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LA VISITA IN OSPEDALE Cap. 1: Un amico in pericolo
Inserito il 26 gennaio 2023 da admin. - professione - segnala a: facebook  Stampa la Pillola  Stampa la Pillola in pdf  Informa un amico  

Non mi piaceva girare per l’ Ospedale.
Benchè fosse pulito e spazioso non si poteva ignorare l’ odore dei disinfettanti e il senso di dolore e di sofferenza che portava con sè.

Da quando ero entrato la sensazione di angoscia non mi aveva abbandonato; fu con difficoltà che riuscii a trovare la stanza dove era ricoverato il mio amico Nuvolari.

Non me l’ ero sentita di far finta di niente; Annabella era rimasta a custodire la Casa dell’ Angelo ma aveva insistito perchè io andassi a sostenere quello che era stato, per tantissimi anni, il mio migliore amico. In realtà ci eravamo persi di vista da diverso tempo, ma a Collerotto l’ amicizia e la solidarietà avevano un peso molto più forte che nel resto del mondo.

Perciò avevo ripercorso quei corridoi che tanti anni prima avevo percorso su una sedia a rotelle spinta da Nuvolari. Oddio, a quel tempo non si chiamava così, ma il soprannome se lo era guadagnato proprio quel giorno.
Una macchina mi aveva mezzo investito mente percorrevo in motorino una delle traverse di Collerotto. La macchina poi era fuggita lasciandomi a terra, dolorante e sanguinante.
Per mia fortuna era passato lì Augusto sulla sua scassatissima 500 appena comprata di terza o quarta mano; si fermò, mi caricò a bordo incurante di sporcare di sangue i sedili e partì di gran carriera verso l’ ospedale più vicino.

Ricordo ancora con terrore quella corsa, con il motore che urlava a pieni giri, le curve prese in derapata alla massima velocità, i sorpassi contromano e le frenate da farti uscire dal parabrezza; fatto sta che arrivammo in ospedale prima ancora che riuscissi a balbettare “Rallenta!”

Per fortuna l’ incidente era stato meno grave di quanto sembrasse: tagli e abrasioni un pò dappertutto, un pò di punti chirurgici qua e là, una fratturina ad un osso che nemmeno sapevo esistesse, nulla che non potesse guarire con un pò di pazienza. Augusto rimase con me tutto il tempo, poi mi aiutò a risalire in macchina e mi riportò, a velocità più normale, a Collerotto.
E fu così che la corsa verso l’ospedale entrò nelle leggende locali, e fu così che Augusto si guadagnò il soprannome: Nuvolari, per sempre.
E per tanti anni fummo amici fraterni.

“ Bè – mi chiese Nuvolari quando mi vide – che ci fai da queste parti? – un’ occhiata all’ orologio che teneva sul comodino – Come al solito, eh? Cinque minuti prima della fine dell’ orario! – e, volto agli altri visitatori – Questo per chi non lo conosce, è il Sachem, il più sfaticato, approssimativo, inaffidabile signore di Collerotto”.

La risatina degli altri visitatori faceva capire che avevano inteso lo scherzo. Io risposi nello stesso tono:
-“Bè, sono venuto a liberare Collerotto da uno dei più pericolosi concittadini. Ha già tentato, proprio qui, di farmi la pelle tanti anni fa, adesso tocca a me…”.

Un paio di battutine, poi suonò il campanello del corridoio, quello che indicava la fine dell’ orario di visita, e, mentre tutti si affrettavano ad uscire, io dissi che mi sarei trattenuto ancora un minuto o due.
Attesi che i passi nel corridoio si fossero allontanati, e quando Carmela, l’ infermiera di turno si affacciò, fece finta di non vedermi. Eravamo amici dall’ infanzia, e non se ne era dimenticata.

Poi, sottovoce, cominciammo a parlare.
“ Nuvolà, ho parlato con quel mio amico. Mi ha detto che sta rischiando il posto, ma che comunque ci aiuterà”.
“ Lo sapevo, Sachè! Sugli amici per fortuna si può sempre contare…”.
“Va bè, ci dobbiamo sbrigare, tra una mezz’ora cambia il turno – guardai la sedia a rotelle in un angolo – te la senti ancora?”
Non rispose nemmeno. Si sollevò sulla braccia, mise le gambe fuori del letto e si appoggiò a me. Lentamente, con fatica, si lasciò trascinare verso la sedia e ci si adagiò sopra.

Voltai la sedia verso la porta poi per eccesso di scrupolo aprii una fessura e sbirciai nel corridoio. Carmela era dietro il vetro divisorio della stanza delle infermiere, voltata di schiena. Le mandai mentalmente un bacio, poi feci uscire la sedia e mi diressi verso il lato opposto alle scale e agli ascensori normali.
In effetti mi avevano spiegato che agli ascensori c’era sempre un bel pò di traffico, e giravano anche le guardie giurate (solo un paio, facile eluderle, ma non si sa mai…).
Dall’ altra parte, incassati in una nicchia della parete c’erano invece gli ascensori di servizio, sconosciuti ai più e funzionanti solo con il tesserino magnetico dei dipendenti.

Non ero un dipendente, ma chissà come ero stato omaggiato di un badge. Era quello di Gustavo, già infermiere nell’ ospedale e ora trasferitosi in altra città. Aveva “dimenticato” di restituire il badge perchè tanto sarebbe stato inattivato, ma Carletto, il genio informatico di Collerotto, mi aveva garantito, dopo un po’ di lavoro, che era riuscito a riattivarlo.
Nascosti nella nicchia passai il badge sul sensore e, incredibile a dirsi, la porta si aprì. Benedissi dentro di me Gustavo, Carletto, Carmela, e spinsi dentro la sedia. Poi premetti il bottone dell’ ultimo piano.
Quello era il momento più delicato: se avessimo trovato qualcuno lì davanti, l’ avventura sarebbe finita lì.

Non c’era nessuno, e ringraziando Iddio spinsi fuori la carrozzina e cercai di seguire le istruzioni: prima a destra, poi un lungo corridoio, poi tre gradini sulla sinistra e una porta di metallo apribile con una semplice maniglia, senza bisogno del badge.
Non credetti ai miei occhi quando vidi che corrispondeva tutto. Ero noto in borgata per il mio pessimo senso di orientamento, ma stavolta ce l’ avevo fatta!

Nuvolari scese dalla carrozzina e, un pò faticosamente, salì i tre gradini: la porta, che io avevo aperto, dava sul terrazzo dell’ Ospedale, una distesa di cemento grigiastro con tubi che uscivano da tutte le parti, alcune piccole cabine, pure di cemento. Nel complesso una vista piuttosto squallida.
Girai intorno alla cabina dell’ ascensore e presi la strada che mi avevano indicato; dopo alcuni metri lo spettacolo cambiò: c’era sempre il terrazzo di cemento, ma era stato ingentilito da alcuni vasi di gerani colorati, da un paio di leggiere panchine di plastica, una tenda che ora penzolava chiusa e legata ma che, si intuiva, nelle belle giornate di sole poteva essere aperta per fornire un pò d’ombra.

“È l’ angolo segreto del meritato riposo, dove il personale viene ogni tanto a fumare, a fare pettegolezzi, a rilassarsi. Intendiamoci, Nuvolà, io credo che anche la Direzione conosca benissimo questo posto, ma che ci può fare? Siamo in Italia, siamo a Collerotto, ti sembra possibile che uno riesca a chiudere un posto così?”

Davanti a noi si stendeva la borgata, splendente delle calde luci delle case, dei lampioni; più giù, separata da un lembo scuro di campagna, c’era la città vera e propria, sfavillante e piena di movimento. Ma soprattutto, quasi a fare un regalo a Nuvolari, quella sera c’era una luna enorme, splendente, appena velata da una leggerissima foschia che le dava una sfumatura rosata. Le stelle erano velate solo in parte, e quando un alito di vento soffiò via la foschia, ci coprirono come una coperta scintillante.
Nuvolari si sedette silenzioso su una panchina e io mi sedetti accanto a lui, rispettando anch’ io il suo silenzio.

Rimanemmo così qualche minuto, poi Nuvolari, sottovoce, cominciò a parlare.
“ Domani è la giornata, Sachè, domani mi opero”.
Non dissi niente, non c’era niente da dire.
“Domani, venerdì, se tutto va bene, potrò ancora rompere le scatole a tutti, ma lo sai che c’è anche una buona probabilità che io non mi svegli più – fece una risatina, il solito Nuvolari – “una ‘buona’ probabilità? Come è possibile chiamarla ‘buona’?”

Io tacqui ancora.

“Magari sopravvivo, Sache’, ma potrei rimanere paralizzato o peggio… Te lo immagini un Nuvolari sopra una sedia a rotelle per tutta la vita? E’ quasi meglio non farcela…
Scusa se ti ho dato questo impiccio, Sachè. Lo so che hai rischiato, è stupido, ma proprio non ce la facevo ad andarmene così… Sentivo il bisogno di vedere il mondo che sto lasciando, di parlare con un amico, di poter dire tante cose che ho dentro ma che ora possono uscire. Forse morirò, Sachè, e ho voluto che fosse una buona giornata per morire”.

Io tacevo ancora: cosa incredibile, secondo chi mi conosce.

“Vedi, Sachè, lo sappiamo tutti che prima o poi dobbiamo morire, però dentro di noi siamo convinti di essere eterni, che non ci sarà mai una fine. Poi ci troviamo davanti alla soglia e ci rendiamo conto di essere arrivati. È diverso se uno ci arriva senza accorgersene piuttosto che trovarsi fuori a suonare il campanello. Perchè in questo caso, nell’ attesa che rispondano, uno ha il tempo di ripensare a tutte le cose non fatte, a tutte quelle non dette, e si rende anche conto che sta per lasciare le persone che ama, e che queste magari hanno ancora bisogno.
Ho visto tante cose, amico mio, ho vissuto una vita che ne vale tre di quelle normali. Ho fatto mille cose, ho amato tante persone , ho accumulato dentro di me un tesoro di conoscenze, di ricordi, di progetti da completare, e ora…”.
Lo interruppi “Tutto questo si perde con te, come lacrime nella pioggia!”

Mi guardò interdetto, senza comprendere, poi riconobbe la citazione. Vidi alternarsi nei suoi occhi la voglia di arrabbiarsi perchè sbeffeggiavo il suo dolore, poi vidi lo sguardo che si illuminava nella comprensione, e vidi la sua bocca che, vincendo ogni resistenza, si apriva in una risata, una risata dolceamara di chi si sente appoggiato, pure nell’ ineluttabilità.
“Oggi non piove, Sachè, e io sono più bello del Replicante di Blade Runner!”
“Dai Nuvolà – feci io cingendolo con un braccio intorno alle spalle – non ti illudere, prima di tutto non sei così bello, poi non è possibile mettere a riposo uno come te. Se di là c’è la vita nessuno dubita che tu non sarai lì ad assistere e ad intervenire quando serve; se di là non c’è nulla, non dimenticare che hai passato questa vita a lasciare dei pezzetti di te nel cuore di chi ti conosceva e che anche da lì continuerai ad aiutare, indirizzare e proteggere. Poi ci penserò io a ricordarti e a farti ricordare, e già lo sai, nessuno muore davvero se vive nei ricordi degli altri…”.

Lui aveva gli occhi lucidi, forse pensava a qualcuno che solo io sapevo. “Sachè, non ti dimenticare di nessuno…”.
“Tranquillo, Nuvolà, se no che razza di amico sarei?”

Rimanemmo lì a guardare le stelle, io tenevo stretto il mio amico, e lui parlava piano mentre si riempiva gli occhi, e mi parlava di questo e di quello, delle sue vittorie e dei suoi errori, entrambi insignificanti di fronte al cosmo che ci si apriva davanti, ma tutti impregnati della buona volontà di Nuvolari.
“Ho fatto del mio meglio, Sachè, ho sempre fatto del mio meglio”.
E rimanemmo fino all’ alba, prima di riscendere giù verso la decisione finale del destino...

Seguono il cap. 2 e il cap. 3

Daniele Zamperini 2022 – “Ricordando il Bar dello Zozzo”
Matite di Roberta Floreani


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