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Dopo IMA la sopravvivenza non migliora se la frazione di eiezione è conservata
Inserito il 09 novembre 2008 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Dopo un infarto il mantenimento della frazione di eiezione non migliora la sopravvivenza.

Lo studio realizzato presso l’University Hospital di Amiens (Francia) ha identificato le caratteristiche, sul lungo periodo, dell’insufficienza cardiaca con frazione d’eiezione preservata (HFPEF = heart failure with preserved ejection fraction), nei pazienti ricoverati in ospedale dopo un primo episodio di attacco cardiaco.

Alla ricerca hanno partecipato 799 pazienti ricoverati la prima volta nel 2000 presso il Somme Department (Francia).
La frazione d’eiezione è risultata disponibile in 662 pazienti (83%), che hanno rappresentato la popolazione di studio.

I pazienti con scompenso cardiaco e con frazione d’eiezione preservata (55,6% dei casi) erano significativamente più anziani, e con un’alta percentuale femminile.
Nel corso dei 5 anni di follow-up, 370 pazienti sono deceduti (56%).
I pazienti con insufficienza cardiaca e frazione d’eiezione preservata hanno presentato una minore sopravvivenza a 5 anni, rispetto alla popolazione generale comparata per età e sesso (43% versus 72%).
Il tasso di sopravvivenza a 5 anni non è stato significativamente differente nei pazienti con frazione d’eiezione preservata e ridotta (43% versus 46%; p=0.95 ). Entrambi i gruppi hanno avuto una sopravvivenza relativa di 5 anni.

Dall’analisi multivariata è emerso che l’età, l’ictus, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, il tumore, il diabete, la bassa velocità di filtrazione glomerulare e l’iponatriemia sono predittori indipendenti di mortalità a 5 anni nei pazienti con insufficienza cardiaca e frazione d’eiezione preservata.

I risultati della ricerca hanno dimostrato che lo scompenso cardiaco con frazione d’eiezione preservata ha una prognosi non favorevole, comparabile a quella dello scompenso cardiaco con frazione d’eiezione ridotta, con il 43% di sopravvivenza a 5 anni dopo il primo ricovero, ed un elevato eccesso di mortalità, rispetto alla popolazione generale.


Fonte: European Heart Journal 2008, 29: 339-347

Contenuto gentilmente concesso da FCEnews, la medicina online http://www.fcenews.it


Commento di Luca Puccetti


Lo studio dimostra che nella cardiopatia ischemica dopo un primo evento acuto anche se la funzione ventricolare è apparentemente preservata, tuttavia la prognosi non è significativamente diversa rispetto ai pazienti con funzione ventricolare ridotta.

Lo studio ha un follow-up di 5 anni che potrebbe non essere sufficiente per rivelare differenze tra i due gruppi e non era in cieco, quindi i risultati possono essere dovuti a differenze nell'intensività delle cure ricevute dopo l'evento acuto.

Occorre valutare se terapia con betabloccanti, diuretici e di statine sia stata comparabile nei due gruppi. Inoltre in questi studi non randomizzati basta anche un singolo parametro, come ad esempio il consumo di antinfiammatori non steroidei, per sbilanciare la casistica, modificando il profilo di rischio di un grupo rispetto all'altro. E' ad esempio ipotizzabile, che vista la migliore frazione di eiezione, il desiderio di mobilità sia stato maggiore nel gruppo con EF preservata e che ciò abbia cagionato un maggior ricorso a farmaci analgesici ed antinfiammatori.
Inoltre non dobbiamo dimenticare che si trattava sempre di pazienti con cardiopatia ischemica ed è possibile che la malattia ischemica sulla mortalità pesi molto di più che non la ridotta frazione di eiezione e che molte delle morti siano dovute a nuovi episodi ischemici cardiaci, a ictus o ad aritmie.

Lo studio inoltre potrebbe non avere le dimensioni necessarie per valutare differenze tra i due gruppi per quanto riguarda la mortalità al netto delle cause ischemiche o aritmiche.

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