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Carvedilolo e insufficienza cardiaca cronica severa |
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Inserito il 27 giugno 2001 da admin. - cardiovascolare - segnala a:
Si sa bene che i beta-bloccanti riducono il rischio di ricovero e la mortalità nei pazienti con insufficienza cardiaca lieve e moderata, ma si sa poco riguardo i loro effetti nell’insufficienza cardiaca di grado severo. Questo lavoro, un trial randomizzato, in doppio cieco, controllato versus placebo, ha valutato 2289 pazienti con sintomi di insufficienza a cardiaca a riposo o per sforzi minimi, con una frazione di eiezione cardiaca inferiore al 25%. I pazienti sono stati seguiti per un periodo medio di 10.4 mesi, durante i quali hanno seguito la terapia standard per l’insufficienza cardiaca; in aggiunta, a 1133 pazienti è stato somministrato placebo, mentre agli altri 1156 è stato dato carvedilolo. Sono stati esclusi dal trial pazienti che presentavano marcata ritenzione idrica, o che erano in terapia con vasodilatatori per via endovenosa o con farmaci ad azione inotropa positiva. Risultati. Ci sono state 120 morti nel gruppo carvedilolo, contro 190 nel gruppo placebo. Ciò corrisponde ad una riduzione del rischio di morte del 35% nel gruppo trattato con carvedilolo rispetto al gruppo placebo (IC 95% = 19 – 48) un risultato significativo (P = 0.0014). Il numero complessivo dei ricoverati e dei morti nel gruppo placebo è stato di 507 pazienti, contro 425 nel gruppo carvedilolo. Ciò corrisponde ad una riduzione del 24% del rischio combinato di ospedalizzazione e morte per i pazienti del gruppo carvedilolo. Questi effetti favorevoli sono stati riscontrati in tutti i sottogruppi esaminati. Il numero di pazienti ritiratisi dalla sperimentazione per effetti avversi o per altri motivi è stato inferiore nel gruppo carvedilolo che nel gruppo placebo. Conclusioni. I benefici, già riportati, del carvedilolo in relazione alla morbilità e mortalità nei pazienti con insufficienza cardiaca da lieve a moderata, sono stati riscontrati anche nei pazienti con insufficienza cardiaca severa valutati in questo trial. New England Journal of Medicine, 23 maggio 2001
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