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Epidemiologia, diagnosi e terapia dell’infezione perinatale da epatite C
Inserito il 18 maggio 2008 da admin. - pediatria - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

La trasmissione verticale dell'infezione da virus C avviene nel 4-5% dei casi sia per trasmissione intrauterina che perinatale, l'infezione è cronica se sussite RNA virale per almeno 6 mesi nel plasma del bambino.

L’HCV è classificato in sei genotipi (da 1 a 6) che presentano a loro volta sottotipi a e b.

La prevalenza dell’infezione cronica da HCV nel Regno Unito è stimata attorno allo 0,4%. Rispetto all’infezione materna, uno screening anonimo in alcune regioni Inglesi ha mostrato una prevalenza dello 0,19-0,43%. La prevalenza della condizione nei bambini non è invece nota.

Il maggior fattore di rischio per infezione è rappresentato dall’uso materno di droghe endovenose. Secondo il comitato per gli Screening Nazionali del Regno Unito, queste donne andrebbero sottoposte a screening durante la gravidanza. Lo screening non è in realtà attualmente raccomandato nel Regno Unito in quanto non esistono interventi sicuri ed efficaci per prevenire la trasmissione verticale della malattia.

Nelle donne, come nella popolazione generale, l’infezione da HCV è dunque spesso non diagnosticata e di conseguenza l’eventuale trasmissione perinatale può non essere identificata. La trasmissione verticale della malattia è confinata quasi esclusivamente alle donne HCV RNA positive. Il rischio di trasmissione è aumentato dai livelli di viremia materna e dalla coinfezione con HIV. In 77 studi citati dagli autori, la trasmissione verticale avviene nel 21% dei casi se la mamma è anche HIV positiva e nel 4,3% nel caso non ci sia co-infezione.

Sia la trasmissione intrauterina che quella perinatale sembrano avere un ruolo importante nella trasmissione verticale. La modalità di parto non sembra influenzare il rischio di trasmissione, che è simile dopo parto spontaneo o dopo cesareo. Va però ricordato che quest’ultimo può avere un effetto protettivo nelle mamme co-infettate con HIV. L’allattamento al seno non sembra aumentare la percentuale di trasmissione, ma anche qui fanno eccezione le donne HIV positive. La diagnosi di trasmissione perinatale è resa difficile per la presenza passiva di anticorpi materni anti-HCV fino a 13 e occasionalmente a 18 mesi di vita. Questo rende di valore limitato la ricerca degli anticorpi nel bambino piccolo, che deve essere quindi considerato infetto se risulta HCV RNA positivo in almeno due occasioni.

Visto che in molti casi l’HCV RNA può raggiungere valori identificabili dopo alcune settimane, la sua determinazione dovrebbe avvenire dopo almeno 4 settimane di vita. Gli autori riportano un algoritmo per la diagnosi nei bambini a rischio di infezione perinatale. La cronicizzazione dell’infezione è definita dalla persistenza dell’HCV RNA per almeno sei mesi, la risoluzione dalla scomparsa dell’HCV RNA.

La risoluzione spontanea è comunque infrequente (dal 5 al 10%) e sembra maggiore nei soggetti con genotipo 3 e in caso di trasmissione orizzontale (da trasfusioni). I bambini infetti sono generalmente asintomatici. In caso di trasmissione verticale possono essere rilevati valori altalenanti di transaminasi soprattutto nei primi due anni di vita.

L’elevazione delle ALT non correla con la severità istologica. Nelle biopsie effettuate si riscontra un’evidenza di infiammazione cronica, con fibrosi solitamente di grado lieve. La fibrosi è lentamente progressiva ma non lineare e quindi la sua severità non rappresenta un indicatore prognostico affidabile.

Il bambino con infezione dovrebbe essere sottoposto ogni 6 mesi a rivalutazione della funzionalità epatica e dello stato virale e ogni anno a ecografia e dosaggio dell’alfa-fetoproteina. Inoltre dovrebbe essere vaccinato contro l’epatite A e B. Il trattamento per l’adulto con infiammazione cronica consiste nella terapia antivirale con interferon peghilato e ribavirina. Nel bambino non c’è un trattamento autorizzato. Una metanalisi ha messo in evidenza un effetto della monoterapia con interferone nel 36% dei casi, migliore sembra il risultato dell’associazione con ribavirina (ma si tratta di piccoli studi). Gli effetti collaterali di questi trattamenti sono comuni e spesso severi (sintomi simil influenzali, neutropenia, irritabilità, insonnia, sonnolenza, depressione). Gli autori segnalano che è in corso uno studio europeo multicentrico randomizzato sull’associazione interferon peghilato-ribavirina. Chi e come trattare resta dunque un aspetto controverso. Il trattamento dovrebbe essere offerto da gruppi con esperienza.

Fonte: Arch Dis Child 2006; 91;781-785.

Contenuto gentilmente concesso da: Associazione Culturale Pediatri (ACP) - Centro per la Salute del Bambino/ONLUS CSB - Servizio di Epidemiologia, Direzione Scientifica, IRCCS Burlo Garofolo, Trieste; tratto da: Newsletter pediatrica. Bollettino bimestrale- Ottobre-Novembre 2006 -Gennaio 2006, Volume 4, pag. 11-12.

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