è messo nelle condizioni di scegliere; la scelta consapevole e "informata" del paziente libererebbe "a priori" il medico da responsabilità, salvo riscontrare errori o colpa nella esecuzione degli interventi richiesti.
Il concorso di responsabilità, se accertata,legittima il paziente a richiedere ed ottenere un doppio risarcimento dei danni ( danno da inadempimento contrattuale e danno biologico ex art 32 Cost. e art. 2043 c.c. ).

Colpa lieve e colpa grave
Un problema che è stato al centro di accesi contrasti in dottrina e giurisprudenza, è costituito dalla rilevanza giuridica della colpa lieve e della colpa grave.
Qui accenneremo ai profili contrattuali delle due figure in oggetto.
Occorre premettere che la giurisprudenza piu’ accreditata ritiene che la diligenza del professionista deve essere valutata in base all’art. 1176 co. 2 c.c.( " Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata " ).
Trattasi, in altri termini, della diligenza specifica, diversamente da quella ordinaria di cui all’art. 1176 co. 1 c.c., riferita all’uomo di normali capacità ( buon padre di famiglia ).
La diligenza del professionista consiste nella " scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale; secondo la giurisprudenza di legittimità ( Cass. civ. sez. III 12 agosto 1995 n° 8845 ), può rispondere per negligenza o imprudenza, senza distinguere tra colpa lieve e grave.
Il regime di responsabilità, nelle ipotesi suindicate, è improntato ad un particolare rigore, poiché dal medico e dal professionista in genere si pretende una preparazione adeguata e la massima attenzione esigibile ( Cass. civ. sez. III 18 ottobre 1994 n° 8470).
Per colpa lieve s’intende la omissione di diligenza ( o negligenza ), dovuta alla preparazione non coerente al caso concreto, e causante un danno nella esecuzione dell’intervento operatorio o nell’ambito della terapia medica.
Concretizza l’ipotesi di negligenza per colpa lieve la mancata informazione sui probabili esiti invalidanti dell’intervento chirurgico, nella ipotesi dell’interruzione di gravidanza ex art. 14 l. 22 maggio 1978 n° 194 ( Cass. civ. Sez. III 8 luglio 1994 n° 6464 ).
Per colpa grave ex art. 2236 c.c. s’intende la grossolanità dell’errore , dovuta dovuta alla violazione delle regole e mancata adozione degli strumenti, e quindi di quelle conoscenze che rientrano nel patrimonio minimo del medico, poiché acquisite alla scienza medica.
La figura della colpa grave trova la sua ragion d’essere nelle ipotesi di casi clinici particolarmente complessi, o perché non ancora sperimentati o non studiati in modo approfondito ( Cass. civ. Sez. III 26 marzo 1990 n° 2428; 12 agosto 1995 n° 8845; 8 marzo 1979 n° 1441 ).
Per tale motivo, la giurisprudenza piu’ accreditata stabilisce che la colpa grave ex art. 2236 c.c. si applica nelle ipotesi di imperizia , nell’ambito di interventi complessi, secondo il significato suriportato ( Cass. civ. Sez. III 3 marzo n° 2466 ).
L’imperizia dovuta a colpa grave consiste nella totale difformità del metodo o tecnica scelti, dalle conoscenze acquisite alla scienza e pratica mediche, "sia per l’approvazione delle autorità scientifiche o per la consolidata sperimentazione".
Le conoscenze acquisite ufficialmente alla scienza medica devono costituire il "necessario corredo culturale e professionale del medico" del settore corrispondente.
Invero, il professionista ha una libertà di scelta tra le terapie e i metodi che la scienza offre.
Autorevole giurisprudenza ritiene che non si ravvisano gli estremi della colpa grave, qualora il medico abbia scelto, in alternativa, un rimedio che, pur essendo giudicato dal mondo scientifico non in maniera univoca, non sia però da questo scartato ( Cass. civ. Sez. III 13 ottobre 1972 n° 3044 ).
A tal proposito, soccorre la Cass. civ. Sez. III, con la sentenza dell’8 settembre 1998 n° 8875: essa stabilisce che la scelta di un metodo rischioso, rispetto ad un altro sicuro, costituisce il momento iniziale della responsabilità del medico, qualora la situazione pericolosa non venga superata con esito felice; qualora, cioè, l’intervento non migliori il quadro clinico o lo peggiori, anche per il verificarsi di una complicanza, la responsabilità del medico è ricollegabile al momento della scelta iniziale sul metodo.
Nell’ipotesi di inadempimento del medico, dipendente di una casa di cura privata, la Giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistente la responsabilità diretta contrattuale ex art. 1218 c.c. del medico e la responsabilità dell’istituto privato ex art. 2049 c.c. (responsabilità dei padroni e dei commessi) ( Cass. civ. sez. III 11 marzo 1998 n° 2698 ).
Nell’ambito di intervento richiesto ad una struttura ospedaliera pubblica, la responsabilità di quest’ultima e del medico dipendente è disciplinata in via analogica dalle norme sul contratto d’opera professionale.
Infatti, tra l’Ente ospedaliero e l’utente si instaura un rapporto contrattuale, e le prestazioni dedotte in contratto hanno natura professionale.
Pertanto, non trovano applicazione nei confronti del medico gli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, in relazione alla responsabilità degli impiegati civili dello Stato (Cass. civ. Sez. III 27 maggio 1993 n° 5939; 11 aprile 1995 n° 4152; 1 marzo 1988 n° 2144 ); il medico, in sede giudiziaria, non è surrogato dall’Ente pubblico di appartenenza, ma può essere convenuto direttamente nel giudizio civile, e rispondere dei danni da esso causati.
Si può riscontrare una disparità di trattamento giudiziario dei medici pubblici rispetto ai colleghi impiegati: infatti, quest’ultimi rispondono davanti alla Corte dei Conti degli eventuali danni erariali, subiti dall’Ente pubblico, in seguito alla sua condanna civile al risarcimento dei danni, in favore del cittadino ( il danno erariale è commisurato all’effettivo esborso al cittadino della somma liquidata dal Giudice, a titolo di risarcimento).
Il pubblico impiegato è responsabile nei confronti della Pubblica Amministrazione per i danni erariali, a titolo di dolo o colpa grave ; invece, il medico, pubblico dipendente, risponde, eventualmente,in sede civile anche per colpa lieve, nelle ipotesi di negligenza o/e imprudenza; nelle ipotesi di imperizia risponde solo a titolo di colpa grave ( Cass. civ. Sez. III 19 maggio 1999 n° 4852 ).

Responsabilità extracontrattuale
L’ipotesi generale di responsabilità extracontrattuale o acquiliana è disciplinata dall’art. 2043 c.c. ( " Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno " ).
La responsabilità in esame sorge in capo al soggetto che abbia violato il principio del neminem laedere ( divieto di ledere una situazione soggettiva altrui, meritevole di tutela giuridica ), indipendentemente da un inadempimento contrattuale.
L’opinione, ormai consolidata sulla nozione di illecito civile, consiste nel ritenere questo, come qualunque fatto che cagiona un danno, considerato ingiusto sulla base dei principiu dell’ordinamento giuridico.
E’, pertanto, ingiusto il danno, qualora sia lesivo di una situazione giuridica soggettiva, meritevole di tutela.
Il fatto dannoso può essere causato da un comportamento commissivo od omissivo, connotati dal dolo o colpa.
Un altro elemento essenziale dell’illecito civile è il nesso casuale tra la condotta umana e il danno ingiusto; la legge prevede, a carico dell’attore, un onere probatorio che deve comprendere la condotta, il danno ingiusto, il nesso di causalità e l’elemnto psicologico del dolo o della colpa.
Invece, nell’ambito della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. l’attore deve provare solamente l’inadempimento negoziale.
In relazione alla problematica della colpa grave , possiamo rimandare al paragrafo relativo alla responsabilità contrattuale; basti qui ricordare che la giurisprudenza maggioritaria, nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, ammette l’applicazione dell’art. 2236 c.c. ( colpa grave ), nelle ipotesi di imperizia, collegate ad interventi di particolare complessità.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 1176 c.c. ( colpa lieve ), spetterà al paziente danneggiato provare che l’intervento era di facile soluzione e che le condizioni di salute hanno registrato un peggioramento; deve, cioè, provare che si trattava di un’attività ordinaria ex art. 1176 c.c., attraverso dati obbiettivi ( cartelle cliniche, certificazioni mediche, perizie mediche etc…. ); deve provare la non corretta esecuzione o l’inadeguatezza della prestazione professionale.
Il medico, convenuto in giudizio, dovrà al contrario, provare di aver tenuto un comportamento, basato sulla diligenza, prudenza e perizia; dovrà dimostrare la totale assenza di dolo o colpa, nella esecuzione dell’attività medica nella ipotesi concreta ( Cass. civ. Sez. III 1 febbraio 1991 n° 977 ).
Secondo altra autorevole giurisprudenza ( Cass. civ. sez III 18 giugno 1975 n° 2439 ), il medico è esente da responsabilità, qualora provi in giudizio la impossibilità della corretta esecuzione della prestazione professionale, dovuta a cause a lui non imputabili, quali il caso fortuito o la forza maggiore.
Il danno risarcibile in concreto deve essere suscettivo di valutazione economica; le figure di danno risarcibile sono le seguenti:
danno patrimoniale, il quale incide negativamente sulla sfera economica del soggetto. Ai sensi dell’art. 2056 c.c. che rinvia all’art. 1123 c.c., il risarcimento deve comprendere la perdita subita o danno emergente ( per es. le spese per nuove cure mediche ecc… ) e il mancato guadagno o lucro cessante ( per es. la lesione alla integrità psicofisica, la perdita della capacità di produrre reddito ecc… ).
Quest’ultima forma di danno, in virtu’ dell’art. 2056 co. 2 c.c., è valutata dal giudice in via equitativa; inoltre, la valutazione equitativa costituisce il criterio residuale per la liquidazione del danno ( emergente e lucro cessante ), qualora questo non possa "essere provato nel suo preciso ammontare" (art. 1126 c.c. al quale fa rinvio l’art. 2056 c.c. ).
I danni risarcibili devono costituire "conseguenza immediata e diretta della condotta illecita ( art. 1223 c.c. ).
Si ricorda che l’art. 2056 c.c. non estende al risarcimento del danno extracontrattuale l’art. 1225 c.c.; infatti, secondo lo spirito rigoristico del legislatore è previsto il risarcimento, anche per i danni non prevedibili al momento iniziale dell’intervento medico.
Differente dal danno patrimoniale in senso stretto è il danno biologico o lesione all’integrità psicofisica.
Il danno biologico è risarcibile in base al combinato disposto degli artt. 32 Cost. e 2043 c.c.; esso, costituisce una lesione del diritto fondamentale alla salute (art. 32 Cost.) ed è direttamente risarcibile, attraverso il meccanismo di cui all’art. 2043 c.c. (vedi fra tutte Corte Cost. n° 184/86).
Si tratta di un danno liquidabile dal giudice in via equitativa, e che si manifesta in varie forme quali il danno estetico, , il danno esistenziale,il danno alla vita di relazione.
Quest’ultimo limita o impedisce l’esercizio delle attività quotidiane, normali, che siano, cioè, complementari rispetto all’attività lavorativa (Cass. 82/6847; 80/5606; 85/5197; 80/168; 79/5544; 68/1886; 67/2819).
Alcuni Autori individuano il danno biologico anche nella violazione del diritto a vivere serenamente, derivante da un errore diagnostico e informazione errata.
L’ipotesi può concretarsi qualora il medico abbia comunicato al paziente d’essere affetto da una gravissima malattia.
Giurisprudenza autorevole (Cass. civ. sez. III 1987 n. 2580), considera biologico il danno conseguente a continui ed inutili trattamenti terapeutici, o a lungaggini causate da disorganizzazione o carenze della struttura ospedaliera (Cass. 87/2580).
A tal proposito, è importante sottolineare la recente sentenza della Cassazione sez. III n. 6118 del 2000; la pronuncia in esame attribuisce al medico la responsabilità per i danni subiti dal paziente, qualora non lo abbia informata della possibile inadeguatezza o disorganizzazione della struttura ospedaliera.
In un’altra sentenza (n. 2750 del 13 marzo 2000), la medesima Corte stabilisce che il medico deve adottare le misure idonee a superare le eventuali carenze organizzative (mancanza del cardiotocografo). Nel caso esaminato, il ginecologo avrebbe dovuto ovviare alla mancanza dello strumento cardiotocografico, con una "frequente ed efficace auscultazione del battito fetale"; inoltre, rientra nella sua competenza coordinare i compiti dell’équipe medica, per evitare danni o lesioni.
La sentenza n. 6318 del 2000 sopraccitata, affronta anche la complessa questione della responsabilità medica, nell’ambito di un intervento in équipe.
Il caso affrontato dalla Corte suprema riguarda la cerebropatia del neonata (lesioni al sistema nervoso) per asfissia neonatale, in un parto prematuro.
La Cassazione ha rilevato la disfunzione del cardiotocografo nella struttura ospedaliera e ha stabilito che quest’inconveniente non ha consentito un monitoraggio della frequenza cardiaca fetale; infatti, secondo i consulenti tecnici " durante le fasi del travaglio (il cardiotocografo) costituisce una fonte d’informazione utile nella diagnosi precoce della sofferenza fetale ".
La sentenza, che qui si commenta, enuclea alcuni principi fondamentali nell’ambito della responsabilità extracontrattuale del medico.
In essa sono precisati i doveri inerenti al primario e al medico assistente. Occorre premettere che il primario non va esente da responsabilità, qualora il paziente ricoverato sia stato assegnato al medico assistente.
In tale ipotesi (assegnazione ad altro medico), il primario ha il dovere di dare istruzioni, direttive adeguate, e di verificarne la " puntuale attuazione " (v. art. 7 DPR 27 marzo 1969 n. 128).
Qualora, invece, il ricoverato sia assegnato al primario medesimo, il medico assistente dovrà adempiere i doveri legati alla sua " posizione funzionale d’aiuto o di assistente ",e sarà liberato da qualsiasi responsabilità, se dimostra di aver eseguito le prescrizioni "ragionevolmente corrette".
Nell’ipotesi di assegnazione del ricoverato ad altro medico si stabilisce:
dal primario non è esigibile " un controllo continuo ed analitico " di tutte le attività terapeutiche; il primario ha il dovere di informarsi dello stato di ogni paziente, di seguirne il decorso e di dare le opportune istruzioni;
il primario, sulla base delle notizie acquisite o che aveva il dovere di acquisire , ha l’obbligo di prendere le iniziative necessarie, i provvedimenti adeguati alle esigenze terapeutiche e di controllare la correttezza delle istruzioni, date dagli altri medici.
Nella fattispecie esaminata dalla Cassazione sopraccitata, il primario deve adottare o disporre e controllare che siano adottati gli accorgimenti idonei ad ovviare alle deficienze ospedaliere ed informare la paziente del " maggior rischio connesso ad un parto che si svolga senza il presidio dello strumento " (Cass. Pen. 95/4385).
Il dovere di informazione è tanto piu’ richiesto, qualora siano prevedibili complicazioni come nell’ipotesi di parto prematuro.
Il primario, pertanto, ha il compito di vigilare sull’attività degli altri medici e di prevedere possibili complicanze ed errori.
Nella decisione in esame, emerge anche la figura del medico di fiducia della partoriente, che sia anche dipendente della struttura ospedaliera ospitante.
La Corte di Cassazione stabilisce che il medico di fiducia:

non è responsabile per le disfunzionalità e le carenze dell’ospedale;
ha l’obbligo di prestare ogni attenzione e cura che non siano incompatibili con le mansioni di pubblico dipendente ( v. anche Cass. 98/2750 che stabilisce un obbligo di assistenza costante al parto, senza trascurare i doveri di pubblico dipendente );
ha il dovere di " sconsigliare il ricovero in un ospedale inadeguato", provvedere all’auscultazione del battito cardiaco del feto, accertarsi delle condizioni di salute del paziente, recandosi in ospedale anche fuori dall’orario di servizio;
ha il dovere di segnalare il caso al primario, " chiedere di essere informato dell’inizio e decorso del travaglio ", rimarcare la necessità dell’accelerazione del parto ecc………
L’altra voce di danno risarcibile è il danno morale ex art. 2059 c.c. ( perturbamento psichico transeunte ), che deve integrare un fatto-reato ( v. art. 2059 c.c., art. 198 c.p. ); il relativo risarcimento costituisce il "pretium doloris ".
La giurisprudenza maggioritaria di legittimità stabilisce che, anche nelle ipotesi di estinzione del reato o di improcedibilità dell’azione penale, il giudice civile adito ha l’obbligo di accertare la sussistenza degli estremi del reato ( Cass. 68/748; 71/3596; 75/1022; 84/699; 86/3093 ).

Responsabilità penale
Bisogna premettere che, nell’ambito della responsabilità penale, i principi fondamentali sono i seguenti:

i principi di legalità, di tassatività e di irretroattività della legge penale ( artt. 25 Cost., 1 , 2 c.p. ), salvo, in quest’ultimo caso, l’applicazione retroattività della legge penale piu’ favorevole ( art. 2 co. 3 c.p. );
la responsabilità penale è personale ( art. 27 Cost.; art. 45 c.p. );
il soggetto è punibile, qualora sia imputabile al momento della commissione del fatto ( capacità di intendere e volere ex art. 85 c.p. );
la condotta deve essere volontaria ( suitas ex art. 42 c.p. );
sussiste la responsabilità generale per dolo, salvo le ipotesi, espressamente previsti dalla legge penale, di delitti colposi e preterintenzionali; occorre, ai fini della responsabilità penale, l’elemento psicologico del dolo o, nei casi previsti, della colpa;
il principio di causalità è basato sul criterio della conditio sine qua non (condizione essenziale ex art. 41 c.p.);
la punibilità é esclusa in presenza di una delle cause di giustificazione previste dalla legge penale ( consenso dell’avente diritto ex art. 50 c.p.; l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p.; la difesa legittima ex art. 52 c.p.; l’uso legittimo delle armi ex art. 53 c.p.; lo stato di necessità ex art. 54 c.p. ).
E’ necessario ripercorrere brevemente l’iter giurisprudenziale sulla responsabilità penale del medico, dal secondo dopoguerra.

-I° orientamento: la colpa del medico è da valutare " con larghezza di vedute ", poiché non è previsto un metodo obbligatorio " di indagine e di cura ".
a tal fine acquista rilevanza penale "l’errore grossolano" che dipende dall’ignoranza dei principi elementari che rappresentano il livello minimo di cultura e preparazione medica, esigibile dal professionista sanitario.
In altre parole, si ha responsabilità penale del medico qualora questi violi i doveri di diligenza, prudenza comuni e di perizia.
-II° orientamento ( Cass. sez. IV 22 gennaio 1968 ): il criterio di imputazione penale è ricavato dall’art. 2236 c.c. (colpa grave), il cui contenuto è inteso nel senso dato dalla prima giurisprudenza; l’art. 2236 c.c., secondo l’orientamento in esame, è riferibile alla diligenza , alla prudenza e alla perizia, escludendo dal campo di applicazione la colpa lieve ( Cass. sez. IV 21 ottobre 1970; sez. II 8 febbraio 1958; IV 22 gennaio 1968; IV 21 ottobre 1970; IV 4 febbraio 1972; IV 7 luglio 1977; IV 15 febbraio 1978 e Cass. 19 febbraio 1981 ).
La giurisprudenza in oggetto è conforme allo spirito del codice civile, come esplicato nella Relazione del Ministro, secondo la quale non bisogna " mortificare l’iniziativa del professionista con il timore di ingiuste rappresaglie in caso di insuccesso"; dall’altro, non bisogna " indulgere nei confronti di non ponderate e riprovevoli inerzie da parte del professionista ".
-III° orientamento (Corte Cost. 28 novembre 1973 ): la giurisprudenza stabilisce l’applicazione dell’art. 2236 c.c. alle sole ipotesi di imperizia.
Nei casi di negligenza e imprudenza è operante l’art. 1176 Co 2 c.c. ( anche responsabilità per colpa lieve ); si richiede la diligenza del buon padre di famiglia, ma "con riguardo alla natura dell’attiva ( professionale ) esercitata".
In relazione alla diligenza, si ritiene che qualora sussista la certezza che il trattamento terapeutico non aggravi la malattia , e che, anzi, l’attesa può mettere a rischio la vita del paziente, il medico ha l’obbligo di procedere in modo celere.
L’orientamento de quo è stato introdotto dalla Corte Cost. con sentenza del 28 novembre 1973 di cui riportiamo i seguenti passi: ""la deroga alla legge penale della responsabilità penale per colpa risulta ben contenuta, perché è operante in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti", e ancora " la limitazione ex art. 2236 c.c. non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesta, basti pure un minimo di prudenza o di diligenza. Anzi c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionata alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato a criteri formale severità ".( v. anche Cass.sez. IV 12 maggio 1977; 18 ottobre 1978; 9 giugno 1981; 9 novembre 1981 n. 1126; 24 giugno 1983).
-Orientamenti attuali: la giurisprudenza contemporanea è divisa in due tronconi: il primo (Cass. pen. sez. IV 22 ottobre 1981, Cass. pen. sez. IV 29 settembre 1983) stabilisce l’esclusione dell’art. 2236 c.c. (colpa grave) dall’ambito penale.
Infatti, la disposizione in questione non può essere applicata in virtu’ del divieto d’analogia di una norma eccezionale, anche di carattere civilistica, secondo quanto disposto dall’art. 14 delle disposizioni delle leggi in generale (Cass. sez. IV 9 giugno 1981). La giurisprudenza di legittimità considerata, alla quale si affianca anche buona parte di quella di merito, ritiene che l’art. 2236 c.c. non introduce una causa di giustificazione penale,
L’accertamento della graduazione della colpa (breve, grave) è rilevante agli effetti penali, per la determinazione della pena in concreto, in forza dell’art. 133 co. 1 n° 3 c.p. (gravità del reato: valutazione agli effetti penali).
Il secondo troncone giurisprudenziale segue, in sostanza, la giurisprudenza che fa capo alla sentenza della Corte Costituzionale del 1973: l’art. 2236 c.c. trova applicazione nelle ipotesi d’imperizia del medico.
E’ da rilevare una pronuncia della cassazione pen. sez. IV del 2 ottobre 1990, che insigne dottrina considera ambigua, poiché essa equipara le ipotesi di perizia, prudenza e diligenza (v. anche Cass. pen. sez. IV 25 maggio 1987), riproducendo sostanzialmente i primi orientamenti.

Rapporto di causalità
Un elemento fondamentale del reato è il nesso di causalità materiale e giuridica tra la condotta (o azione) volontaria e l’evento di danno (art. 40 c.p.).
Il fatto-reato è costituito, pertanto, oltre che dall’elemento psicologico (dolo o colpa), anche dalla condotta e dall’evento dannoso, quale conseguenza della prima.
E’ da rilevare che la disposizione contenuta nell’art. 40 c.p., fa riferimento all’evento dannoso e pericoloso.
Il 2° co dell’articolo in esame , prevede l’ipotesi generale del delitto omissivo improprio: " Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo ".
L’art. 41 c.p. prevede che le cause preesistenti, simultanee o sopravvenute alla condotta umana, anche se da essa indipendenti, non fanno venir meno la responsabilità penale del soggetto considerato.
Infatti, il concorso delle cause non esclude il rapporto di causalità.Solamente le cause sopravvenute possono escludere il nesso causale, qualora siano sufficienti a produrre l’evento dannoso (art. 41 co. 2 c.p.).
Gli artt. 40 e 41 c.p. esprimono due principi strettamente connessi: il principio della conditio sine qua non e dell’equivalenza delle cause; ciascuna causa concorrente è considerata alla stregua delle altre, determinanti il verificarsi del fatto-reato.
Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza (Cass. pen. sez. IV del 23 gennaio 1990) il nesso di causalità, nell’ambito della responsabilità medica, deve essere accertato secondo il criterio della probabilità, e non della necessaria certezza. Buona parte della giurisprudenza ritiene che l’accertamento del nesso causale deve basarsi sulle leggi statistiche esistenti: infatti, una conoscenza basata sulle leggi universali sarebbe impossibile.
Secondo l’orientamento in oggetto, si avrebbe responsabilità penale medica, qualora si accertasse che l’intervento avrebbe salvato la vita o comunque evitato l’evento dannoso, secondo una valutazione d’alta probabilità.
Nell’ipotesi dell’omessa inoculazione del siero antitetanico, si ritiene sussistere l’errore diagnostico poiché non è stata effettuata " una tempestiva diagnosi del processo infettivo pur in presenza della sintomatologia "l’omissione del medico ha aumentato del 30% il rischio di morte, secondo le leggi scientifiche e statistiche acquisite.
Il criterio della probabilità deve essere accompagnato, pertanto, dal principio dell’aumento del rischio.
Autorevole giurisprudenza (Cass. 6 dicembre 1990) parla di " causalità scientifica " perché fondata sulla migliore scienza ed esperienza del momento.
Le conoscenze acquisite alla scienza medica non escludono, però, l’accertamento del rapporto causale in termini di certezza; in mancanza di questa, il giudizio deve essere altamente probabile e rapportato al momento della commissione del fatto (giudizio ex ante).
La storica sentenza della Corte costituzionale n° 364 del 1988 affianca il concetto della probabilità a quello della prevedibilità e prevenibilità delle conseguenze dannose.
Il medico risponde penalmente nell’ipotesi in cui poteva prevedere e prevenire il fatto-reato, quale conseguenza della sua condotta, in base alle regole di generalizzata esperienza (leggi scientifiche o statistiche di copertura o criterio dell’id quod plerumque accidit).
L’orientamento summenzionato è conforme al principio di colpevolezza " inteso sotto l’aspetto obiettivo ed in coordinazione con la lettura combinata dei commi 1 e 3 dell’art. 27 Cost. (v. Cass. pen.sez. IV n. 7151 del 11 gennaio 1999).
La giurisprudenza di legittimità suindicata ritiene che la valutazione della causalità, nell’ambito della responsabilità omissiva, presenta maggiori difficoltà.Il medico assume una posizione di garanzia nei confronti del paziente; a quest’ultimo deve garantire " la conservazione al meglio della vita ".
Nell’ambito dei reati omissivi, la " condotta comandata " (o esigibile concretamente) deve inserirsi nel decorso causale già attivo e deve essere " capace nel concreto ad impedire l’evento vietato" (es. lesioni, morte ecc...).
L’accertamento del rapporto di causalità è basato sul criterio dell’idoneità concreta della condotta ad impedire l’evento dannoso o pericoloso, sulla base delle leggi scientifiche acquisite alla medicina.Una diversa impostazione alla soluzione della problematica de qua aprirebbe le porte alla responsabilità oggettiva (versari in re illicita), prescindendo dall’elemento psicologico (dolo o colpa).
Nelle sentenze sono ricorrenti le formule " probabilità confinante con la certezza ", "alto grado di credibilità razionale".
Dall’orientamento in oggetto consegue che è da escludere la responsabilità penale medica, qualora sussista il dubbio circa l’idoneità o l’attitudine della condotta alternativa lecita a prevenire l’evento dannoso o pericoloso (in dubio pro reo).
Nel passato (v. casi storici: Talidomide, macchie blue), la responsabilità penale è stata accertata secondo un metodo individualizzante (" fiuto") del giudice. In altri termini il nesso causale è stato oggetto di un giudizio svincolato dal criterio probabilistico, e da qualsiasi legge scientifica.
Altra giurisprudenza (Cass. pen sez. IV del 15 maggio 1989) opta per il criterio della certezza in ossequio al principio della condizione essenziale ex art. 40 c.p. (conditio sine qua non).
Una recente e autorevole giurisprudenza (Cass. pen sez IV 1 ottobre 1998 n. 1957) attenua il principio della certezza con il " soggettivo convincimento del giudice, sia pure basato su valutazioni di natura probabilistica.
La sentenza in questione esclude l’astratta probabilità basata su dati meramente statistici.
In relazione al consenso informato, si rinvia a quanto già affermato in precedenza. Occorre qui precisare che la giurisprudenza è particolarmente rigorosa nell’ipotesi in cui il medico non ottemperi all’obbligo dell’informazione corretta e tempestiva.
Si segnalano alcune sentenze in merito:
Trib. Venezia Sez. II del 4 febbraio 1998: responsabilità per lesioni colpose derivante da errore, determinato da colpa, sull’esistenza del consenso, non realmente manifestato dal paziente;
Corte assise di Firenze n. 13 del 18 ottobre 1990 (confermata dalla Cass. sez pen. n. 699/92): omicidio preterintenzionale, derivante da lesioni colpose, in seguito ad operazione chirurgica effettuata senza il consenso del paziente;
Corte Assise d’Appello di Roma del 1986, Pretore di Roma del 1987, Corte Assise di Cagliari: casi di testimoni di Geova che hanno negato il consenso alle emotrasfusioni per motivi religiosi: i medici hanno agito in conformità alla volontà dei parenti; pertanto, la morte non può essere a loro imputata a titolo di dolo.

Avv. Bruno Sechi; Senorbì-Cagliari, lì 23/X/00


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