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Chi paga la ricerca farmacologica? |
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Inserito il 13 giugno 2008 da admin. - scienze_varie - segnala a:
Le eccessive spese di promozione e di marketing drenerebbero troppe risorse a danno degli investimenti per la ricerca di nuove molecole.
L’industria farmaceutica è da sempre accusata di dedicare molte più spese al marketing piuttosto che alla ricerca. Da molti osservatori ( e non solamente dai critici più accesi delle politiche commerciali di BigPharma) questo sbilanciamento di fondi verso attività atte a sostenere l’esistente ( il marketing di farmaci in portafoglio) piuttosto che verso attività che guardano al futuro ( la ricerca di nuovi farmaci) è l’origine dell’inaridirsi progressivo della cosiddetta pipeline ( quel continuo e incessante processo di ricerca e sviluppo in grado di fornire novità farmacologiche con una certa e prevedibile costanza). Attualmente, pressoché tutti gli economisti indipendenti valutano gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&D – Research and Development) nel 12% del fatturato contro il 30% in spese di marketing. Già così lo sbilanciamento appare evidente ma non si tiene conto della reale composizione degli investimenti in R&D dove vengono caricate spese che hanno marginalmente a che fare con la ricerca. L’esempio fino ad oggi più noto è quello dei cosiddetti “seeding trial “ . In teoria si dovrebbe trattare di trial per la valutazione della sicurezza post marketing dei farmaci ( valutazione della sicurezza dopo l’entrata in commercio del farmaco) ma in realtà sono espedienti per ottenere rapide prescrizioni di un nuovo farmaco pagando i medici che compilano “pseudoschede” sulle caratteristiche di sicurezza del farmaco. Il meccanismo è autoesplicativo: più farmaci prescritti, più schede compilate, più entrate per il medico prescrittore-compilatore. E’ evidente l’intento promozionale di questi trial, pur tuttavia nei bilanci delle aziende questi costi sono impropriamente imputati alla ricerca. Un recente report (1) rende conto di altri “sotterfugi” attraverso i quali i bilanci dedicati alla ricerca finanziano surrettiziamente le strategie di marketing, inaridendone ulteriormente i già relativamente scarsi fondi . L’elenco non è probabilmente esaustivo ma sintomatico di un modello destinato a rivelarsi economicamente un boomerang in tempi brevi: • Costi di negoziazione con altre case farmaceutiche per licenze di nuovi prodotti • Costi editoriali e di staff di pubbliche relazioni per promuovere presso la stampa di settore i risultati dei trial clinici sui propri farmaci , eseguiti o in progress • Finanziamento di supplementi di riviste mediche o di riviste in toto (attraverso la pubblicità) su cui vengono pubblicati trial di dubbio valore scientifico ma di alto valore commerciale • Congressi, lectures e corsi ECM per informare i medici sui progressi delle ricerche • Costi legali per licenze e concessioni dei farmaci e altre materie legali correlate alla ricerca • Spese di acquisto di terreni e costi di costruzione per strutture che ospitano laboratori di ricerca, anche se i laboratori occupano una minima parte della volumetria complessiva della costruzione • Spese per rinnovo tecnologico di tutta l’azienda (come nuovi computer e software )
Marco Grassi
Referenze
Light D. Basic research funds to discover important new drugs: who contributes how much? In: Burke MA, de Francisco A, eds. Monitoring financial flows for health research 2005: beyond the global numbers. Geneva, Switzerland: Global Forum for Health Research, 2006.
Commento di Luca Puccetti
La tesi sostenuta non convince. La ripartizione dei fondi in attività promozionali sembra uno spreco, ma non lo è affatto dal momento che produrre un prodotto che non si vende o si vende poco perché i vantaggi di cui è dotato non sono percepiti, conosciuti ed adegutamente valorizzati non porta profitti e dunque non si creano neanche i fondi per la ricerca ed è una ben magra consolazione spendere poco per promuovere un prodotto invenduto.
Quanto all’ entità delle ripartizioni tra i capitoli di spesa, pur depurati dai costi degli studi di seeding, gli investimenti in ricerca nel settore farmaceutico sono mediamente superiori a quelli di molti altri settori produttivi.
Le motivazioni dell’inaridimento della pipeline vanno dunque ricercate altrove.
1) I farmaci hanno un lungo sviluppo con costi enormi che la tecnologia non ha molto migliorato, anzi l’affermararsi della EBM e la ricerca di end point forti ha reso molto più arduo, lungo e costoso dimostrare il vantaggio di un farmaco.
2) I farmaci attuali sono già ottimi e spesso corroborati da ampi studi su end point robusti che i nuovi farmaci non possono avere ontologicamente in quanto occorrerebbe troppo tempo per poter dimostrare un vantaggio su un end point forte prima della commercializzazione del nuovo farmaco.
3) I nuovi farmaci sempre più spesso sono vantaggiosi solo per sottogruppi di pazienti pertanto i volumi sono piccoli a fronte di costi ingenti di ricerca e supporto.
5) I costi per la pubblicazione dei risultati su riviste ad alto impatto sono molto onerosi.
4) I brevetti sono troppo brevi per un prodotto che ha una lunghissima gestazione e che necessita di molti anni di commercializzazione e di un utilizzo su vasta scala per ottenere dai prescrittori la fiducia ncessaria riguardo la sicurezza e l’efficacia su parametri quali gli eventi o la mortalità. L’incombere della scadenza del brevetto spinge verso la ricerca di prodotti me-too che drenano risorse a svantaggio dei veri farmaci innovativi.
Pertanto la proposta che avanziamo da tempo è l’allungamento dei brevetti unitamente ad un decalage progressivo del prezzo rapportato anche ai volumi di venduto. Questo non comporterebbe danno economico per i sistemi sanitari, premierebbe l’innovazione poiché solo i farmaci innovativi riceverebbero un prezzo adeguato mentre i farmaci poco innovativi dovrebbero ricevere il prezzo raggiunto dal farmaco capostipite ad un dato momento della curva del prezzo e si incentiverebbero gli studi atti a dimostrare vantaggi su end point primari che necessitano ampie casistiche e tempi lunghi.
Le riviste più prestigiose dovrebbero ridurre i costi spostandosi verso il formato elettronico e dovrebbero rendere accessibili in forma completa i lavori pubblicati svincolandosi dal business dei reprints.
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