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Serve ridurre la pressione al di sotto di 140/90 mmHg?
Inserito il 12 luglio 2009 da admin. - cardiovascolare - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Secondo una revisione Cochrane non vi sono prove che arrivare a valori di pressione arteriosa inferiori a 140/90 mmHg porti ad una riduzione della mortalità e della morbidità, neppure nei diabetici e nei nefropatici.

Questa revisione Cochrane è partita dalla constatazione che negli ultimi anni si è imposta la tendenza a consigliare un target di valori pressori sempre più basso da parte delle varie linee guida. Questo atteggiamento è basato sull'ipotesi che ridurre la pressione arteriosa al di sotto dei valori standard di 140/90 mmHg possa diminuire le complicenza cardiache e cerebrali dell'ipertensione.
Ma esistono prove a sostegno di questa strategia? La revisione si è proposta di determinare se esistono evidenze in tal senso, vale a dire se raggiungere un target ≤ 135/85 mmHg comporti una riduzione della mortalità e della morbidità rispetto ad un target ≤ 140-160/ 90-100 mmHg.
Sono stati rivalutati i dati di 7 RCT (per più di 22.000 pazienti arruolati) in cui erano stati paragonati target "bassi" o "standard" di pressione diastolica (non è stato possibile ritrovare trials in cui venissero paragonati due target differenti di pressione sistolica).
Tra gli studi considerati figurano: lo studio MDRD (Modification of Diet in Renal Disease), lo studio HOT (Hypertension Optimal Treatment), lo studio ABCD (BP Control in Diabetes trials H and N), lo studio AASK (African American Study of Kidney Disease and Hypertension) e lo studio REIN-2 (Renoprotection in Patients With Nondiabetic Chronic Renal Disease).
Nonostante nel gruppo randomizzato a target di pressione diastolica più bassa si raggiungesse in media un valore di 3-4 mmHg più basso rispetto al gruppo randomizzato a controllo standard, non si è potuto dimostrare alcun benificio sulla mortalità totale (RR 0,92; 95%CI 0,86-1,15), sull'infarto (RR 0,90; 95%CI 0,75-1,25), sullo stroke (RR 0,99; 95%CI 0,79-1,25), sullo scompenso cardiaco (RR 0,88; 95%CI 0,59-1,32), sugli eventi cardiovascolari maggiori (RR 0,94; 95%CI 0,83-1,07), sull'uremia terminale (RR 1,01; 0,81-1,27).
Gli autori concludono che non vi sono evidenze che raggiungere una pressione diastolica inferiore a 90 mmHg riduca le complicanze dell'ipertensione o la mortalità totale. Sono necessari altri studi, ma per il momento non vi sono prove a sostegno della riduzione della pressione al di sotto di 140/90 mmHg in ogni tipo di iperteso. Il beneficio reale sulla salute di target pressori più bassi non può essere valutato a causa della mancanza di informazioni sulle reazioni avverse gravi e sugli abbandoni in ben 6 dei 7 trials esaminati. Analizzando i dati dei pazienti diabetici e nefropatici cronici non si è potuta dimostrare alcuna riduzione della mortalità e della morbidità nei gruppi a target pressorio più basso.


Fonte:

Arguedas JA, Perez MI, Wright JM. Treatment blood pressure targets for hypertension. Cochrane Database of Systematic Reviews 2009, Issue 3. Art. No.: CD004349. DOI: 10.1002/14651858.CD004349.pub2



Commento di Renato Rossi

In alcuni articoli precedenti [1,2] si era già discusso dello studio HOT e del fatto che mentre per i diabetici esiste qualche dato, derivante dallo studio UKPDS, a sostegno dell'ipotesi che il trattamento aggressivo dell'ipertensione riduce le complicanza cardiovascolari, non altrettanto si può dire per i pazienti con nefropatia cronica o con altre patologie cardiovascolari in cui spesso si cerca di arrivare a target pressori inferiori ai canonici 140/90 mmHg. Ovviamente si faceva notare che mancanza di evidenze non vuol dire automaticamente che raggiungere valori di pressione più bassi sia dannoso, tuttavia è bene essere consci che le raccomandazioni delle linee guida non sempre sono basate su soliti dati scientifici.
In un'altra occasione si evidenziava che il trattamento dell'ipertensione lieve non sembra portare a nessuna riduzione della mortalità totale e, se è vero che riduce gli eventi cardiovascolari totali, è anche vero che ne trae beneficio un paziente ogni 125 trattati per 5 anni; in compenso un paziente ogni 11 trattati per 5 anni deve sospendere il trattamento per comparsa di effetti collaterali [3].
Arriva ora la revisione Cochrane recensita in questa pillola a mettere radicalmente in discussione le nostre abitudini: non vi sono prove che raggiungere valori di pressione al di sotto di 140/90 porti ad un qualche beneficio sulla salute, neppure nei diabetici e nei nefropatici. Anzi il bilancio globale di un trattamento antipertensivo più aggressivo non può essere stimato in quanto nella quasi totalità dei trials considerati non venivano riportate le reazione avverse gravi e gli abbandoni della terapia.
Esiste una corposa metanalisi di 61 studi prospettici osservazionali [4] per oltre un milione di persone che suggerisce che nell'età media ed avanzata valori di pressione più bassi sono associati ad una riduzione della mortalità vascolare e totale, senza che ci sia una soglia fino a valori di 115/75 mmHg.
Tuttavia è facile obiettare che si tratta di puri dati osservazionali e che diverso è affermare che ridurre la pressione con i farmaci a valori, per esempio, di 135/85 porta a benefici maggiori rispetto ad ottenere valori di 140/90.
Gli autori della revisione Cochrane osservano che tendere a target pressori più bassi ha diverse conseguenze: per esempio la necessità di usare in ogni paziente un maggior numero di farmaci antipertensivi e/o dosi più elevate. Aumentano così i costi ed i possibili effetti collaterali che potrebbero azzerare i potenziali benefici della riduzione pressoria. Inoltre, a causa del ben noto fenomeno conosciuto come "curva J", una pressione troppo bassa potrebbe addirittura aumentare gli eventi cardiovascolari.
Correttamente gli autori Cochrane ammettono che, nonostante la loro analisi per sottogruppi, nei diabetici e nei nefropatici le evidenze di mancanza di benefici sono meno robuste. Per tale motivo, considerato anche che è in queste due popolazioni di pazienti che le linee guida insistono per un target pressorio che dovrebbe essere attorno a 130/80 mmHg, Arguedas e collaboratori stanno programmando una revisione della letteratura centrata su queste due specifiche sottopopolazioni. Staremo a vedere se si confermerà la bontà delle indicazioni delle linee guida oppure se assisteremo ad un clamoroso dietrofront.

Per ultimo gli autori Cochrane notano che, a causa della mancanza di studi ad hoc, sarebbero necessari trials specifici atti a valutare l'utilità di differenti target di pressione sistolica, sia negli ipertesi in genere che nei soggetti ad alto rischio come i diabetici, i cardiopatici ed i nefropatici. Qualche dato potrà arrivare da uno studio in corso, denominato ACCORD (Action to Control Cardiovascular Disease in Diabetes) in cui soggetti diabetici sono stati randomizzati a raggiungere due valori diversi di pressione sistolica (rispettivamente inferiore a 120 mmHg e 140 mmHg).

Infine non meno importante è il trasferimento di tutte queste conoscenze nel mondo reale: la pretesa di raggiungere valori pressori sempre più bassi implica una medicalizzazione ed un trattamento farmacologico intensivo che cozza contro la compliance del paziente, considerato anche che l'assunzione dei farmaci deve essere continua e durare per tutta la vita. Qualche volta il meglio è nemico del bene: conviene spesso arrivare a compromessi condivisi con il paziente ed accontentarsi di pressioni un po' più elevate, ma anche più facili da raggiungere e da mantenere.

Commento di Luca Puccetti

La revisione recensita e commentata magistralmente da Renato Rossi offre una conferma dell'inutilità delle attuali strategie volte a trovare sempre nuove persone da "curare" o da curare di più. Giampolo Collecchia, medico di medicina generale in Massa e Carrara, ha recentemente presentato una lucida analisi del problema relativo alla scomparsa dei sani.

http://www.pillole.org/public/aspnuke/downloads.asp?id=338

La questione non è nuova ed è stata magistralmente raccontatata da Jules Romains che nel 1923 scrisse la commedia Knock ou Le triomphe de la médecine. La vicenda narra del dottor Knock che sostituisce il dottor Parpalaid nel paesino di Saint-Maurice acquisendo tutti i suoi pazienti, poco abituati ad andare dal medico. Knock è abilissimo a convincere i cittadini di Saint Maurice di essere affetti da varie malattie, trasformando così l'intero paese in una clinica in servizio permanente. La vicenda è stata narrata anche in versione cinematografica e la prima fu nel 1925, ad opera di René Hervieu, poi nel 1933 ci fu quella di di Louis Jouvet e Roger Goupillières, nel 1950 sempre Louis Jouvet, Pierre Renoir e Jean Brochard ed infine ci fu anche la versione italiana interpretrata nel 1960 da un ispirato Alberto Lionello.

La strategia è quella dichiarata da Henry Gadson, della MSD nel 1976 alla rivista FORTUNE: "IL MIO SOGNO E' FARE FARMACI PER LE PERSONE SANE".

La strategia per ottenere questo risultato si impernia sulla frase magica "prevenire è meglio che curare". Quindi dalla medicina classica, in cui si attende che la malattia si manifesti clinicamente, si passa alla ricerca preclinica della malattia, nella convinzione che intervenire prima possa evitare conseguenze gravi o possa mitigarle.

Si passa dalla cura dei malati alla cura dei sani che sono in realtà malati di un qualcosa di cui ancora non hanno consapevolezza. Il successo della strategia passa proprio per far acquisire a quanti più soggetti possibile la consapevolezza di una malattia presunta od anche solo possibile in modo da spingerle in massa a fare qualcosa da cui qualcuno tragga un guadagno.

Tra le varie strategie per arrivare a tali risultati alcuni tra le più performanti sono quelle di:

- convincere gli opnion leader medici mondiali ad abbassare le soglie di rischio con la conseguenza di far intraprendere le cure più precocemente e di far assumere terapie più aggressive che necessitino di più mezzi da impiegare

- far prendere consapevolezza al cittadino che in realtà non è sano, ma malato inconsapevole, attraverso il cosiddetto "masked direct advertising", ossia la pubblicità mascherata da empowerment e con i "passaggi "sui media, passaggi di giornalisti scientifici e di opinion leader, spesso prezzolati o comunque solleticati dalla visibilità mediatica o dalla convinzione di fare opera meritoria per la categoria professionale di appartenenza che in tal modo acquisirà maggior potere, maggiori risorse, maggiori opportunità in tutti i sensi.

- promuovere, anche con l'aiuto (inconsapevole?) di intellettuali "culturalmente elevati" la cosiddetta medicina di iniziativa, ossia quella medicina che non attende che sia il paziente a chiedere aiuto al medico, ma che si rivolge proattivamente ai cittadini con fattori di rischio e che quasi sempre infatti non determina alcuna modificazione sul lungo periodo, proprio perché si rivolge a soggetti per nulla motivati spontaneamente.

Ovviamente una tale strategia amplia a dismisura la platea dei soggetti potenzialmente candidati ad un trattamento. Sfortunatamente le attuali strategie volte ad individuare chi tra la moltitudine dei soggetti candidati andrà incontro ad un evento o chi tra i trattati potrà realmente beneficiare di un intervento sono molto imprecise. Ne deriva che molti soggetti inizino una terapia e la cessino dopo poco, senza aver avuto la possibilità di beneficiare di alcunché, proprio perché spinti a "curarsi" solo da mode o da persuasioni palesi od occulte, senza alcuna seria determinazione a volersi realmente "curare", ma volendo invece solo continuare a vivere la vita senza mutare nulla, nella convinzione che, assumendo una pillola magica, questo che eviti le conseguenze a cui lo stile di vita scorretto li espone.

Inoltre molti soggetti prenderanno "inutilmente" un farmaco perché hanno un basso rischio di avere quelle conseguenze per evitare le quali è stato intrapreso un trattamento quando ancora si credevano sani.

Se gli effetti positivi sono incerti non mancano quelli negativi legati agli eventi avversi delle terapie o degli accertamenti (come ad esempio quelli radiologici) necessari nell'ambito del protocollo di "cura".

La definizione di soglie di intervento sempre più ambiziose si sta rivelando tuttavia una pericolosissima buccia di banana per i sostenitori della strategia della cura dei sani.
Dopo i dati sulle morti in eccesso legate al raggiungimento delle soglie fisiologiche di emoglobina nei soggetti con anemia da insufficenza renale, dopo le delusioni del controllo aggressivo del diabete, la presente metanalisi mette in guardia sul concetto che già tante volte abbiamo espresso: il meglio talvolta è nemico del bene.

Quello che abbiamo adesso sottolineato verrà moltiplicato allorquando prenderanno piede le strategie basate sulla valutazione genetica del rischio, ossia quando sarà ancor più anticipata la comunicazione della possibilità di ammalarsi, ossia quando sarà diffusa nella pratica clinica la cosiddetta medicina predittiva.

La medicina predittiva deriva dall'interazione tra tecniche di laboratorio, analisi statistica, calcolo delle probabilità, identificazione dei fattori di rischio genetici ed ambientali di malattia, al fine di pronosticare la probabile storia clinica del singolo individuo (V. Marigliano http://www.geragogia.net/editoriali/fragilita.html ).


Le opportunità ed i rischi di un tale scenario sono stati delineati dal Dottor Giuseppe Recchia, direttore medico della GSK, ( http://www.qlmed.org/Scopi/recchia.htm )

Lo sviluppo della medicina predittiva porterà cambiamenti di grande rilevanza: il problema è come, in che forma, in quanto tempo, a quali costi e soprattutto per chi.

Il rischio che l’attenzione del sistema farmaceutico si sposti dalla ricerca di farmaci tra loro diversi per trattare la maggior parte delle persone con una malattia alla ricerca delle persone geneticamente appropriate per i farmaci che si vogliono commercializzare non è del tutto remoto.

Le relative certezze della diagnostica convenzionale, basate su presenza o assenza di malattia saranno progressivamente sostituite dalle relative incertezze delle informazioni su rischi e probabilità di sviluppare malattie.

Test e screening genetici probabilmente precederanno le innovazioni terapeutiche e spesso sarà possibile individuare soggetti a rischio, senza poter modificare la loro probabilità di sviluppare la malattia.

Persone clinicamente normali potrebbero diventare "pre-pazienti" o "malati di rischio" per anni prima di sviluppare la condizione per la quale sono a rischio.

Non sappiamo come potranno rispondere le persone alla consapevolezza di un rischio e se questo indurrà una ripetuta domanda di assistenza sanitaria per essere rassicurati e per monitorare il proprio stato di salute.


Alle domande del Dottor Recchia si può rispondere che i medici devono stare molto attenti a ciò che faranno.

Già adesso l'invenzione delle malattie (che fine ha fatto la sindrome metabolica?) che vede nei medici i soggetti cui l'autorevolezza scientifica conferisce il ruolo di persuasori autorevoli, sta creando un esercito di soggetti che trovano in una catalogazione nosografica l'etichetta magica che trasforma la fatica del vivere in un "comodo" ruolo di soggetto malato, talora associato ad altri soggetti con problemi simili organizzati in formidabili strutture lobbistiche, molto frequentemente finanziate dai portatori di interesse.

Figuriamoci cosa potrebbe accadere se non ci fosse un'etica forte dei medici nell'usare gli strumenti anticipatori della medicina predittiva, specialmente se non ci fossero soluzioni ai possibili problemi predetti, specialmente se l'incertezza predittiva fosse elevata.


Referenze

1. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3091
2. http://www.pillole.org/public/manuale/articles.asp?id=107&page=1
3. http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=3370
4. Lewington S et al. Age-specific relevance of usual blood pressure to vascular mortality: a meta-analysis of individual data for one million adults in 61 prospective studies. Lancet 2002 Dec 14;360:1903-13.



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