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Frequenza cardiaca a riposo e mortalità |
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Inserito il 19 agosto 2012 da admin. - cardiovascolare - segnala a:
L'aumento della frequenza cardiaca a riposo nel corso di dieci anni risulta associato ad un aumento della mortalità da cardiopatia ischemica e della mortalità totale.
La misurazione della frequenza cardiaca è un parametro semplice e di facile registrazione e il medico di famiglia che segue un paziente per decenni è nella condizione ideale per monitorarne le variazioni nel corso del tempo.
In uno studio norvegese di tipo osservazionale (arruolati oltre 29.000 soggetti apparentemente in buona salute) si è visto, infatti, che l'aumento della frequenza cardiaca a riposo nel corso di un periodo di 10 anni è associato ad un aumento del rischio cardiovascolare. Nello studio la frequenza cardiaca dei partecipanti è stata misurata due volte, al baseline e circa 10 anni dopo. Rispetto a chi aveva una frequenza cardiaca inferiore a 70 bpm al baseline e al termine del follow up, chi aveva al baseline una frequenza inferiore a 70 bpm e dopo 10 anni una frequenza superiore a 85 bpm correva un rischio aumentato del 90% di andare incontro a morte da cardiopatia ischemica. Per i soggetti che al baseline avevano una frequenza compresa tra 70 e 85 bpm e al secondo controllo una frequenza superiore a 85 bpm l'aumento del rischio era dell'80% rispetto a chi manteneva le condizioni di base. La mortalià totale mostrava un trend simile, anche se meno pronunciato.
Questo studio suggerisce che il medico di famiglia potrebbe avere a disposizione un indicatore importante per stimare il rischio ischemico del singolo paziente. Nel soggetto che evidenzia un trend di aumento importante della frequenza cardiaca con l'andare degli anni si potrebbero così rafforzare le misure di prevenzione cardiovascolare primaria, anche se gli autori dello studio suggeriscono che, comunque, sarebbero necessari ulteriori studi.
Ci sia pemesso, però, un dubbio. La frequenza cardiaca è un parametro molto variabile e dipendente da svariati fattori. Averlo misurato due sole volte non ci sembra si possa considerare un metodo di monitoraggio ideale. Siccome però questo non è il primo studio che mostra come l'aumento della frequenza cardiaca a riposo sia un fattore indipendente di rischio ischemico, è più utile, per il medico, effettuare molte registrazioni del parametro nel corso delle varie visite, in modo da poter valutare se effettivamente il trend di aumento della frequenza cardiaca sia un dato costante.
Renato Rossi
Bibliografia
NaumanJ, Janszky I, Vatten LJ, Wisløff U. Temporal changes in resting heart rate and deaths from ischemic heart disease. JAMA 2011 Dec 21; 306:2579-2587.
Commento di Giampaolo Collecchia
La correlazione tra frequenza cardiaca a riposo elevata e prognosi negativa è dimostrata nei pazienti coronaropatici e negli scompensati. Come riportato nella presente “pillola”, molti studi epidemiologici hanno peraltro evidenziato nella frequenza elevata un potente predittore di ipertensione arteriosa, infarto miocardico, mortalità cardiovascolare e totale, anche nella popolazione generale. Il potere predittivo risulterebbe più basso nel sesso femminile, soprattutto per la mortalità coronarica, forse per il minor numero di morti cardiovascolari nelle donne. La correlazione sarebbe indipendente dai classici fattori di rischio, compresa l’ipertensione [1, 2, 3]. Il carattere lineare dell’associazione, senza curve a J o U, rende problematica l’individuazione di un limite superiore di normalità. Nella maggioranza degli studi il limite inferiore del quantile più alto è risultato compreso tra 75-89 b/m nelle popolazioni non anziane e tra 74-84 b/m nelle anziane [4]. Nonostante l’evidenza epidemiologica, il valore clinico della frequenza cardiaca è sottostimato. Le principali perplessità sono relative alla mancata dimostrazione, con studi disegnati ad hoc, dei benefici legati alla sua riduzione nei soggetti non cardiopatici. Restano inoltre da definire le problematiche relative alla variabilità della rilevazione e alla standardizzazione della misurazione, sia nella pratica quotidiana che negli studi clinici, che spesso non riportano la tecnica e il contesto di rilevazione In pratica, come comportarsi in un paziente non cardiopatico, che presenti una frequenza cardiaca aumentata ma non tachicardica, ad esempio valori di 85-90 b/m? Anche se il parametro viene considerato debole e non trova collocazione nelle tabelle di rischio, i dati epidemiologici invitano il medico ad una maggiore attenzione. Sicuramente sono necessarie diverse registrazioni in varie visite, durante la misurazione della PA (per almeno 30 secondi dopo la seconda rilevazione). Si devono escludere le condizioni in grado di aumentare la frequenza cardiaca, ad esempio stress, ansia, depressione, anemia, ipossia o assunzione di farmaci tachicardizzanti. Si devono inoltre sconsigliare abusi di caffè, nicotina, droghe. In pazienti motivati, si può consigliare di aumentare l’attività fisica aerobica, per aumentare il tono parasimpatico. In presenza di ipertensione arteriosa sono preferibili betabloccanti e calcioantagonisti non diidropiridinici.
Bibliografia
1) Kristal-Boneh E et al. The association of resting heart rate with cardiovascular, cancer and all-cause mortality. Eight year follow-up of 3527 male Israeli employees (the CORDIS Study). Eur Heart J 2000; 21: 116-24
2) Filipovsky J et al. Prognostic significance of exercise blood pressure and heart rate in middle-aged men. Hypertension 1992; 20: 333-39
3) Seccareccia F et al. Heart rate as a predictor of mortality: the MATISS project. Am J Public Health 2001; 91: 1258-63
4) Palatini P et al. Identification and management of the hypertensive patient with elevated heart rate: statement of a European Society of Hypertension Consensus Meeting. J Hypertension 2006; 24: 603-610
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