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TERAPIA DEL DIABETE E RISULTATI ORIENTATI AL PAZIENTE (= PATIENT-ORIENTED).
Inserito il 30 agosto 1999 da admin. - metabolismo - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

(Contempo 1999 – Aggiornamenti che collegano prove di efficacia ed esperienza)
(N.d.R.: traduzione integrale)


Un problema importante nell’odierna terapia del diabete mellito è lo scarso trasferimento delle conoscenze derivate dalle ricerche cliniche nella pratica clinica ordinaria[1]. Per migliorare gli standards e i risultati della terapia del diabete appare determinante l’impegno nelle seguenti aree: 1) le procedure diagnostiche e la condotta terapeutica devono essere basate sulle prove di efficacia (= evidence-based); 2) bisogna che i pazienti siano coinvolti più attivamente nella gestione della loro malattia; 3) ogni centro o area geografica deve effettuare controlli di qualità basati su risultati patient-oriented.

1) OBIETTIVI DELLA TERAPIA PATIENT-ORIENTED E TERAPIA DEL DIABETE EVIDENCE-BASED
Solo da poco sono disponibili prove di efficacia adeguate, in accordo coi criteri della evidence-based medicine[2], per guidare la gestione routinaria del diabete affinché si ottengano risultati specifici orientati al paziente.
Diabete mellito tipo 1. I risultati attesi, orientati al paziente, della terapia del diabete di tipo 1 comprendono il mantenimento di una qualità di vita il meno possibile compromessa dalla malattia, la prevenzione delle complicanze acute (chetoacidosi, ipoglicemia iatrogena) e la prevenzione delle complicanze microangiopatiche tardive e della successiva macroangiopatia. Nei primi anni novanta il Diabetes Control and Complications Trial [3]e altri studi[4] hanno dimostrato il nesso di causalità tra il grado di controllo glicemico e l’incidenza e progressione della microangiopatia diabetica nel diabete mellito di tipo 1. Nel Diabetes Control and Complications Trial l’insulinoterapia intensiva (iniezioni quotidiane multiple di insulina oppure infusione sottocutanea continua di insulina, con dosi di insulina adattate in base ad un automonitoraggio della glicemia) ha permesso di ottenere un miglioramento del controllo glicemico con una riduzione del livello medio di emoglobina glicosilata (HbA1c) di circa il 2% rispetto alla terapia convenzionale, ma a ciò si associava un aumento di tre volte del rischio di ipoglicemia. Questi risultati hanno fatto nascere preoccupazioni riguardo la sicurezza dell’insulinoterapia intensiva nella pratica usuale. Tuttavia, quando viene integrata in uno specifico programma terapeutico che enfatizza l’autocura del paziente, l’intensificazione della terapia insulinica ha dimostrato di ridurre i livelli di HbA1c senza un aumento del rischio di ipoglicemia severa anche quando usata come trattamento di routine[5-9]. In pazienti che hanno già sviluppato un danno d’organo microangiopatico, la fotocoagulazione laser per la retinopatia diabetica[10], la normalizzazione della pressione arteriosa elevata[11] e una particolare cura dei piedi[12] hanno dimostrato di essere trattamenti efficaci che riducono l’incidenza rispettivamente della perdita del visus, dell’insufficienza renale e dell’amputazione.
D’altro canto, gli asseriti benefici della dieta e dell’esercizio fisico per pazienti con diabete mellito di tipo 1 non sono stati sostenuti da adeguate prove di efficacia, anche se sono stati portati come pietre angolari della terapia del diabete ben avanti negli anni novanta[1]. La prescrizione di esercizio fisico regolare è stata abbandonata solo di recente[13], mentre la prescrizione dietetica sotto forma di pianificazione dei pasti viene ancora raccomandata[14].
Tra le terapie ancora in esame sono compresi gli analoghi dell’insulina ad azione rapida, come l’insulina lispro. Sebbene le proprietà farmacocinetiche e la biodisponibilità dell’insulina lispro dopo iniezione sottocutanea appaiano favorevoli a causa di un profilo di azione più rapida, la documentazione dei suoi potenziali vantaggi rispetto all’insulina regolare nella pratica clinica è tuttora in discussione. In una metanalisi di otto grandi trias clinici randomizzati di confronto tra l’insulina lispro e l’insulina regolare umana non c’era un miglioramento dei livelli di HbA1c, e la riduzione del rischio di ipoglicemia severa da 18.2 a 14.2 casi per 100 pazienti/anno nei pazienti trattati con insulina lispro è stata solo di significato clinico marginale[15]. I risultati di studi che suggeriscono miglioramenti nella qualità di vita associati all’insulina lispro[16] sono difficilmente interpretabili in quanto nessuno degli studi era adeguatamente “in cieco”. Sono in fase di sviluppo analoghi dell’insulina a lunga durata d’azione con migliori profili di efficacia per la modifica del fabbisogno basale di insulina, ma resta da vedere se questi sforzi si tradurranno in miglioramenti nella terapia insulinica intensiva. Poiché nessuno di questi analoghi dell’insulina esiste in natura, essi hanno potenziali rischi biologici[17] che vanno adeguatamente valutati rispetto ai benefici che possono avere; un processo decisionale, questo, che richiede la partecipazione attiva del paziente informato.
Diabete mellito di tipo 2. L’obiettivo terapeutico principale della terapia del diabete mellito di tipo 2 è di prevenire l’eccessiva morbilità cardiovascolare e la mortalità associata con questa condizione. Simile per disegno all’unico altro studio precedente sugli effetti delle terapie antidiabetiche sulle complicanze vascolari (lo University Group Diabetes Programme)[18], lo studio United Kingdom Prospective Diabetes Study (UKPDS), pubblicato di recente, ha confrontato gli effetti del controllo intensivo della glicemia con la terapia convenzionale per dieci anni in circa 4000 relativamente giovani pazienti (età media 53 anni, +/- 9) affetti da diabete mellito tipo 2 da poco diagnosticato[19]. Dopo tre mesi di dieta (perdita media di peso corporeo di 3.7 kg) e dopo stratificazione in base al peso corporeo ideale, i pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad una terapia intensiva con dieta e varie terapie orali e/o insulina, oppure ad una dieta convenzionale con terapia orale o insulina aggiunte quando necessario. L’obiettivo terapeutico per il gruppo in terapia intensiva era una glicemia inferiore a 6 mmol/L (= 108 mg/dL) e, per il gruppo in terapia convenzionale, una glicemia inferiore a 15 mmol/L (270 mg/dL) senza sintomi iperglicemici. Durante il periodo di osservazione di 10 anni, i pazienti assegnati alla terapia intensiva hanno avuto livelli medi di HbA1c più bassi rispetto ai pazienti del gruppo in terapia convenzionale (7.0% vs 7.9%; P < 0.001).
Nessuno dei trattamenti antidiabetici, sia nello University Group Diabetes Programme, sia nello UKPDS[18, 19], ha ridotto efficacemente le complicanze macroangiopatiche. Infatti, nello UKPDS, non c’è stata riduzione di rischio negli end points macrovascolari nei pazienti trattati con terapia intensiva rispetto ai pazienti che avevano ricevuto una terapia convenzionale[19]. Soltanto il controllo intensivo della glicemia con metformina in monoterapia nei soggetti obesi con diabete di tipo 2 ha ridotto la mortalità per tutte le cause rispetto alla terapia convenzionale[20]. La validità di questi risultati è stata messa in discussione su basi biometriche[21], soprattutto da quando, nello stesso studio, la terapia con metformina in associazione con una sulfanilurea è stata associata ad un aumento della mortalità correlata al diabete.
Restano tuttora le preoccupazioni iniziali riguardo i possibili effetti cardiotossici delle sulfaniluree nel trattamento di pazienti affetti da diabete di tipo 2 e da malattia coronarica[18], sostenute da recenti dati di fisiopatologia[22], in quanto i pazienti con coronaropatia clinicamente significativa sono stati esclusi dallo UKPDS[19]. In uno studio prospettico randomizzato, la terapia con infusione di insulina-glucosio per almeno 24 ore seguita da una terapia insulinica multidose a pazienti con diabete di tipo 2 dopo infarto miocardico acuto ha avuto come risultato un importante miglioramento del rischio di mortalità: la mortalità attuariale a 3.5 anni è scesa dal 44% nel gruppo in terapia standard al 33% nel gruppo di intervento (rischio relativo, 0.72; intervallo di confidenza [CI], 0.55-0.92; riduzione di rischio assoluta, 11%; numero necessario da trattare [NNT] 3.5 anni = 9)[23]. Il motivo di questi risultati non è completamente chiaro, ma la sospensione del trattamento con sulfanilurea nel gruppo di intervento può aver contribuito a migliorare la prognosi dei pazienti diabetici dopo un infarto miocardico.
L’UKPDS ha dimostrato i benefici del controllo intensivo della glicemia per la prevenzione del danno d’organo microangiopatico. Il miglioramento dello 0.9% nel livello medio di HbA1c nel gruppo in terapia intensiva in confronto con la terapia convenzionale era associato ad una riduzione statisticamente significativa del rischio assoluto del 5.1% (NNT10 anni = 20; 95% CI = 10-500) per l’esito globale di ogni end point correlato al diabete e del 2.8% (NNT10 anni = 36; CI non riportato) per le complicanze microangiopatiche]19]. Un altro problema dello studio è stato se qualcuno dei farmaci presentava vantaggi o svantaggi. La terapia intensiva di primo livello con insulina o gliburide (glibenclamide), ma non quella con clorpropamide, ha ottenuto migliori risultati a livello microvascolare rispetto alla terapia convenzionale. La clorpropamide era associata ad un aumento della pressione arteriosa. Questi risultati sottolineano la necessità di stabilire efficacia e sicurezza separatamente per ogni agente antidiabetico orale. Secondo l’UKPDS, la glibenclamide è un’alternativa evidence-based all’insulina come terapia farmacologia di primo livello per pazienti giovani con diabete di tipo 2 di recente insorgenza esenti da malattia coronarica.
Riguardo l’acarbose e il troglitazone, non ci sono dati che sostengano il loro ruolo nella prevenzione delle malattie vascolari nei diabetici di tipo 2, e ci sono preoccupazioni riguardo l’epatotossicità e altri aspetti della loro sicurezza.
In aggiunta, l’UKPDS[24] ha rimarcato i benefici di uno stretto controllo dell’ipertensione arteriosa nei pazienti con diabete di tipo 2. Una terapia di primo livello con il betabloccante cardioselettivo atenololo o l’ACE-inibitore captopril tendente ad ottenere valori pressori inferiori a 150/85 ha dimostrato di migliorare non solo la mortalità correlata al diabete (riduzione del rischio assoluto = 6.6%; NNT10 anni = 15; 95% CI = 12-18), ma anche le complicanze microvascolari (riduzione del rischio assoluto = 7.2%; NNT10 anni = 14; CI non riportato), un effetto, questo, apparentemente superiore a quello riscontrato col solo controllo intensivo della glicemia. Anche l’abbassamento dei lipidi con sinvastatina[25] e la terapia con aspirina[26] sono considerate misure terapeutiche evidence-based in pazienti con diabete di tipo 2. Le recenti controversie seguite ai lavori che suggeriscono un aumento di frequenza di eventi cardiovascolari in pazienti diabetici trattati con calcioantagonisti dovrebbe rappresentare un ulteriore ammonimento contro l’uso di terapie non evidence-based[27-29].

2) EDUCAZIONE DEL PAZIENTE E AUTOGESTIONE
L’autogestione da parte del paziente, inclusi il controllo metabolico e l’aggiustamento della dose dei farmaci, è stata efficace nel migliorare i risultati della terapia nel diabete di tipo 1[30] e di tipo 2[31]. E’ stato dimostrato che, se la terapia insulinica intensiva è integrata in un programma educativo strutturato utilizzando un corso formale per piccoli gruppi di pazienti[30, 32], i livelli di HbA1c e il rischio di ipoglicemia severa diminuiscono simultaneamente, ed è fattibile una liberalizzazione delle rigide regole per la dieta e lo stile di vita[5-9, 33]. In uno studio recente con 1103 pazienti affetti da diabete di tipo 1, la partecipazione a un programma simile è stata associata ad una riduzione del livello di HbA1c di circa l’1.2% e un calo del rischio di ipoglicemia severa da 0.35 a 0.16 casi per paziente/anno[9]. Tali programmi di educazione terapeutica sono verosimilmente in grado di superare il noto problema della non compliance del paziente con le terapie prescritte, in quanto il paziente informato definisce i suoi propri obiettivi terapeutici e sceglie le strategie terapeutiche che egli/ella adotterà nel lungo periodo[8]. Questo nuovo approccio va ben oltre le tradizionali strategie educative per il diabete, in quanto tende a rendere i pazienti in grado di definire livelli programmati individuali di HbA1c sulla base dei rischi che essi sono pronti a correre e degli sforzi che sono pronti a fare.

3) QUALITA’ DELLA CURA
Infine, poiché le strategie terapeutiche e preventive per la cura dei pazienti diabetici vengono sostenute da prove di efficacia provenienti da rigorose ricerche cliniche, sorge il problema di quanto questi progressi siano attualmente implementati nella pratica quotidiana. Sei anni dopo la pubblicazione del Diabetes Control and Complications Trial, si calcola che solo il 10% dei pazienti con diabete di tipo 1 negli Stati Uniti, rispetto all’80% della Germania[34], stiano utilizzando un tipo di terapia insulinica intensiva che tende a raggiungere livelli quasi normali di HbA1c. Le differenze tra un centro e l’altro nell’incidenza di ipoglicemia severa nei pazienti con diabete di tipo 1 appaiono inaccettabili[8, 32, 35]. In Europa la dichiarazione di St Vincent[36] ha incoraggiato procedure di miglioramento continuo della qualità, stimolando un numero crescente di centri a documentare e sottoporre al giudizio altrui procedimenti e risultati relativi alla qualità della cura del diabete. Se rese pubbliche ad intervalli regolari e discusse in gruppi di peer review (= revisione tra pari), informazioni di questo tipo potrebbero aiutare a migliorare i risultati e gli standards di cura nel diabete di tipo 1[9].
Altre iniziative per valutare la qualità di cura si sono basate sulla documentazione dei risultati in una popolazione, come è stato fatto mediante un registro perinatale o un registro delle amputazioni. Negli Stati Uniti, un Patient Outcome Research Team ha condotto uno studio di coorte che ha messo insieme dati longitudinali provenienti da sistemi di informazione clinica, dati amministrativi e referti di pazienti per esaminare l’efficacia e i risultati delle cure in ambienti di pratica clinica per persone con diabete di tipo 2[37]. I dati ottenuti in questo modo possono rivelare differenze nei risultati pazient-oriented quali la mortalità e l’incidenza di insufficienza renale terminale in pazienti con diabete di tipo 1 e nefropatia[38]. Variazioni nei risultati relativi ai pazienti e nelle procedure di cura dovrebbero essere rese pubbliche e disponibili per le organizzazioni di pazienti, i fornitori di cure sanitarie e i politici, come basi per decisioni cliniche e politiche.

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