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Valsartan in pazienti a rischio cardiovascolare: lo studio Jikei
Inserito il 20 marzo 2008 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

L'aggiunta di valsartan ad un trattamento convenzionale in pazienti a rischio cardiovascolare riduce gli eventi, ma non tutti concordano con questa interpretazione.

In questo studio, di tipo multicentrico, randomizzato e controllato, sono stati reclutati 3.081 pazienti giapponesi (età 20-79 anni, media 65) affetti da ipertensione, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco o una combinazione di queste condizioni. I pazienti sono stati trattati con terapia convenzionale oppure terapia convenzionale associata a valsartan (40-160 mg/die). In entrambi i gruppi la terapia veniva aggiustata in modo da arrivare ad un target pressorio inferiore a 130/80 mmHg. Al baseline la pressione media era uguale nei due gruppi: 139/81 mmHg; alla randomizzazione più del 75% dei soggetti era trattato con un calcioantagonista, il 40% con un aceinibitore, circa il 20% con un betabloccante e il 7% con un diuretico. L'end-point primario dello studio era composto da morbidità e mortalità cardiovascolari, inclusi stroke, TIA, ospedalizzazione per scompenso cardiaco o angina, aneurisma dissecante aortico, ostruzione arteriosa degli arti inferiori, raddoppiamento della creatinina o necessità di dialisi. Lo studio era in aperto ma la valutazione degli end-point venne effettuata in cieco e l'analisi portata a termine secondo l'intenzione a trattare.
Il trial è stato interrotto anticipatamente dopo un follow-up medio di 3,1 anni per un evidente beneficio del trattamento con valsartan. Infatti l'end-point primario risultò ridotto del 39% (HR 0,61; IC95% 0,47-0,79), differenza attribuibile in particolare ad una riduzione dei TIA e degli stroke (HR 0,60; IC95% 0,38-0,95), dell'angina pectoris (HR 0,35; IC95% 0,20-0,58) e dello scompenso cardiaco (HR 0,53; IC95% 0,41-0,94). La mortalità totale, l'infarto miocardico e il profilo di tollerabilità non differivano tra i due gruppi. Al termine dello studio la pressione media era di 131/77 mmHg nel gruppo valsartan e di 132/78 mmHg nel gruppo controllo (differenza non significativa).
Gli autori concludono che l'aggiunta di valsartan ad un trattamento convenzionale riduce gli eventi cardiovascolari e questo beneficio non può essere interamente spiegato con la differenza del controllo pressorio nei due gruppi.


Fonte:

Mochizuchi S et al. Valsartan in a Japanese population with hypertension and other cardiovascular disease (Jikei Heart Study): a randomised, open-label, blinded endpoint morbidity-mortality study
Lancet 2007 Apr 28; 369.1431-1439


Commento di Renato Rossi

Lo studio Jikei sembra suggerire che, in pazienti a rischio cardiovascolare (ipertesi, ischemici o scompensati cardiaci), l'aggiunta di valsartan ad una terapia convenzionale ottimale già idonea a controllare la pressione arteriosa comporta benefici clinici ulteriori, soprattutto una riduzione dello stroke e dei ricoveri per angina o scompenso cardiaco. Tuttavia due editorialisti non condividono queste conclusioni [1]. Secondo il loro parere lo studio avrebbe alcune debolezze. In particolare criticano l'ampiezza del campione arruolato e il fatto che lo studio non era in cieco (anche se la valutazione degli end-point lo era). Ma soprattutto fanno notare che la differenza di pressione arteriosa nei due gruppi, se era minima e non signficativa alla fine dello studio, non lo era affatto nel corso del primo anno di trattamento: a 6 mesi dalla randomizzazione era più bassa di 2,1 mmHg nel gruppo valsartan ed anche a 12 mesi la differenza a favore del sartano era significativa. Studi precedenti (come il Systolic Hypertension in Europe e il VALUE) hanno dimostrato che il controllo precoce della pressione comporta benefici rispetto ad un controllo più tardivo e anche se in seguito la differenza tra i due gruppi si restringe o scompare, non scompare invece il beneficio clinico ottenuto grazie al miglior controllo iniziale. Inoltre anche piccole differenze di pressione possono spiegare il miglioramento degli outcomes cardiovascolari osservati. Il messaggio dello studio non sarebbe quindi quello suggerito dagli autori bensì che il trattamento dell'ipertensione deve essere subito aggressivo, in modo da raggiungere quanto prima i valori target, non importa con quali farmaci questo si riesca ad ottenere.
In sostanza i due editorialisti sembrano quasi lasciar intendere che i risultati si spiegano semplicemente perchè il gruppo controllo, nel primo anno di follow-up, è stato trattato "meno bene" rispetto al gruppo valsartan. Questo potrebbe dipendere dalla non cecità dello studio? Non lo si può escludere se si considera che è stato dimostrato come la mancanza di cecità possa portare a sovrastimare l'efficacia di un trattamento. Di sicuro viene da domandarsi perchè il protocollo dello studio non abbia contemplato la cecità: si poteva per esempio disegnare il trial prevedendo che nel gruppo trattamento venisse somministrato valsartan e nel gruppo controllo un placebo indistinguibile e in entrambi i gruppi in aggiunta qualsiasi altro farmaco (non-sartano) atto a raggiungere i valori di pressione prefissati. Sembra quasi che ci si diverta a disegnare un trial in modo tale che poi ci sarà sempre qualcuno che troverà dei punti deboli per contestarne i risultati. I medici pratici, che dovrebbero essere i principali destinari degli studi in quanto poi sono quelli che li debbono trasferire in pratica, rimangono quindi con il dubbio: hanno ragione gli autori dello studio giapponese a sostenere che l'aggiunta di valsartan ad una terapia già ottimale porta ad ulteriori vantaggi in una vasta gamma di pazienti a rischio cardiovascolare oppure sono fondate le osservazioni dell'editoriale che suggerisce che quello che conta è controllare presto e bene la pressione, non importa con quale combinazione di farmaci questo obiettivo si raggiunga?


Referenze

1. Staessen JA, Richart T. Sum and Substance in the Jikei Heart Study. Lancet 2007; 369:1407-1408.

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