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Pillole di EBM - Capitolo 16 |
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Inserito il 05 agosto 2007 da admin. - scienze_varie - segnala a:
In questo capitolo ci occuperemo degli studi osservazionali.
Fino a questo momento abbiamo parlato degli studi di intervento che sono, in genere, randomizzati e controllati. Passiamo ora agli studi osservazionali. Abbiamo già detto, in uno dei primi capitoli, che gli studi osservazionali sono caratterizzati dal fatto che i ricercatori si limitano a “osservare” quello che succede nella realtà, senza intervenire nel somministrare attivamente un trattamento e nel dividere in modo randomizzato i gruppi. Ovviamente anche in questo tipo di studi può esistere un gruppo di controllo (e allora si parla di studi osservazionali controllati) o può non esistere (studi osservazionali non controllati). I primi sono senz’altro i più comuni. Ma allora se anche negli studi osservazionali può esserci un gruppo di controllo, qual è la differenza con gli RCT, potrà chiedere qualcuno. La differenza è che in nessun caso la suddivisione dei gruppi avviene con metodica randomizzata. Ciò rende possibile che in questo tipo di studi si verifichi uno sbilanciamento nella selezione del campione, che in gergo tecnico viene detto bias di selezione. Ne abbiamo già accennato in precedenza ma ora è arrivata l'occasione per approfondire l'argomento. Per capirci e per rendere più chiare le cose prendiamo uno studio osservazionale molto conosciuto e citato, il cosiddetto Studio delle Infermiere. In questo studio vennero seguite per molti anni oltre 60.000 infermiere americane. I ricercatori registrarono il tipo di terapia eventualmente praticata dalle donne, il loro stile di vita, le abitudini alimentari, le malattie che si verificarono, ecc. Come vedete si tratta di uno studio osservazionale classico perché i ricercatori non programmarono né decisero alcun tipo di trattamento e se qualche terapia veniva effettuate dalle donne arruolate nello studio, questa era decisa da altri (i medici curanti, le donne stesse) ma mai dai ricercatori. L'analisi dei dati, man mano che venivano raccolti col passare degli anni, evidenziò che le donne in post-menopausa trattate con terapia ormonale sostitutiva avevano una percentuale di eventi cardiovascolari inferiore alle donne che non assumevano ormoni. La differenza di eventi era molto evidente, tanto che si giunse ad affermare un effetto benefico rilevante della terapia ormonale sostitutiva (TOS) sulla prevenzione della cardiopatia ischemica. Per il vero molti avevano fatto notare che in realtà ciò avrebbe dovuto essere dimostrato da uno studio di intervento perché lo Studio delle Infermiere molto probabilmente era viziato da un bias. Cosa intendevano dire questi bastian contrari? In poche parole volevano dire che non era la TOS a proteggere dall’infarto ma erano le donne, già in partenza più sane, con uno stile di vita più corretto, di un ceto sociale più abbiente (quindi a maggior controllo sanitario) che sceglievano la TOS. In effetti alcune analisi avevano dimostrato per esempio che le donne che assumevano gli estrogeni avevano già di base valori pressori più bassi rispetto alle donne che non assumevano ormoni. Questo squilibrio nel gruppo di donne in TOS viene detto bias di selezione del campione e rende non corretto il paragone con le donne che non assumono la terapia, perché diverse. Insomma, come abbiamo detto altre volte, rende "sleale" il paragone perché le donne che non sceglievano la TOS partivano già svantaggiate. Tuttavia la differenza riscontrata nella frequenza di eventi cardiovascolari era di tale entità che la maggior parte degli studiosi la riteneva incompatibile con qualsiasi bias di selezione. Il loro discorso era questo: per quanti bias di selezione ci siano l'azione protettiva degli ormoni sul cuore è così evidente che può essere dovuta solo ad essi. Il famosissimo WHI, garantendo la confrontabilità dei due gruppi di donne, essendo randomizzato, ha permesso di stabilire che in realtà quello che veniva suggerito dagli studi osservazionali era del tutto ingiustificato e anzi la TOS aumenta la frequenza degli eventi cardiaci. Facciamo un altro esempio per capire bene cosa siano questi tanto citati bias. Bias è un termine inglese che significa asimmetria, sbilanciamento, pregiudizio. Con lo studio che citerò ora dovrebbe essere del tutto comprensibile che cosa significa in questo contesto. Lo studio è questo: analizzando un registro che conteneva i dati clinici di oltre 57.000 pazienti ricoverati per sindrome coronarica acuta i ricercatori si accorsero che i pazienti che venivano trattati con morfina per il dolore toracico avevano una mortalità più elevata di coloro che non venivano trattati con tale farmaco. E' corretto dire che la morfina aumenta la mortalità nelle sindromi coronariche acute? Prima di rispondere alla domanda consideriamo il tipo di studio: si tratta di uno studio osservazionale in quanto i ricercatori non hanno somministrato alcun tipo di trattamento ma si sono limitati a "osservare" i dati (cioè le cartelle cliniche) riportati in un registro. Esiste ovviamente un gruppo di controllo (quelli che non venivano trattati con morfina), ma la suddivisione nei due gruppi (trattati e non trattati) non è stata decisa dai ricercatori né è avvenuta con metodo randomizzato. La decisione se usare o meno la morfina veniva infatti presa dai medici che curavano i malati. E' possibile quindi che anche qui vi sia un bias di selezione, nel senso che i medici adoperavano l'oppioide nei casi con dolore toracico più grave ed è verosimile che questi pazienti avessero anche una forma di sindrome coronarica acuta più importante. L'aumento della mortalità osservato nei trattati potrebbe quindi essere dovuto al fatto che questi erano pazienti più gravi e compromessi e quindi più a rischio di morte. L'unica conclusione che si può trarre è che lo studio ha dimostrato una "associazione" tra uso di morfina e aumento della mortalità, ma non è detto che questa associazione sia del tipo causa-effetto. Per dimostrarlo in modo più convincente bisognerebbe disegnare un RCT, peraltro difficile da immaginare perché eticamente non si potrebbe usare il placebo nel gruppo di controllo. La conclusione generale che possiamo trarre quindi è di prendere sempre con le molle i risultati che derivano da studi osservazionali, i quali dovrebbero, se possibile, essere confermati da RCT.
I bias di selezione sono sicuramente quelli più importanti ma negli studi osservazionali se ne possono trovare di altro tipo. Li passeremo rapidamente in rassegna. Un bias comune è dovuto al fatto che i medici che raccolgono i dati di solito non sono in cieco e quindi possono essere inconsapevolmente influenzati dal conoscere il tipo di terapia effettuata. Si tratta del cosiddetto performance bias. Inoltre spesso i dati vengono raccolti basandosi sui ricordi retrospettivi dei pazienti e quindi possono essere del tutto inaffidabili (recall bias). Vediamo con il solito esempio se si riesce a capire meglio. Uno studio vuol stabilire se l’assunzione di vegetali tre volte alla settimana può ridurre l’incidenza di cancro del colon. Vengono così selezionati da un database oncologico un certo numero di pazienti affetti dalla neoplasia e poi da una popolazione generale si scelgono altrettanti soggetti (paragonabili per età e sesso) non malati. Si fa compilare un questionario ad ogni partecipante allo studio chiedendo di specificare quante volte alla settimana negli ultimi cinque anni hanno assunto vegetali o fibre. Si capisce bene quanto poco valore possano avere i dati raccolti, essendo legati unicamente alla memoria e alla valutazione del singolo soggetto, tutte cose impossibili da controllare per i ricercatori. Qualsiasi sia il risultato ottenuto dallo studio (sia che dimostri un effetto protettivo di vegetali e fibre che nessun effetto) deve essere preso con beneficio di inventario e richiede una conferma da parte di rigorosi studi sperimentali. In realtà questo esempio non è stato scelto a caso: i dati di letteratura sull’argomento sono contrastanti, proprio perché derivano unicamente da studi osservazionali. Per dire, uno studio osservazionale svedese, contrariamente a studi simili precedenti, ha suggerito che il tipo di dieta ha poca influenza sullo sviluppo del cancro del colon mentre un effetto preventivo sembrano avere il controllo del peso corporeo e l’attività fisica. Anche quest’ultimo è comunque un dato discutibile per il fatto stesso di derivare da uno studio non sperimentale, in cui i bias prima ricordati possono esercitare un effetto confondente. Non va dimenticato un altro tipo di bias che si può annidare negli studi non sperimentali, il bias della non uniformità dei criteri diagnostici. Supponiamo per esempio che si voglia determinare la capacità di un immunostimolante di ridurre le frequenza delle riacutizzazioni della BPCO. Vengono quindi selezionati dei medici di famiglia, ognuno dei quali arruola un certo numero di pazienti affetti da BPCO. Si chiede poi ai medici di recuperare dalle cartelle cliniche dei singoli pazienti i trattamenti effettuati e il numero di episodi acuti negli ultimi due anni. E’ evidente che se anche lo studio dimostrasse che i pazienti con BPCO trattati con immunostimolanti hanno meno episodi acuti di quelli non trattati con questi farmaci, il dato non sarebbe affidabile in quanto non erano pre-specificati i criteri usati per definire cosa si intende per riacutizzazione (un medico potrebbe aver registrato come riacutizzazione solo gli episodi caratterizzati da febbre e tosse con escreato, un altro gli episodi in cui, pur in assenza di febbre, l’escreato diventava di tipo purulento, un altro ancora potrebbe non aver registrato tutti gli episodi, ecc). Si potrebbe addirittura obiettare che siccome non erano pre-definiti neppure i criteri diagnostici per la BPCO la casistica potrebbe riguardare soggetti con malattie molto diverse (un medico potrebbe aver classificato come BPCO anche asme bronchiali, bronchiectasie, ecc.). Come al solito, anche in questo caso bisognerebbe disegnare un RCT in cui un gruppo viene trattato con immunostimolanti, un altro con placebo e definire in anticipo i criteri di inclusione nello studio, i criteri diagnostici usati per dire che uno ha una BPCO, i criteri diagnostici usati per dire che uno ha una riacutizzazione.
Renato Rossi
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