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Rapporto del CENSIS sull'assistenza ai malati di AR in Italia
Inserito il 02 dicembre 2008 da admin. - reumatologia - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Il Censis pubblica un'allarmante rapporto, finanziato da Roche, sull'assistenza al paziente con Artrite Reumatoide in Italia che disegna una sorta di percorso ad ostacoli per chi è affetto dalla malattia per accedere ai farmaci biologici e alle cure tempestive dei centri specialistici.



Primo Rapporto Sociale sull'artrite reumatoide

Artrite reumatoide: per i malati, un percorso ad ostacoli


Fino a 2 anni per avere una conferma di diagnosi, 8 su 10 non frequentano un centro di reumatologia[1], il 37,3% assume ancora esclusivamente antinfiammatori e solo il 7,4% fa uso di farmaci biologici, oltre il 70% ritiene di non avere informazioni sufficienti sui servizi a propria disposizione. Il risultato è che l’83,7% dei pazienti è preoccupato del rischio di invalidità, il 50,8% vive spesso periodi di depressione, il 23,2% dei pazienti con meno di 44 anni ha rinunciato ad avere figli. I centri di reumatologia sono il servizio più utile per il 48,3% dei pazienti. Dal primo Rapporto Sociale sull’Artrite Reumatoide della Società Italiana di Reumatologia (SIR) e dell’Associazione Nazionale Malati Reumatici (ANMAR) e del Censis, chiare indicazioni sulle necessità di intervento per migliorare il modello assistenziale:

- il potenziamento dei centri di reumatologia come punto di riferimento per la cura e per l’accesso a terapie più efficaci

- una rete reumatologica meglio distribuita sul territorio per abbreviare i tempi delle diagnosi

È un vero e proprio “percorso ad ostacoli” quello che i 300mila malati di artrite reumatoide si trovano a vivere in Italia come dimostrano le risposte dei 646 pazienti raccolte dal Censis nel primo Rapporto Sociale sull’Artrite Reumatoide voluto da ANMAR e da SIR [2]. Per la prima volta con un approccio scientifico e questionari validati a livello internazionale è stato possibile tracciare una fotografia della condizione dei malati, analizzare l’impatto economico e sociale della malattia e valutare, attraverso le indicazioni dei malati stessi, le possibili aree di miglioramento per realizzare un modello assistenziale a misura di paziente.

La prima difficoltà emersa è legata ai lunghi tempi per ottenere una diagnosi. “Il rapporto ci conferma un dato sconfortante”, commenta Antonella Celano, presidente dell’ANMAR. “Da una media di 11,7 mesi, si raggiungono i 18,1 mesi se la prima diagnosi è effettuata da uno specialista non reumatologo, fino ad arrivare a oltre 2 anni (24,2 mesi) necessari ad avere una conferma di diagnosi da un reumatologo dopo essere passati da un altro specialista”.

“Per una migliore gestione della malattia e un rapido accesso alle terapie efficaci è indispensabile intervenire garantendo un corretto percorso che porti dal medico di medicina generale allo specialista reumatologo con corsie preferenziali per i casi che presentano anche solo il sospetto di artrite reumatoide”, afferma il Prof. Carlomaurizio Montecucco, Presidente della Società Italiana di Reumatologia. Analisi confermata dall’indagine: nel caso in cui il passaggio dal medico di medicina generale al reumatologo abbia funzionato, i tempi della diagnosi si riducono a 10,8 mesi.

Colpisce anche l’inadeguatezza delle terapie: il 37,3% dei pazienti assume ancora esclusivamente antinfiammatori, mentre solo il 59,9% accede alle terapie di fondo con gli anti-reumatici modificatori della malattia (DMARDs, molecole in grado di modificare il decorso della malattia) e un esiguo 7,4% ai farmaci più innovativi come i biologici, i soli in grado di indurre una remissione della malattia. Accede in misura maggiore alle terapie più efficaci chi è in cura presso un centro reumatologico ospedaliero o universitario (il 71,8% è curato con DMARDs e il 16,7% con i farmaci biologici).
Tuttavia, esistono forti difficoltà di accesso ai centri di reumatologia e la percentuale di malati che vi è in cura è estremamente bassa: il 17,3%. L’82,7% che non vi accede indica come principale causa la distanza dalla propria abitazione (31,4%), la mancanza del servizio nella propria area di residenza (17%) e le liste d’attesa troppo lunghe (12,7%).

“Dal Rapporto emerge come tutte queste problematiche siano anche fortemente condizionate dalla variabile territoriale”, aggiunge Ketty Vaccaro, responsabile del settore Welfare del Censis. “I tempi per le diagnosi sono più lunghi al Sud e nelle Isole, le segnalazioni di irraggiungibilità dei Centri da parte di chi non li frequenta sono particolarmente critiche in quest’area del Paese, il 41,7% contro la media del 31,4%, così come le liste d’attesa, evidenziate al Sud dal 20,4% del campione contro la media del 12,7%”. Nel Nord Est e nel Sud si è curati in modo meno efficace, con un’incidenza maggiore di farmaci sintomatici (rispettivamente 44,6% e 40,5%), rispetto ad esempio al Nord Ovest dove maggiore è la diffusione delle terapie di fondo (65,3%).

“Esiste un’Italia a tre velocità di fronte alla quale serve un impegno anche politico indirizzato a garantire pari opportunità di accesso alle cure e standard di trattamento uniformi su tutto il territorio nazionale”, afferma Antonella Celano. “Mi appello anche alle Regioni perchè sono ancora una netta minoranza, solo quattro, ad aver inserito l’artrite reumatoide nei loro piani sanitari”.

“Dall’indagine traspare in pieno la complessità del mondo dei pazienti: un universo fatto di mille variabili, paure, incertezze, rinunce. Una patologia che tocca l'individuo nel profondo, ma che sembra in qualche modo negletta. Una malattia con una sintomatologia iniziale, non così diversa dai semplici dolori reumatici, per la quale esiste una forma di forte negazione che in qualche modo aiuta la rimozione collettiva del problema”, aggiunge Giuseppe De Rita, presidente della Fondazione Censis.

Una malattia malcurata e le difficoltà di accesso ai migliori punti di riferimento per la cura, si traducono per i malati in una vita piena di limitazioni e rinunce: il 42,9% del campione ha dovuto smettere di viaggiare o di praticare i propri hobby, il 22,7% ha dovuto seriamente modificare la propria attività lavorativa, senza contare le difficoltà nel compiere semplici gesti quotidiani; il 31,9% dei pazienti trova difficile aprire un barattolo, il 14,7% girare la chiave nella serratura. Forte anche il disagio psicologico: oltre il 40% dei pazienti intervistati si è trovato a pensare che nulla gli potesse essere di conforto e fra chi ha un livello di attività di malattia elevato, il 74,4% ha paura del sopraggiungere della fase acuta del dolore, il 71,7% si sente depresso.

“L’artrite reumatoide è una malattia subdola che impatta sulla dimensione lavorativa, relazionale e psicologica del vissuto dei pazienti e che può portare dalle micro limitazioni della vita quotidiana ad un drastico ridimensionamento dei progetti di vita”, afferma Ketty Vaccaro. “Il primo passo per affrontarla è dunque l’emersione e la revisione del modello di assistenza in chiave di prossimità e flessibilità”.

I malati, infatti, hanno chiare le priorità e sono determinati nel chiedere un rafforzamento complessivo del comparto sanitario. Fra i servizi da potenziare i Centri reumatologici figurano al primo posto: il 48,3% li ritiene utili e il 38,1% ne chiede il rafforzamento come forte presidio sanitario che funga da punto di riferimento per la cura della malattia. Seguono i servizi di riabilitazione e fisioterapia (37,5%), gli aiuti economici e/o gli sgravi fiscali (34,1%), le visite specialistiche ambulatoriali (32,1%), i ricoveri e day hospital (25,1%).

“È il dolore a guidare le richieste e le necessità delle persone affette da artrite reumatoide”, commenta il prof. Fausto Salaffi, Professore associato di Reumatologia presso la Cattedra di Reumatologia dell’Università Politecnica delle Marche. “Per questo i pazienti avanzano una forte richiesta di investimento nelle strutture e nei professionisti in grado di rispondere in modo efficace e veloce al bisogno di alleviare il dolore causato dalla malattia”.


Fonte: Censis


Riferimenti


[1] I centri di reumatologia considerati sono quelli presenti sul sito della SIR al luglio 2008. Non sono stati conteggiati sotto questa voce i centri indicati dai pazienti ma non contenuti nell’elenco SIR.

[2] Il Rapporto Sociale sull’artrite reumatoide è stato realizzato grazie ad un unrestricted educational grant di Roche.

Commento di Luca Puccetti

Si consigilia di leggere anche anche questo contributo di Parizia Iaccarino sul tema: http://www.pillole.org/public/aspnuke/admin_news.asp?id=4372


L'allarme del rapporto appare del tutto sproporzionato alla realtà assistenziale media dell'Italia. Che in alcune zone possano esserci disagi e ritardi è certamente vero, ma questo non è affatto corrispondente alla maggior parte delle situazioni e dei territori. La malattia, per lo più, è tutt'altro che subdola, come invece affermato, in quanto spesso esordisce in modo eclatante, talora persino drammatico, solo in rari casi l'esordio è insidioso. Non dobbiamo dimenticare inoltre che per confermare la diagnosi occorrono almeno sei settimane :

Criteri diagnostici ACR per l Artrite Reumatoide


1. Rigidità articolare mattutina di almeno 1 ora
2. Artrite di 3 o più articolazioni osservata da un medico
3. Artrite delle interfalangee prossimali, metacarpofalangee e dei polsi
4. Artrite simmetrica
5. Noduli reumatoidi
6. Positività del fattore reumatoide
7. Erosioni e/o osteoporosi articolari alle mani e/o ai polsi rilevate con radiografia

I primi quattro criteri devono persistere per almeno sei settimane. Per la definizione di artrite reumatoide sono necessari almeno quattro criteri. (Arthritis Rheum 1988;31:315-24)

Ma tutto ciò deve poi essere calato nella realtà del singolo caso. Infatti molte delle varianti cliniche di AR presentano un andamento relativamente benigno, specie se esordiscono nell'età avanzata, e spesso la grande maggioranza di tali forme sono ben controllabili da una terapia precoce con farmaci steroidei a bassi dosaggi e con farmaci di fondo generalmente ben tollerati, come l'idrossiclorochina. In casi più gravi è indicato ricorrere a farmaci quali il metotressato ed in caso di ulteriore fallimento terapeutico possono essere considerati i farmaci biologici nelle loro varie articolazioni, di primo e secondo livello. Non è affatto corrispondente al vero che solo i farmaci biologici siano in grado di indurre una remissione della malattia che addirittura può avvenire sia pure in casi eccezionali, persino spontaneamente, o, assai più spesso, a seguito di un trattamento precoce con farmaci convenzionali, quali steroidi e farmaci "di fondo" di primo livello. I sintomi in tal caso sono lievi e comunque ben controllabili con farmaci sintomatici quali antiflogistici non steoidei e/o analgesici e pertanto la qualità di vita di tali pazienti è accettabile.

Solo una minoranza delle artriti reumatoidi presenta precocemente un' evolutività verso il danno articolare severo e conseguentemente una precoce propensione ad indurre deformità e conseguentemente disabilità.


I farmaci biologici sono certamente efficaci, ma non sono una panacea e possono presentare rischi di reazioni avverse, specie, ma non solo, dal punto di vista infettivo ed hanno una percentuale media di mantenimento in terapia a 2 anni di circa il 50%. Nello studio GISEA ( J.Rheumatology 2007;34:1670-3) su 1257 pazienti con RA di lunga durata che iniziavano un anti-TNFs, 682 erano ancora in terapia a 6 mesi (54%): il 32% non aveva riportato significativi benefici clinici e il 14% aveva interrotto il trattamento per eventi avversi. Il rapporto Cochin dimostra inoltre che il retention rate (il mantenimento della terapia) con alcuni farmaci biologici è minore nella pratica clinica rispetto a quanto osservato nei trials. Percentuali superiori (70% a 1-2 anni) di retention rate sono state osservate in altri paesi come Svezia, Danimarca e Germania. Ragionando sul complesso dei dati disponibili, il retention rate dei diversi biologici, valutato su 20 lavori per un totale di 7000 pazienti, dimostra che ci si può attendere un’ interruzione del trattamento intorno al 20% nel primo anno di cura, percentuale che supera il 30% a due anni per arrivare a 40% a tre anni. Per cercare di superare questi limiti sono stati proposti aumento delle dosi o switching, con risultati ancora da valutare e comunque controversi.

Pertanto i farmaci biologici sono certamente una risorsa preziosa che, anche in considerazione del costo, deve essere usata allorquando risulti appropriata, ossia nelle forme con diagnosi ben definita e che non rispondano, dopo un tempo adeguato di terapia, ai trattamenti di primo livello. Anche il timing non deve essere troppo esagerato, se da un lato è opportuno assicurare le cure appropriate tempestivamente, prima che si manifestino gravi danni articolari, altresì non si deve correre il rischio di trattare con farmaci potenti e potenzialmente forieri di reazioni avverse, anche gravi, pazienti con artriti reattive classificate per troppo zelo come "very early" AR o pazienti con artriti reumatoidi curabili con successo con i farmaci di primo livello, come spesso succede quando l'esordio avviene in età avanzata.

Una notazione di semplice buon senso induce a ritenere che una "spinta" di forte intensità e concentrata nel tempo verso la prescrizione nell'AR di farmaci di secondo livello potrebbe mettere a repentaglio la sostenibilità del sistema sanitario farmaceutico pubblico ed indurre gli Organi Regolatori, specie nell'attuale contesto, ad attuare una sorta di "stretta della rimborsabilità", che potrebbe creare difficoltà ancora maggiori ai pazienti che necessitano effettivamente dei trattamenti più potenti e costosi.

Il ricorso ai centri specialistici deve inoltre essere riservato ai casi gravi, o non rispondenti ai farmaci biologici di primo livello. In molte situazioni è sufficiente il medico curante, magari coadiuvato, quando opportuno, dalla consulenza di specialisti reumatologi ambulatoriali. Un indiscriminato ricorso ai centri di secondo livello, potrebbe infatti allungare ulteriormente le liste di attesa e rendere ancora più difficile l'accesso ai Centri Specialistici ai pazienti che ne hanno effettivamente bisogno. In Italia spesso si confonde l'assistenza con la ricerca clinica. E' comprensibile che i Centri ove si compie ricerca abbiano la possibilità di reclutare i pazienti anche per i trials clinici, tuttavia l'attuale sistema rischia di creare un' eccessiva concentrazione di conoscenze e di potere decisionale, che possono divenire un reale problema per l'assistenza pubblica e per la libertà di scelta del paziente del proprio medico di fiducia e del luogo di cura. Anche da un punto di vista di corretta allocazione delle risorse non è neppure il caso di ricordare che la formazione di medici in generale e di specialisti reumatologi comporta anche per lo Stato un dispendio di risorse non indifferente, sarebbe assai miope se tali risorse fossero stae impiegate solo per formare specialisti che non possono avere l'esperienza necessaria per curare con i farmaci innovativi, sempre rispettandone scrupolosamente le indicazioni. Il meglio, talora, è nemico del bene.

Riferimenti bibliografici

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3852

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3104

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=2072

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=4372

Il rapporto può essere scaricato, previa registrazione, dal sito del Censis : http://www.censis.it/277/372/6411/6626/6633/6634/content.ASP

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