Quando visitiamo un paziente con vertigine quanto siamo sicuri della diagnosi?
Amalia è una vecchia signora di 74 anni affetta da ipertensione arteriosa trattata con un tiazidico e un calcioantagonista. Soffre inoltre di artrosi diffusa. Una mattina chiama il medico curante e richiede una visita domiciliare: dal giorno prima lamenta la comparsa di vertigini abbastanza intense che le impediscono di alzarsi dal letto, accompagnate da senso di nausea senza vomito. Il medico curante visita la paziente e riscontra valori di pressione modestamente elevati (170/95 mmHg) e una vertigine che si accentua se la paziente si alza ma che è presente, anche se più attenuata, anche in posizione supina. Per il resto l’esame obiettivo è negativo. “Probabilmente il sintomo dipende dalla pressione un po’ alta” spiega il medico “inoltre lei soffre da anni di artrosi cervicale e anche quella può provocare vertigine. Comunque le prescrivo un farmaco e aumentiamo anche la dose degli antipertensivi”. Come si vede si tratta di un caso molto frequente e per questo considerato forse banale. Ma quanto possiamo essere sicuri della diagnosi? Siamo certi che la sintomatologia lamentata dalla signora Amalia dipenda dalla pressione arteriosa non perfettamente controllata e/o dall’artrosi cervicale (diagnosi questa su cui si potrebbe molto discutere visto che sulla vertigine cervicogenica non vi è accordo in letteratura). Certo potrebbe trattarsi di una sindrome vertiginosa benigna ad evoluzione auto-risolutiva ma non possiamo a priori escludere una causa più grave come per esempio un ictus ischemico in fase iniziale oppure un processo espansivo cerebrale. In questo, come in molti altri casi, il medico è ”costretto” a porre una diagnosi su base probabilistica e solo il decorso successivo dirà se la vertigine era in realtà dovuta un qualcosa di serio anche se meno probabile. Gioverò ricordare il detto di William Osler: “La medicina è la scienza dell’incertezza e l’arte della probabilità”.