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Quando la medicina migliore è l'ascolto, non l'azione
Inserito il 30 settembre 1999 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Di Arthur D. Silk, membro dell'American College of Physicians-American Society of Internal Medicine.


Quando iniziai la professione, anni fa, credevo fermamente che, per meritare il mio onorario, dovevo fare qualcosa per il paziente. Sentivo che, se non avessi fatto un'iniezione, suturato una ferita o almeno scritto una prescrizione, non avevo meritato il mio onorario. Solo dopo molti anni di professione ho capito ciò che gli psichiatri e i preti hanno sempre saputo: a volte il ruolo dell'ascoltatore è il più importante che si possa interpretare.
Quando la mia nipotina di quattro anni fa un ruzzolone, fiumi di lacrime si asciugano come per miracolo appena la madre l'abbraccia. Sebbene la legge abbia bandito tali contatti umani dalla professione medica, ci è ancora permesso di porgere un orecchio. Spesso i pazienti vengono nello studio con la consapevolezza che io non farò molto, ma con la speranza che io semplicemente li ascolti.
Come i miei pazienti mi hanno detto per anni alla loro maniera, una figura autorevole, informata e comprensiva, può servire in loco parentis. In molti casi un medico può dare molto conforto ai pazienti angustiati semplicemente esprimendo un genuino interessamento e dando loro l'opportunità di esprimere le loro sensazioni.
Anni fa, quando lessi in un articolo di giornale che i medici lasciano parlare i loro pazienti per una media di undici secondi prima di interromperli, io mi feci beffe dell'articolo. Subito, tuttavia, mi resi conto che ero colpevole dello stesso peccato. Spesso, quando un paziente comincia a parlare, io so cosa sta per dire, in quanto ha fatto lo stesso percorso nelle visite precedenti. Nell'impeto di un ritmo di lavoro febbrile, tendo a dimenticare che consentirgli di dirlo di nuovo con le sue parole e coi suoi tempi è parte del processo di guarigione. Sebbene sia difficile spezzare le vecchie abitudini, adesso cerco di frenare la mia lingua.
Nella mia pratica vedo regolarmente una settantatreenne ex-fumatrice con enfisema severo che, nonostante inalanti, cortisone e ossigeno portatile, ha sempre il respiro corto. Durante la visita metto il mio stetoscopio sul suo torace, le prendo la pressione e controllo se è cianotica. Ma per lo più la ascolto mentre mi dice come si sente. Sembra che ciò l'aiuti.
La mia esperienza è stata simile con i pazienti affetti da sindrome del colon irritabile, una condizione che può persistere nella mezza età e persino nell'età avanzata. Avendo visto decine di pazienti che non trovano sollievo con antispastici, triciclici, antidolorifici o lassativi, adesso mi rendo conto che essi vengono nel mio studio non perché si aspettano un miracolo, ma perché apparentemente traggono sollievo dal fatto che io li ascolti mentre mi dicono quanto si sentono avviliti.
Sir William Osler una volta scrisse: "Ascolta il paziente e ti dirà la sua diagnosi". Io aggiungerei questo: "Ascolta il paziente e lo aiuterai a sentirsi meglio". In questo caso, voi potreste pensare che prestare tempo e attenzione a ciò che un paziente ha da dire meriterebbe un posto nell'ICD-9. Non disturbatevi a controllare. "Listening" (= ascoltare) sta tra "liniment" e "listeria", il che sicuramente dice qualcosa sull'umanità dei burocrati.
ACP Observer, settembre 1999

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