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Il medico e la legge

Data : 04 luglio 2005
Autore : admin

Pagina: 1 - Prefazione

Per gentile concessione dell' Avv. Nicola Todeschini pubblichiamo un compendio sulla responsabilità professionale del medico dal punto di vista del giurista, che non sempre coincide con la percezione che il medico ha della problematica.
L' opera viene pubblicata a capitoli nella sezione articoli del sito ed è inoltre scaricabile in forma completa come documento in formato pdf: scarica l'opera
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Perchè scrivere ancora di responsabilità medica ?

Perchè la tutela del Malato è di moda ma non è certo piena ed efficace. Ogni sforzo verso un miglioramento è quindi, a mio modo di vedere, comprensibile e ben indirizzato. Sempre più spesso l’imprudenza è alla base della colpa professionale: basti pensare alle negligenze in sede di diagnosi, ai mancati approfondimenti diagnostici, alla crisi del consenso informato. Quello che segue è solo un modesto contributo per orientarsi e per sottolineare quanto la responsabilità professionale medica sia ormai un settore specifico della responsabilità civile ove anche regole di consistente importanza trovano parziale deroga.

Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw



Pagina: 2 - Indice

1- Professioni intellettuali e contratto d'opera
2- Obbligazioni di mezzi e di risultato: una distinzione in crisi ?
3- Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: distinzione e tentativi di superamento
4- L'art. 2236 cod. civ. e la sua applicabilità anche al di fuori dell'ambito civilistico
5- Spunti di riflessione sul concetto di diligenza
6- Diligenza professionale, imperizia e imprudenza
7- Diligenza ed non adeguatezza degli strumenti materiali
8- La colpa professionale e lo standard di riferimento per la valutazione della diligenza
9- Consenso informato
10- Responsabilità professionale e dovere d'informazione
11- La colpa lieve e la colpa grave
12- Il nesso di causalità
13- L'onere della prova: una questione aperta
14- La responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale
15- Osservazioni sulla responsabilità medica d'equipe
16- La responsabilità per fatto degli ausiliari
17- La responsabilità dell'ente ospedaliero per colpa dei sanitari: verso l'individuazione della prestazione di assistenza sanitaria
18- Omeopatia e responsabilità professionale
19- Il caso del chirurgo estetico
20- L'importanza dell'assicurazione: tutela del professionista e garanzia per il paziente

Ulteriori segnalazioni dei medesimi scritti su:
- Lo speciale di Consumerlaw
- Assisearch.it
- TAGETE
- Diritto.it e la nostra vetrina
- Assilearning.it
- ErgaOmnes.net
- La segnalazione di Assisearch.it
- La segnalazione di www.ilcomuneinforma.it
- La pubblicazione su Assomedici



Pagina: 3 - Professioni intellettuali e contratto d'opera

La disamina del complesso problema della responsabilità civile del sanitario include un accenno alla nozione di professione intellettuale che emerge dal codice civile e soprattutto dall'elaborazione dottrinale.
La professione intellettuale, per dirla con il Cattaneo[1], consiste in quelle attività, di particolare pregio per il loro carattere intellettuale, che trovano il loro elemento qualificante proprio nella prestazione dell'opera puramente creativa, a significare la peculiarità che si ravvisa nell'apporto offerto dall'intelligenza e dalla cultura del professionista medesimo.
L'ulteriore elemento caratterizzante, rappresentato dall'autonomia di azione nella prestazione dell'opera professionale, va inteso non in senso assoluto, al punto da renderlo equivalente al concetto di libera professione, poiché se è vero che il libero professionista è sempre anche professionista intellettuale, non è vero il contrario, ben potendo quest'ultimo, come nella pratica spesso accade, prestare la propria opera inquadrato in un rapporto di lavoro subordinato; su tutti l'esempio del medico dipendente dell'ente ospedaliero.
Si segnala altresì il carattere della discrezionalità quale elemento caratterizzante la categoria in esame, che rappresenta la libertà di esercitare la propria professione, ben inteso anche nel caso di inquadramento in un rapporto di lavoro subordinato, con piena autonomia in ordine alle modalità di estrinsecazione dell'attività stessa. Tale aspetto risulta poi di tutta evidenza ed importanza nella professione intellettuale del sanitario anche in funzione delle sue prerogative e responsabilità.
E ancora, l'art. 2232 cod. civ., al primo comma, mette in luce un'altra essenziale caratteristica, ossia il carattere personale della prestazione, alludendo al rapporto fiduciario che si instaura tra il professionista e il suo cliente, avendo quest'ultimo diritto che il professionista presti personalmente la propria opera. Nell'adempimento della propria prestazione il professionista potrà poi avvalersi dell'ausilio di sostituti o ausiliari[2], sempre comunque sotto la propria responsabilità e direzione, in modo da non far venir meno la peculiarità del succitato legame.
Il trattamento che il codice civile riserva ai professionisti intellettuali, in considerazione della peculiarità della loro prestazione, consiste sia di aspetti "favorevoli", rappresentati ad esempio dalla disciplina contenuta negli artt. 2233 e 2234 cod. civ.[3] relativamente al compenso nonché alle spese ed agli acconti, ovvero nel disciplinare la responsabilità dello stesso art. 2236 cod. civ. -anche se l'interpretazione giurisprudenziale ha gradatamente eroso l'ambito di applicazione- sia da aspetti non certo di favore quale quello che emerge dalla lettura dell'art. 2237 cod. civ.[4] sulla facoltà di recesso del cliente. Invero, come rilevato dal Gabrielli, “il trattamento di favore riservato al cliente -il quale, recedendo, non è tenuto a risarcire alla controparte il lucro cessante, a termini di contratto- si giustifica infatti in forza della tradizione, la quale, sottolineando il carattere liberale dell'attività dispiegata dal professionista, comporta per quest'ultimo una serie di privilegi, per solito favorevoli, ma eventualmente anche odiosi[5]”.
Nella maggior parte dei casi quindi, il professionista esercita la propria attività in esecuzione di un contratto d'opera intellettuale[6] disciplinato dagli artt. 2229 e segg. cod. civ., concluso con il cliente al momento in cui quest'ultimo gli conferisce l'incarico. Oltre agli obblighi stabiliti dagli artt. 2224 e 2232 cod. civ., il professionista ha degli ulteriori obblighi[7] che gli derivano dalle regole di correttezza, nonché dall'interpretazione del contratto secondo buona fede, infine dalla sua integrazione secondo gli usi e l'equità.
Peraltro il professionista può esplicare la propria attività anche inquadrata in un rapporto di lavoro dipendente, ad esempio con l'ente ospedaliero, in tali casi essendo con quest'ultimo che il paziente conclude un contratto[8]; pertanto il Servizio Sanitario Nazionale sarà tenuto ad erogare una prestazione medica del medesimo contenuto di quella che avrebbe dovuto erogare il medico libero professionista[9], trattandosi comunque, limitatamente -ben inteso- a ciò che riguarda l'intervento del medico, di contratto d'opera di un professionista intellettuale[10]. Peraltro la dottrina più recente ha variamente argomentato in tema di configurazione di una fattispecie complessa, rintracciabile sulla scorta di una valutazione globale della prestazione erogata dalla struttura organizzata, per l'esame della quale si rimanda a quanto scritto più oltre, nella sede più opportuna.

Note:
[1] G. CATTANEO, La responsabilità del professionista, Milano, Giuffrè, 1958.

[2] Sul punto si veda il paragrafo relativo alla responsabilità per fatto degli ausiliari.

[3] Art. 2233. - Compenso

Il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell' [associazione professionale] a cui il professionista appartiene. In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera e al decoro della professione.

Gli avvocati, i procuratori e i patrocinatori non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie affidate al loro patrocinio, sotto pena di nullità e dei danni.

Art. 2234. - Spese e acconti

Il cliente, salvo diversa pattuizione, deve anticipare al prestatore di opera le spese occorrenti al compimento dell'opera e corrispondere, secondo gli usi, gli acconti sul compenso.

[4] Diversamente, la disciplina più generale del contratto d'opera di cui all'art. 2227 cod. civ., pone il mancato guadagno della controparte a carico di chi esercita la facoltà di recesso.

Art. 2237. - Recesso

Il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta.

Il prestatore d'opera può recedere dal contratto per giusta causa. In tal caso egli ha diritto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l'opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente.

Il recesso del prestatore d'opera deve essere esercitato in modo da evitare pregiudizio al cliente.

[5] Sul tema del recesso unilaterale si veda G. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Quaderni di giurisprudenza commerciale, n. 76, Milano, 1985, 79.

[6] M. ZANA, Responsabilità del professionista, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991. A. e S. BALDASSARRI, La responsabilità civile del professionista, Milano, Giuffrè, 1993, 7 e segg.

[7] C. ASSANTI, Le professioni intellettuali e contratto d'opera, in Tratt. dir. priv., P. Rescigno, XV, Torino, 1986, 1493.

[8] A titolo esemplificativo si legga la massima di Cass. civ., sez. III, 24 marzo 1979 n. 1716, QL'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'Ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura. Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell'attività diagnostica e della conseguente attività terapeutica, quale organo dell'Ente ospedaliero, la responsabilità' del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dal comma 1 dell'art. 2947 c.c.f. Cirielli c. Bisaro e altro, in Giust. civ. Mass. 1979, fasc. 3; in Giust. civ. 1979, 1440, I; in Resp. civ. e prev., 1980, 90; in Riv. it. medicina legale, 1981, 880.

[9] C. ASSANTI, op. cit., 1488 e segg.

[10] Cfr. Cass. civ., sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144, ove si legge che: Q Nel servizio pubblico sanitario, l'attivita' svolta dall'ente pubblico gestore del servizio a mezzo dei suoi dipendenti, nell'adempimento del dovere verso il privato richiedente (titolare del corrispondente diritto soggettivo), e' di tipo professionale medico; similare all'attivita' svolta, nell'esecuzione dell'obbligazione (privatistica) di prestazione, dal medico che abbia concluso con il paziente un contratto d'opera professionale. Ed appunto per questa similarita', perche' quella svolta dall'ente pubblico a mezzo dei medici suoi dipendenti e' attivita' professionale medica, la responsabilita' e' analoga a quella del professionista medico privato. Con la conseguenza che vanno applicate, analogicamente, le norme che regolano le responsabilita' in tema di prestazione professionale medica in esecuzione d'un contratto d'opera professionalef. Balestra c. Scanga e altro, in Resp. civ. e prev., 1988, 992 (nota); in Giur. it., 1989, I, 1,300; in Dir. e prat. assicur., 1989, 298 (nota).



Pagina: 4 - Obbligazioni di mezzi e di risultato : una distinzione in crisi ?

Secondo una distinzione tradizionale e ancora seguita in dottrina, non senza dissensi, e in giurisprudenza, la prestazione del medico, salve eccezioni[1] che si vedranno in seguito, appartiene, essendone anzi uno dei più rilevanti esempi, alla categoria delle obbligazioni c.d. “di mezzi”, per distinguerle da quelle “di risultato”, avendo ad oggetto le prime "solo" un comportamento professionalmente adeguato, le seconde il risultato stesso che il creditore ha diritto di conseguire.

Argomentando in tale direzione, l'obbligazione del medico sarebbe pertanto quella di porre in essere un comportamento professionalmente adeguato, espressione della diligenza che lo standard[2] medio di riferimento richiede, non essendo al contrario tenuto a far conseguire un risultato consistente nella guarigione, giacché solo in parte legata causalmente alla prestazione che gli viene richiesta.

La distinzione comporta non scarse conseguenze sulla disciplina delle rispettive categorie, essendo in gioco la ripartizione dell'onere della prova, nonché l'applicabilità delle regole in materia di responsabilità debitoria.

In aderenza a quanto affermato dai fautori della distinzione tradizionale, infatti, la rigida regola di responsabilità fissata nell'art. 1218 cod. civ.[3] per il caso d'inadempimento, varrebbe soltanto per le obbligazioni di risultato, mentre per quelle di mezzi varrebbe il principio della diligenza[4].

Dal punto di vista dell'onere della prova, invece, si assisterebbe, nel caso delle obbligazioni “di mezzi”, all'individuazione dell'onere in

capo al creditore, dovendosi al contrario individuarlo in capo al debitore in quelle di “risultato”.

Ai nostri fini ne conseguirebbe che, essendo generalmente inquadrata l'obbligazione del medico tra quelle “di mezzi”, l'onere della prova[5] graverebbe sul paziente.

Sulla scorta di tale impostazione, la giurisprudenza ha formulato spesso giudizi assolutamente aderenti a tali premesse dando credito alla distinzione in oggetto[6].

In dottrina[7] peraltro si è sentita l'esigenza di argomentare diversamente: tra gli altri Rescigno[8] affronta criticamente la distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato, così come tradizionalmente inquadrata dalla dottrina, osservando che l'art. 1176 cod. civ.[9], riguardante la diligenza nell'adempimento, e l'art. 1218 cod. civ., sulla responsabilità del debitore per l'inadempimento, sono poste a regolamentare tutte le obbligazioni, e non sono suscettibili di applicazione distinta a seconda della tipologia di obbligazioni in discorso: applicabilità del severo art. 1218 solo per le obbligazioni di risultato, valendo il principio della diligenza per le altre.

La soluzione a tale incongruità viene vista dallo stesso Autore in una diversa individuazione delle categorie in oggetto, che preveda semmai il profilarsi di una tipologia di obbligazioni nelle quali la diligenza, oltre che la misura per valutare l'esattezza dell'adempimento, costituisce ed esaurisce l'oggetto stesso dell'obbligazione. In conclusione il comportamento negligente integrerebbe già, di per sé solo, gli estremi dell'inadempimento, senza doversi attendere il proseguimento della prestazione (nel nostro caso il felice esito, ad esempio, di un intervento chirurgico).

È altresì apprezzabile il tentativo di superamento della tradizionale distinzione, nel momento in cui si rifletta, con Bianca[10], sull'inopportunità di ritenere esistenti categorie di obbligazioni che non tendano ad un risultato, ove, al contrario, in tutte le obbligazioni si individua un risultato inteso come momento finale o conclusivo della prestazione che lo caratterizza[11].

Nel nostro caso, quello della professione medica, il risultato sarebbe per l'appunto, a titolo esemplificativo, l'operazione chirurgica esattamente eseguita, la corretta diagnosi della patologia in atto o la diligente prescrizione di una terapia adeguata.

Tale impostazione della distinzione, o il suo superamento definitivo, avrebbe anche l'effetto di contrastare, giova ribadirlo, una delle conseguenze che si volevano trarre dalla tradizionale tesi distintiva, ovverosia che, nel caso delle prestazioni <>, il valore della diligenza quale strumento di determinazione del contenuto della prestazione, non avrebbe trovato spazio; al contrario si è sostenuto poco sopra la validità di tale apporto, a prescindere dall'inquadramento della prestazione nell'una o nell'altra categoria, e sulla scorta di tale interpretazione sembra corretto proseguire nel lavoro.

Note:
[1] Tra le quali vi è certamente quella relativa alla responsabilità del chirurgo estetico, trattata nell'apposito paragrafo n. 26.

[2] Sul punto si legga più innanzi il paragrafo "La colpa professionale e lo standard di riferimento per la valutazione della diligenza".

[3] Art. 1218. - Responsabilità del debitore

Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

[4] D. CARUSI, Responsabilità del medico ed obbligazioni di mezzi, in Rass. Dir. Civ., 1991, 485 e segg., specialmente 488 e segg.

[5] Sul punto si vedano le più approfondite riflessioni contenute nel capitolo relativo alla responsabilità professionale.

[6] Cfr. Cass., 18 giugno 1975, n. 2439, in Giur. it., 1976, I, 1, 953; Cass., 18 aprile 1978, n. 1845, in Resp. civ. prev., 1978, 591; Cass., 21 dicembre 1978, n. 6141, in Giur. it., 1979, I, 1, 953.

[7] Di recente si espresso in senso del tutto aderente all'indirizzo che qui si segue C. CASTRONOVO, Profili della responsabilità medica, in Vita notarile, n. 3, settembre-dicembre 1997, 1222 e segg.; e ancora A. DI MAJO, Responsabilità contrattuale, Torino, 1997, 56.

[8] P. RESCIGNO, Obbligazioni, in Enc. Dir., XXIX, 1979, 190 e segg.; nonché il fondamentale contributo di MENGONI L., Obbligazioni <> e obbligazioni <>, in Riv. dir. comm., 1954, I.

[9] Art. 1176. - Diligenza nell'adempimento

Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.

Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.

[10] C. M. BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. del Cod. Civ. Scialoja e Branca, art. 1218-1219, Bologna-Roma, 1993, 30 e segg.

[11] In questo senso sembra anche Cass. civ., sez. II, 21 giugno 1983 n. 4245: Sebbene la prestazione d'opera professionale si risolva in prestazione di mezzi, e non di risultato, tuttavia in situazioni involgenti l'impiego di specifiche e squisite nozioni tecniche il professionista deve porre in essere i mezzi concettuali ed operativi che, in vista dell'opera da realizzare, appaiono idonei ad assicurare quel risultato che il committente e preponente si ripromette dall'esatto e corretto adempimento dell'incarico, con la conseguente valutazione del suo comportamento alla stregua della diligentia quam in concreto. Societa' Astor c. Societa' reale mutua assicurazioni, in Giust. civ. Mass., 1983, fasc. 6.



Pagina: 5 - Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale

Le due ipotesi di responsabilità per danni che qui interessano, quella contrattuale e quella extracontrattuale, sono tradizionalmente distinte e contrapposte per la differente disciplina che le caratterizza, anche se non mancano in dottrina tentativi di superamento della distinzione in oggetto.

Accennerò brevemente alla distinzione per chiarire i punti della successiva analisi.

Si ha illecito extracontrattuale -o aquiliano, dal nome della Lex Aquilia che disciplinava nel diritto romano tale responsabilità- quando sussista la violazione di un diritto o di una situazione giuridica tutelata in modo assoluto -erga omnes-, mentre si ha responsabilità contrattuale -o da inadempimento- quando ci si trovi al cospetto della violazione di un diritto relativo[1].

Si deve tenere presente che comunque l'espressione Qcontrattualef, riferita alla seconda delle due ipotesi di responsabilità, non deve far pensare alla necessaria sussistenza di un contratto, integrandosi gli estremi della categoria di responsabilità in oggetto anche quando si verifichi comunque l'esistenza di un pregresso rapporto obbligatorio, a prescindere dalla fonte dell'obbligo violato: delitto, contratto, atto unilaterale, o altro.

Peraltro, la chiarezza della distinzione parrebbe offuscata dal costante estendersi della sfera di responsabilità contrattuale[2], soprattutto quando si ponga attenzione agli artt. 1374 e 1375 cod. civ.[3], che rispettivamente disciplinano l'integrazione del contenuto obbligatorio del contratto -relativa alle conseguenze derivanti dalla legge, o in mancanza dagli usi e dall'equità- nonché l'esecuzione secondo buona fede. Nella misura in cui quest'ultima risulta decisiva per la determinazione del contenuto dell'obbligazione, risulta agevole apprezzarne il contributo alla forza espansiva della relativa responsabilità ex contractu.

Le rilevanti differenze di disciplina che si sogliono ricollegare alla succitata distinzione, abbracciano sia l'onere della prova che il termine prescrizionale della relativa azione di responsabilità, nonché gli effetti giuridici relativi al risarcimento del danno.

Quanto alla prima delle tre differenze, l'onere della prova nell'illecito contrattuale è caratterizzato dalla presunzione di colpa nel caso d'inadempimento, superabile solo ove il debitore provi che l'inadempimento o il ritardo non sono a lui riferibili per impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Pertanto all'attore sarà chiesto di provare il suo credito e la scadenza dell'obbligazione, mentre sarà il debitore che dovrà dimostrare l'impossibilità della prestazione per una causa a lui non imputabile per potersi liberare da responsabilità. Nell'illecito extracontrattuale l'onere della prova non è caratterizzato dalla presenza della presunzione, ma dall'osservanza della regola di principio secondo la quale l'onere di provare i fatti costitutivi della propria pretesa spetta a colui che l'avanza: è su colui che pretende il risarcimento dei danni che grava il relativo onere. Cosicché l'attore dovrà provare che il comportamento del convenuto gli ha provocato un danno e che tale comportamento è stato caratterizzato da dolo o colpa (salvi i casi di c.d. responsabilità aggravata o per fatto altrui)[4].

Venendo ora alla seconda delle differenze succitate, in specie quella inerente al termine prescrizionale, l'azione di responsabilità per l'illecito extracontrattuale si prescrive in cinque anni, mentre quella per l'inadempimento dell'obbligazione nell'ordinario termine decennale.

Quanto alla determinazione del danno risarcibile, vi è un ulteriore differenza da apprezzare, ricollegata al mancato richiamo, nell'art. 2056 cod. civ.[5], dell'art. 1225 cod. civ.[6] Infatti l'art. 2056, disciplinante la valutazione dei danni nell'illecito extracontrattuale, richiama al I c. le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ.[7], relativi rispettivamente alla configurazione del risarcimento del danno emergente e del lucro cessante in quanto conseguenza immediata e diretta, la valutazione equitativa del giudice in mancanza della possibilità di provare il danno nel suo esatto ammontare, la proporzionale diminuzione del risarcimento dovuto per concorso colposo del creditore nonché, infine, l'esclusione del diritto al risarcimento per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.

E' agevole pertanto notare, in questo breve excursus dei criteri di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, richiamati dall'art. 2056 cod. civ., la mancanza dell'ulteriore criterio della prevedibilità del danno di cui all'art. 1225 cod. civ., secondo il quale il risarcimento è limitato al danno prevedibile nel tempo in cui è sorta l'obbligazione ove l'inadempimento o il ritardo non dipendano dal dolo del debitore. Sicché la limitazione ai danni prevedibili fissata dalla norma appena richiamata, non si applica all'illecito extracontrattuale; con riguardo a quest'ultimo la valutazione del danno risente piuttosto dell'esatta configurazione del criterio di causalità tra l'atto e l'evento dannoso, sul quale si svolgeranno osservazioni più approfondite nel paragrafo relativo.

Peraltro, secondo alcuni[8], nell'ottica di una tesi di parziale vanificazione delle consistenti differenze di disciplina tra le due forme di responsabilità, la formulazione dell'art. 1225 cod. civ. consentirebbe, nonostante il suo mancato richiamo ad opera dell'art. 2056 cod. civ., l'estensione della norma anche all'illecito aquiliano sulla base della sussistenza dell'identità di ratio. A sostegno di tale argomentazione si cita anche il caso dell'affermata applicabilità dell'art. 2236 cod. civ. all'illecito extracontrattuale[9], precisando che il mancato esplicito richiamo della norma non significa l'affermazione dell'assoluta impossibilità di applicazione della norma stessa, non costituendo ostacolo insormontabile la semplice mancata indicazione.

A prescindere dall'accennata contrapposizione dottrinale sull'asserita possibilità di superamento[10] della distinzione tradizionale tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, nel segno dell'auspicabile uniformità di disciplina, e venendo ad un ulteriore profilo attinente al tema di fondo, si discute in dottrina e in giurisprudenza sulla configurabilità del concorso delle due responsabilità.

Secondo un'autorevole Autore[11], coloro che in passato si sono pronunciati in senso negativo, fondando la loro argomentazione ora sulla forza assorbente dell'obbligazione, ora sul rischio che la tesi affermativa potrebbe compromettere l'efficacia del contratto, in realtà poggiano il loro pensiero su di un errore di prospettiva, al quale bisogna replicare osservando che i contraenti Qnon prevedono certo l'azione dannosa di uno di essi e le relative conseguenzef, pertanto non ne risulta in alcun modo compromessa l'efficacia del contratto; e ancora considerando la mancanza di incompatibilità tra i due rimedi, non appare giustificabile l'esclusione della ricorribilità ad entrambi.

Ad una esclusione dell'ipotesi di concorso osta anche un ulteriore considerazione: ove ricorrano e i presupposti della responsabilità aquiliana e quelli della responsabilità contrattuale, non si vede per quale motivo l'interessato non possa scegliere quale rimedio esperire.

All'ulteriore obiezione secondo la quale il legislatore sancisce formalmente la possibilità di scelta tra due rimedi, quando intende concederla, si oppone, secondo l'Autore, una precisa replica: il legislatore prevede esplicitamente la possibilità di scelta quando la seconda ipotesi sia configurata come speciale[12] rispetto a quella Qprincipalef, mentre in questo caso sussistono autonomi e indipendenti requisiti per l'esercizio delle relative azioni.

Pertanto si deve concludere per la configurabilità del concorso di azioni, sussistendo in capo all'interessato la facoltà di esercitare sia la prima che la seconda delle azioni, ovvero assieme od alternativamente entrambe.[13]

La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha poi sottolineato anche altri aspetti del problema, osservando che <>[14], evitandosi in tal modo che la tutela del danneggiato, sotto il profilo dell'azione per responsabilità contrattuale, sia impedita dall'intervenuta prescrizione dell'azione di responsabilità extracontrattuale.

Altri autori hanno sostenuto che motivi per una soluzione opposta sarebbero da rinvenire nel principio secondo il quale la norma che tuteli in modo specifico un interesse prevarrebbe su altra disciplinante genericamente la difesa dell'interesse medesimo, e ancora che la situazione particolare esplicitamente voluta dalle parti, che si instaura con il contratto, assorbirebbe in essa la più generica tutela offerta da altre norme, conseguendone l'inapplicabilità del concorso.

A tali posizioni ha replicato peraltro il De Cupis[15], osservando come non appaia giustificabile la tesi della specialità della tutela apprestata in modo specifico da talune norme con forza esclusiva dell'altra garantita da norme generali, poiché non si vede come potrebbe ritenersi implicitamente posta una rinuncia alla tutela generale -ex art. 2043 cod. civ.- per il solo fatto di aver concluso un contratto, costituendo quest'ultimo un mezzo per conseguire un rafforzamento, non già un esclusione, della propria tutela giuridica.

A margine delle osservazioni sopra illustrate, può essere interessante affrontare un caso specifico[16], per la soluzione del quale la Suprema corte di Cassazione ha operato in modo da avvallare le tesi qui precedentemente prospettate.

Si tratta del delicato caso di un neonato che ha subito un danno cerebrale dovuto alla prolungata permanenza del feto nel corpo materno. Tale danno sarebbe stato evitabile operando attraverso un taglio cesareo tempestivo. La sentenza del Tribunale di Torino, fondandosi sull'applicabilità dell'art. 1 cod. civ., negava la responsabilità contrattuale dell'ente ospedaliero, in quanto il soggetto passivo non avrebbe potuto concludere validamente un contratto con l'ente medesimo prima della nascita; al contrario, riteneva sussistente una responsabilità extracontrattuale, peraltro non più azionabile per l'intervenuta prescrizione.

La Corte d'Appello di Torino, investita in secondo grado, negava la sussistenza di entrambe le responsabilità, sostenendo che il fatto della nascita si qualificava come presupposto ineliminabile per l'acquisto della capacità giuridica, non sussistendo la quale nessuna azione poteva essere esercitata. Appare in tutta la sua evidenza la delicatezza che la fattispecie sottoposta alla Corte di Cassazione manifestava.

La scelta operata dai giudici della Suprema Corte ha adottato percorsi diversi, identificando anzitutto il verificarsi del danno solo in parte al momento precedente la nascita, sostenendo piuttosto il suo verificarsi con la nascita, andando pertanto ad incidere su di un soggetto giuridicamente capace. A fronte di una situazione particolare, nella quale non sussistevano comunque più gli estremi dell'azione di responsabilità extracontrattuale, data l'intervenuta prescrizione, la Corte ha giocoforza intrapreso la via dell'affermazione di una responsabilità contrattuale, in linea con le odierne tendenze, evitando però di configurare un contratto a favore di terzo, bensì riconoscendo l'esistenza di una <>[17].

Dagli elementi fin qui esposti, peraltro sommariamente, emerge una conseguenza interessante sotto il profilo dell'evoluzione delle forme di responsabilità, dovendosi notare come di fatto con questa pronuncia si sottraggano, alla consueta area dei danni da responsabilità extracontrattuale, fatti dannosi che al contrario vengono ricompresi nella categoria della responsabilità contrattuale, a conferma dell'evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale in atto.



Avv. Nicola Todeschini
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Note:
[1] A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, Cedam, 1989, 205 e segg.

[2] A. DE CUPIS, Dei fatti illeciti, in Comm. del Cod. Civ. Scialoja e Branca, art. 2043, Bologna-Roma, 1993, 37 e segg.

[3] Art. 1374. - Integrazione del contratto

Il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l'equità.

Art. 1375. - Esecuzione di buona fede

Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

[4] A. TORRENTE P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, XIV ediz., Milano, 1994, 639; sul punto si veda anche A. DE CUPIS, op. cit., in Comm. del Cod. Civ. Scialoja e Branca, art. 2043, Bologna-Roma, 1993, 34 e segg.

[5] Art. 2056. - Valutazione dei danni

Il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227.

Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso.

[6] Art. 1225. - Prevedibilità del danno

Se l'inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione.

[7] Art. 1223. - Risarcimento del danno

Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Art. 1226. - Valutazione equitativa del danno

Se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa.

Art. 1227. - Concorso del fatto colposo del creditore

Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.

Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza.

[8] G. VISENTINI, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Enc. giur. Treccani, Roma 1990, 4; in senso negativo R. SCOGNAMIGLIO, in Novissimo digesto ital., voce Responsabilità civile, XV, Torino, 1968, 672 e segg.

[9] Sul punto si era già espressa favorevolmente Cass. civ., sez. un., 6 maggio 1971, n. 1282, sul punto si veda M. ANTINOZZI, Responsabilità medica, in Dir. e prat. assicur., 1988, 171.

[10] Cfr. sul punto anche l'opinione favorevole di P. RESCIGNO, op. cit., 206 e segg., nonché la posizione di F. GIARDINA, Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: una distinzione attuale?, in Riv. critica dir. privato, 1987, 79 e segg. Secondo quest'ultimo Autore anche la stessa configurazione del possibile concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sarebbe da intendere come segno della difficoltà di mantenere una distinzione suscettibile di superamento. La stessa difficoltà rappresentata dalla tradizionale distinzione tra obbligazioni Qdi mezzif e Qdi risultatof, in corso di superamento, contribuirebbe a sottolineare la fondatezza della sua tesi, suffragata anche dal progressivo avvicinamento in punto di onere della prova.

[11] R. SCOGNAMIGLIO, op. cit., 677 e segg.

[12] Il riferimento è alle ipotesi di cui all'art. 1385 cod. civ.

[13] Cfr. per i riferimenti giurisprudenziali Cass. civ. sez. III, 19 gennaio 1996, n. 418: QE' ammissibile il concorso tra la responsabilita' contrattuale e quella extracontrattuale di fronte ad un medesimo fatto che violi contemporaneamente non soltanto diritti derivanti dal contratto, ma anche i diritti spettanti alla persona offesa indipendentemente dal contratto stesso. (Nella specie la S.C. ha confermato la sentenza impugnata la quale aveva affermato il concorso della responsabilita' contrattuale ed extracontrattuale nei confronti del destinatario della merce trasportata, rispettivamente, del vettore e del custode, al quale il primo aveva consegnato la merce che poi era stata smarrita)., Soc. Alitalia c. Soc. Gallone, in Giust. civ. Mass., 1996, 85; in Danno e resp., 1996, 611 nota (SIMONE). E ancora, Cass. civ., sez. III, sent. 9705 del 06/10/1997: Q[…] con la conseguenza che la omissione di tale dovere di informazione genera, in capo al medico, nel caso di verificazione dell'evento dannoso, una duplice forma di responsabilita', tanto contrattuale quanto aquilianaf.

[14] Nella specie di lamentato danno da ipoacusia, la cassazione ha ammesso a carico del datore di lavoro il cumulo tra responsabilita' aquiliana per infortunio sul lavoro e quella contrattuale propria del rapporto di lavoro subordinato. Si tratta della sentenza della Cass. civ. sez. lav., 23 giugno 1994, n. 6064, Capitani c. Soc. Scac, in Foro it. , 1995, I, 201; in Giur. it., 1995, I, 1, 412.

Nello stesso senso cfr. Cass. civ. sez. lav., 5 ottobre 1994, n. 8090 De Mico c. Soc. S.C.A.C.-Societa' Cementi Armati Centrifugati, in Giust. civ. Mass., 1994, 1191 (s.m.).

Per un caso di responsabilità professionale dei sanitari si veda anche Tribunale Vicenza 27 gennaio 1990: QE' ammissibile il concorso di responsabilita' contrattuale ed extracontrattuale nel caso di lesione di diritti assoluti determinati da attivita' esecutive di prestazioni professionali in campo sanitario., Sossella e altro c. USL n. 9 Basso Vicentino, in Nuova giur. civ. commen., 1990, I, 734 (nota).

[15] A. DE CUPIS, op. cit., in Comm. del Cod. Civ. Scialoja e Branca, art. 2043, Bologna-Roma, 1993, 40 e segg.

[16] Si tratta della pronuncia della Cass. civ., III sez., 22 novembre 1993, n. 11503, in Giur. it., 1994, 1, I, 550, con nota di D. CARUSI, Responsabilità contrattuale ed illecito anteriore alla nascita del danneggiato.

[17] A. PINORI, Contratto con effetti protettivi a favore del terzo e diritto di nascere sano, in Giur. it., 1995, 1, I, 321. Nota a margine della sen. Cass. civ., III sez., 22 novembre 1993, n. 11503.



Pagina: 6 - L'art. 2236 cod. civ. e la sua applicabilità

L'art. 2236 cod. civ.[1] pone, come è noto, una limitazione di responsabilità del prestatore d'opera, circoscrivendola ai soli casi di dolo o colpa grave, qualora si trovi di fronte a problemi tecnici di speciale difficoltà.

Come osservato da M. Zana [2], la norma, ad una prima lettura, da un lato sembra in contrasto con un'interpretazione rigida dell'art. 1176 cod. civ., dall'altro non sembra accettabile che si preveda, in senso generale, un limite di responsabilità proprio a fronte di problemi di particolare incidenza, tanto più nel nostro caso, su interessi sì rilevanti del danneggiato.

A ben vedere, peraltro, la giurisprudenza[3] e la migliore dottrina hanno operato, all'interno della previsione dell'art. 2236 cod. civ., una distinzione che merita di essere ricordata: la norma si applicherebbe soltanto quando in discussione sia la perizia del professionista, non quando, al contrario, ci si trovi di fronte all'imprudenza o all'incuria, auspicandosi, in relazione a queste ultime, giudizi <>[4].

Ma cosa si intende <> ? Con riferimento alla professione intellettuale che qui interessa, quella medica, integrano l'astratta previsione normativa i casi che, per essere stati oggetto, nella stessa letteratura medica, di dibattiti e studi dagli esiti tra loro opposti, per la novità della loro emersione, ovvero per essere caratterizzati dalla straordinarietà e particolare eccezionalità del loro manifestarsi, non possono considerarsi ricompresi nel doveroso -rectius diligente- patrimonio culturale, professionale e tecnico del professionista, avuto riguardo, anche in questo caso, alle peculiarità del settore ove svolge la sua attività, e ad uno standard medio di riferimento[5].

Anche in questo caso quindi, la previsione legislativa deve di volta in volta trovare il suo contenuto peculiare, giacché sono comunque diverse le caratteristiche salienti delle categorie alle quali appartengono i prestatori d'opera, ed essendovi anche all'interno di ognuna, tanto più in quella medica, delle specialità che meritano di essere trattate apprezzandone, per l'appunto, gli aspetti caratterizzanti.

A questo proposito può essere ricordata una delle comprensibili doglianze di coloro che vengono interessati da procedimenti relativi alla responsabilità professionale, ossia quella della mancanza di uniformità, nelle varie sedi giudiziarie, quanto a preparazione specifica dei magistrati e dei consulenti ai quali si affidano. Certo anche questo spunto critico, già sottolineato in precedenza, non mancherà di suscitare perplessità, ma ritengo debba essere preso in considerazione essendo comunque un problema pratico riscontrato sul campo.

Quanto all'applicabilità delle limitazioni di responsabilità anche alla responsabilità extracontrattuale, in senso affermativo si sono pronunciate dottrina[6] e giurisprudenza[7].

In riferimento all'applicabilità anche in sede penale del principio della responsabilità limitata alla colpa grave in caso di lesioni o morte come conseguenza dell’esercizio dell'attività professionale, qui per inciso intendo fare breve accenno alla risposta affermativa che in dottrina alcuni[8] danno, nonostante già la Cassazione penale[9] abbia sostenuto l’inapplicabilità del principio di cui all'art. 2236 cod. civ., basandosi sull’art. 43 cod. pen., in forza della previsione, ivi contenuta, della semplice colpa lieve.

Come rilevato dal Finucci[10], tale posizione non è condivisibile alla luce del principio di unità e razionalità dell’ordinamento giuridico, che verrebbe altrimenti disatteso, senza sottacere le potenziali soluzioni aberranti che potrebbero derivarne quanto al contrasto di giudicati, in considerazione degli artt. 74 e segg., nonché 651 cod. proc. pen.

Al contrario sembra preferibile l’opinione di chi sostiene la necessità di ricercare, proprio negli artt. 2236 e 1176, II c., cod. civ., l’integrazione soggettiva della fattispecie di reato sotto il profilo della colpa professionale grave.

In questo senso, seppur con parziale diversa impostazione, pare muoversi la giurisprudenza più recente[11].



Avv. Nicola Todeschini
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Note:
[1] Art. 2236.- Responsabilità del prestatore d'opera

Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.

[2] M. ZANA, Responsabilità del professionista, in Enc. giur. Treccani, vol. XXVII, Roma, 1991, 4; si veda anche M. ZANA, La responsabilità del medico, in Riv. crit. dir. priv., anno V, n. 1, 1987, 162. In quest'ultimo testo l'Autore ricorda come l'art. 2236 cod. civ. altro non sia se non la codificazione di una regola giurisprudenziale consolidatasi nella vigenza del precedente codice. Su tutte ricorda la sen. Cass. civ., sez. un., 8 marzo 1937, in Resp. civ. e prev.,1937, 314.

[3] Cfr. Cass. civ. sez. III, 1 agosto 1996, n. 6937: <> Nappi c. Saunie, in Giust. civ. Mass., 1996, 1091.

E ancora cfr. Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464: <> Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Giust. civ., 1995, I, 767; in Resp. civ. e prev., 1994, 1029, nota (GORGONI).

[4] Cfr. sen. Cass. civ. n. 166 del 28 novembre 1973, in Foro it., 1974, I, 19.

[5] Cfr. Cass. civ., sez. III, 7 maggio 1988 n. 3389, in Dir. e prat. assicur., 1989, 497.

[6] CAZZANIGA-CATTABENI, in Med. leg. e delle Ass., Torino 1988, 490.

[7] Si legga in particolare la sen. della Cass. civ., sez. II, 17 marzo 1981 n. 1544: <>. Fascetto c. Rapisarda, in Giust. civ. Mass., 1981, fasc. 3; inoltre 1282/1971 e Cass. civ., sez. I, 8 novembre 1979 n. 5761, Sezione autonoma Credito Fondiario BNL c. Riella, in Giust. civ., 1980, I, 340.

[8] G. FINUCCI, Riflessioni sulla responsabilità professionale del medico nella complessa situazione sanitaria moderna, 1992, in Nuovo Dir., 1992, 420.

[9] Cfr. Cass. pen. sez. IV, 22 febbraio 1991: <> Lazzeri, in Cass. pen. 1992, 2756 (s.m.); in Giust. pen., 1992, II, 49 (s.m.).

[10] FINUCCI, op. cit., pag. 422.

[11] Cfr. Cass. pen. sez. IV, 10 maggio 1995: <>. Salvati n Resp. civ. e prev., 1995, 903, nota (PONTONIO).



Pagina: 7 - Il concetto di diligenza

Il concetto di diligenza, richiamato dall'art. 1176 cod. civ.[1], riassume in sé il complesso di cure e cautele che dovrebbero fondare il comportamento di ogni debitore al momento di soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto e alle circostanze di fatto che lo caratterizzano. Come chiarisce Rodotà[2], pur essendo il concetto di diligenza un criterio obiettivo, va visto ed interpretato nell'ottica del particolare rapporto, in funzione della sua specialità e della natura dell'attività esercitata, come prescritto dall'articolo sopra richiamato.

Inoltre è proficuo, secondo l'Autore citato, considerare i rapporti tra tale concetto e quelli di correttezza e buona fede, rispettivamente sanciti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ.[3], per apprezzarne la reciproca interferenza. Infatti, sulla scorta delle analisi già di Betti[4], bisogna valorizzare i concetti di buona fede[5] e correttezza nella loro funzione di ampliare o rispettivamente restringere il contenuto degli obblighi letteralmente assunti mediante contratto, nei limiti in cui la loro attuazione possa essere in contrasto con i principi di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Così anche il riferimento alla correttezza verrebbe ad affiancarsi a quello della buona fede, come strumento per la definizione della reale portata del rapporto obbligatorio.

E' quindi il caso di appurare la consistenza dei rapporti che questi due ultimi concetti hanno con quello di diligenza. L'operatività dei criteri di buona fede e di correttezza si pongono su piani diversi rispetto a quello occupato dalla diligenza, essendone diversa la funzione[6]. Buona fede e correttezza si pongono infatti sul piano degli strumenti d'integrazione del contenuto dell'obbligazione, laddove la diligenza, al contrario, assolve alla funzione di valutare <>, non con funzione integrativa o correttiva, piuttosto delimitando <>.

Ecco quindi che la diligenza, così come descritta più sopra, viene a porsi, al cospetto del concetto di correttezza, come criterio guida per valutare in quali limiti vi sia stata violazione della correttezza medesima, fondando così il proprio ruolo di criterio di responsabilità.

Risulta confermata pertanto la valenza duplice[7] della diligenza, come parametro di imputazione del mancato adempimento, e quale criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione.

Si è osservato[8] anzi, in accordo con quanto fin qui esposto, che lo sforzo diligente del debitore deve prodursi sin dalle fasi c.d. preparatorie della prestazione, manifestandosi queste ultime come comportamenti nell'interesse altrui e pertanto già giuridicamente doverosi, in quanto preparano il terreno affinché la prestazione consegua il suo risultato. In quest'ottica rileva l'utilizzabilità, da parte del creditore, dei mezzi di difesa contro l'inadempimento, già nella fase preparatoria, ove essa manifesti caratteri di inadeguatezza o difettosità, potendosi così rifiutare a ragione una prestazione preparatoria di tali qualità, ovvero un inizio di prestazione tanto difettosamente preparata.

Un esempio che Bianca propone al fine di chiarire le osservazioni condotte, è quello della negligente messa a punto -si legga preparazione- del mezzo che dovrà trasportare il creditore; nel nostro caso potrebbe argomentarsi similmente la necessità di considerare disponibili per il paziente quei rimedi contro l'inadempimento, cui si è fatto poc'anzi riferimento, ove si verificassero le condizioni per affermare che, ad esempio, la fase pre-operatoria sia stata caratterizzata da comportamenti inadeguati e difettosi, secondo ciò che prescrive la miglior scienza e tecnica operatoria; o ancora, potrebbero integrarsi tali condizioni qualora l'applicazione di un gesso fosse stata preceduta dalla mancata sottoposizione ad adeguate e necessarie indagini radiografiche, ovvero quando la prescrizione di una terapia non sia stata preceduta dall'acquisizione di adeguate informazioni sullo stato di salute del paziente o sulla sua particolare sensibilità all'assunzione di farmaci specifici.

Considerando poi che l'importanza dell'interesse strumentale violato, potrebbe altresì legittimare già in questa fase la risoluzione del contratto per inadempimento, ove l'inadeguatezza e la difettosità della fase preparatoria facciano presumibilmente prevedere un esito finale negativo, si comprenderà che, nel caso della prestazione professionale del medico, essendo gli interessi del paziente in gioco -tutela del bene della salute- sì preminenti, i principi suesposti potrebbero trovarvi applicazione precipua.





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Note:
[1] Art. 1176. - Diligenza nell'adempimento

Nell'adempiere l'obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.

Nell'adempimento delle obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell'attività esercitata.

[2] S. RODOTÀ, Obbligazioni, in Enc. dir. , Milano, 1969, 539 e segg.

[3] Art. 1175. - Comportamento secondo correttezza

Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.

Art. 1375. - Esecuzione di buona fede

Il contratto deve essere eseguito secondo buona fede.

[4] E. BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953.

[5] Cfr. anche sen. Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014: << Occorre inoltre rilevare che il consenso, oltre che legittimare l'intervento sanitario costituisce, sotto altro profilo, uno degli elementi del contratto tra il paziente ed il professionista (art.1325 c.c.), avente ad oggetto la prestazione professionale, sicche' l'obbligo di informazione deriva anche dal comportamento secondo buona fede cui si e' tenuti nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.).>> Sforza c. Milesi Olgiati, in Foro it., 1995, I, 2913 nota (SCODITTI); in Nuova giur. civ. commen., 1995, I, 937 nota (FERRANDO).

[6] A. DI MAJO, Obbligazioni e contratti. L'adempimento dell'obbligazione, Bologna, 1998, 37.

[7] Cfr. D. CARUSI, Responsabilità del medico, diligenza professionale, inadeguata dotazione della struttura ospedaliera, in Giur. it. , 1996 I, 1, 91, nota a Cass. Civ. 3 marzo 1995 n. 2466; inoltre L. MENGONI, Obbligazioni <> e obbligazioni <>, in Riv. Dir. Comm., 1954, I, 296 e segg.

[8] C. MASSIMO BIANCA, op. cit., art. 1218-1219, Bologna-Roma, 1993, 24 e segg.



Pagina: 8 - Diligenza professionale, imperizia e imprudenza.

Alle considerazioni del paragrafo precedente, riguardanti la ricostruzione della diligenza in generale come criterio di responsabilità, seguono le ulteriori osservazioni sul concetto di imperizia[1]. Quando infatti, come nel caso della prestazione professionale che qui si esamina, la diligenza comporta uno speciale sforzo tecnico, espressione di tale sforzo tecnico è per l'appunto la perizia, intesa come quel complesso di regole tecniche e professionali espresse dal livello medio della categoria d'appartenenza. Va da sé che nelle varie discipline oggetto di specialità, la perizia di volta in volta si caratterizzerà in modi parzialmente diversi, riempiendosi dei significati[2] tecnico-qualitativi attinti dallo standard medio rinvenibile nella categoria di riferimento[3], potendovi comunque rientrare quei principi fondamentali ritenuti alla base di qualsiasi attività medica, o meglio e più generalmente, sanitaria.
Sul punto merita di essere sottolineato anche il ruolo che l'aggiornamento costante del professionista svolge in punto di valutazione della sua condotta diligente. Il parametro per la valutazione della responsabilità, fondato sull'aderenza ai dettami che possono estrarsi dal bagaglio professionale, sotteso allo standard medio di riferimento, non può certo prescindere dall'affermazione del dovere di aggiornamento costante del professionista. Lo stesso codice deontologico[4] afferma tale necessità imprescindibile e del resto risulta ricompreso nello stesso principio di riferibilità allo standard medio, che per forza di cose deve essere lo standard "aggiornato", che la prestazione del medico debba nascere da conoscenze aggiornate e quindi tecnicamente apprezzabili.
Ricordando brevemente i capisaldi, qui accolti, della teoria dell'adempimento, soprattutto sotto il profilo degli oneri strumentali e della buona fede quale apporto integrativo del contenuto dell'obbligazione, sembra, a chi scrive, che sia inconcepibile la pretesa di una prestazione che non sia aggiornata, proprio in quanto spetta al debitore della prestazione mettersi in condizione di adempiere diligentemente e soprattutto di continuare a mantenere uno stato che gli consenta la prosecuzione diligente della propria prestazione.
Il concetto d'imperizia assume quindi rilievo anche in riferimento alla descrizione, elaborata dalla giurisprudenza, del campo di applicazione dell'art. 2236 cod. civ. Si è già osservato in precedenza che nella previsione della norma si riconducono solo i casi di imperizia, non invece le evenienze caratterizzate da imprudenza e incuria, nei confronti delle quali si sollecitano giudizi ispirati a criteri di normale severità[5].
Risulta così più correttamente delineato l'apporto dell'elaborazione giurisprudenziale che configura la diligente prestazione del professionista come una prestazione di assoluta delicatezza e importanza, tanto da richiedere una costante espressione di professionalità adeguata agli standard medi di riferimento, e prevede una responsabilità, limitata alla colpa grave e al dolo, soltanto in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, precisando però che tale limitazione non sussiste quando in gioco vi siano imprudenze o comportamenti di incuria; si realizza invece solo quando i problemi tecnici di speciale difficoltà mettano il professionista, di adeguata preparazione media, nelle condizioni di misurarsi con problemi che travalichino le sue -doverose- conoscenze, pur al cospetto della diligente prestazione che lo stesso abbia posta in essere.
Apprezzare l'accorta interpretazione dell'art. 2236 cod. civ., sostenuta da costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, significa individuare un principio interpretativo, coerente con le premesse svolte, che vuole racchiudere l'applicabilità dell'articolo in esame in una nicchia d'ipotesi sempre più ristretta, onde evitare che il ricorso a questa disposizione possa svilire il concetto di diligenza come criterio di responsabilità che si è cercato di illustrare.
Un esempio, infine, di condotta imprudente può essere d'ausilio alla completezza dell'esposizione.
Il caso, non ancora pubblicato, dal quale trarrò lo spunto per le considerazioni che seguiranno, rientra nella complessa categoria del c.d. errore diagnostico che, particolarmente in tema di diagnosi precoci di malformazioni al feto, assume contorni di assoluta importanza e di scottante attualità.
Il caso riguarda la nascita di un bambino affetto da malformazioni -non diagnosticate dal medico- riconducibili ad una patologia di rarissima verificazione, anche se le condizioni di salute della madre costituivano, per affermazione pacifica in letteratura, motivo di aggravamento del rischio di insorgenza, tra le altre, proprio di tale rarissima patologia. L'indagine medico-legale mette alla luce la difficoltà della diagnosi precoce, allo stato della scienza rinvenibile nelle condizioni di tempo e di luogo, tanto più in presenza di ulteriori elementi -posizione del feto e consistente pannicolo adiposo circondante il ventre della madre- che, frapponendosi di fatto alla possibilità di agevole diagnosi, costituiranno ulteriori ostacoli alla corretta effettuazione dell'esame diagnostico. Il caso sembrerebbe pertanto integrare gli estremi descritti dalla norma di cui all'art. 2236 cod. civ., limitante, pur nell'interpretazione restrittiva della Corte di Cassazione, la responsabilità del prestatore d'opera al dolo e alla colpa grave, ove si rinvengano i c.d. problemi tecnici di speciale difficoltà.
Ora, nel caso appena accennato, la condizione relativa all'emersione dei problemi tecnici di speciale difficoltà sembra avverarsi, dando accesso di fatto ad una valutazione solo in termini di colpa grave, ma, agli esiti di una valutazione globale dell'operato del medico, risulteranno al contrario elementi che suggeriranno altra interpretazione.
Invero, sussistendo potenziali rischi per la paziente, data la sua conclamata patologia a rischio, la condotta del medico doveva essere improntata alla massima attenzione proprio in direzione dell'eventuale diagnosi precoce di malformazioni fetali. Se è vero, come pare, che tale diagnosi, nella struttura ospedaliera di specie, sarebbe stata comunque particolarmente ardua, non solo per la scarsa qualità delle apparecchiature in dotazione, ma anche per la scarsa specializzazione dell'operatore che effettuava l'esame diagnostico, e se è vero che il medico ha sottoposto la paziente ad un numero di ecografie di gran lunga superiore alla media, temendo proprio il verificarsi di patologie simili a quelle riscontrate alla nascita, a nulla vale lamentare la difficoltà tecnica del caso, nonché l'inadeguatezza della strumentazione a disposizione, trattandosi di condotta imprudente, che di fatto non ha accesso all'art. 2236 cod. civ., nell'accorta interpretazione restrittiva sopra richiamata. Il sanitario avrebbe dovuto dunque per lo meno inviare la paziente presso un centro attrezzato con strumentazioni ecografiche più moderne e operatori più specializzati, giacché accontentarsi della cosciente inadeguatezza della propria indagine significa commettere un'imprudenza tale da non giustificare l'accesso alla limitazione di responsabilità di cui all'articolo in esame.
Sembra allo scrivente che quello di specie sia un caso tipico di -non- applicazione dell'articolo succitato, nella corretta visuale illustrata in dottrina e giurisprudenza, capace di stimolare la riflessione verso un salto di qualità dell'atteggiamento complessivo del sanitario. L'espressione diligente della condotta deve infatti manifestarsi in tutte le direzioni possibili, accettando consapevolmente i limiti che la medicina subisce ancor oggi e che forse sempre subirà, ma dovendosi preoccupare di aggirare l'ostacolo, che i mezzi strumentali a volte possono imporre, per usufruire di tutte le possibilità che la scienza consenta di percorrere, nell'esclusivo interesse del paziente.
Il tema dell'inadeguatezza della dotazione strumentale suggerisce un ulteriore approfondimento, in punto di valutazione della colpa professionale, per il quale rimando al paragrafo successivo.

Avv. Nicola Todeschini
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Pagina: 9 - Diligenza e non adeguatezza degli strumenti materiali

Lo sforzo tecnico caratterizzante la perizia, non può non interessare, oltre ai profili soggettivi poc'anzi descritti, anche gli strumenti materiali[1] impiegati per adempiere alla prestazione.
La perizia necessaria alla prestazione risulterebbe, per così dire, mutilata ove si volessero disgiungere i due aspetti, quello soggettivo e quello materiale, prevedendo regole diverse nell'uno e nell'altro caso. Invero, la scelta del mezzo attraverso il quale la prestazione trova la sua esecuzione, nonché preparazione, incide grandemente sulla prestazione stessa, potendone pregiudicare anche del tutto l'esito, ove non adeguata al tipo di prestazione sulla scorta dello standard qualitativo richiesto.
Non potrebbe pertanto il professionista limitare la propria responsabilità alla diligenza richiestagli, dal punto di vista professionale delle conoscenze tecniche adeguate -profilo soggettivo-, qualora si avvalesse di strumenti[2] inadeguati, in quanto risulterebbe spezzata la continuità e coerenza, nel corso della preparazione ed esecuzione della prestazione, della diligenza richiestagli.
Potrebbe argomentarsi altrimenti, in un ottica generale, solo ove si verificasse il caso in cui il "creditore della prestazione" fosse a conoscenza dell'inadeguatezza degli strumenti prescelti, analogamente a quanto disposto per il caso della cosa gravata da oneri, diritto di godimento o vizi, nel contratto di compravendita, ai sensi degli artt. 1489, 1491 cod. civ.
Tuttavia, sembra a chi scrive che, nel caso della particolare prestazione oggetto della presente disamina, un'argomentazione analogica di tale larghezza potrebbe considerarsi in contrasto con la delicatezza dei diritti in gioco, potendo comunque ritenersi che, nell'esatto -rectius diligente- adempimento della prestazione professionale da parte del medico, non possa trovare spazio un margine di rinuncia consapevole ai canoni della diligenza professionale che comportino un rischio per la salute del paziente, anche a fronte della consapevolezza -tutta da provare- di quest'ultimo.
Pertanto, potrebbe sostenersi che il medico, essendo tenuto ad esprimere una diligenza che coinvolga, come detto, anche la fase strumentale dei mezzi apprestati, sia tenuto a servirsi di strumenti che garantiscano uno standard qualitativo e tecnico adeguato al tipo di prestazione richiesta e al livello tecnico medio, configurandosi come una violazione della diligenza professionale anche il solo utilizzo di strumenti non corrispondenti ad un criterio di adeguatezza tecnicamente apprezzabile, a prescindere dall'eventuale conoscenza che, di tale inadeguatezza, abbia il paziente: si sarebbe così di fronte anche ad una violazione dei principi deontologici. Infatti l'art. 12 del cod. deontol., nel capo relativo agli accertamenti diagnostici e terapeutici, ricorda che il medico è tenuto ad una <> .
Certo che bisognerebbe anche riflettere sulle condizione di gestione e di dotazione strumentale di molti Ospedali italiani, ma questo è argomento che esula dalla presente trattazione.
E ancora, osta ad una possibile liberatoria di responsabilità, caratterizzata dalla conoscenza che il paziente possa avere circa l'inadeguatezza della strumentazione utilizzata, la circostanza che quasi sempre la prestazione è svolta nei confronti di chi non è in possesso dei mezzi culturali per apprezzarne appieno la qualità da un punto di vista tecnico.
Piuttosto, potrebbe verificarsi il caso che il medico, essendo a conoscenza, o dovendo esserlo, dell'inadeguatezza degli strumenti in suo possesso, possa comunque liberarsi da responsabilità qualora dimostri di aver coscienziosamente informato il paziente della circostanza, invitandolo a recarsi presso strutture meglio attrezzate -ovvero organizzandone il trasporto- e rifiutandosi pertanto di eseguire la prestazione sulla base dei mezzi in suo possesso, o comunque eseguendola, laddove possibile, in modo parziale -svolgendo ad esempio solo alcune indagini diagnostiche per le quali si trovi attrezzato- e indirizzando poi il paziente verso presidi ospedalieri o cliniche attrezzate ove proseguire la terapia o le indagini diagnostiche necessarie.
Se, effettivamente, accade molto spesso che la prestazione medica sia svolta all'interno di strutture organizzate, che mettono a disposizione del medico certa strumentazione, senza consentirgli di operare scelte qualitative per mancanza di alternative interne alla struttura, non è possibile adagiarsi su tale dato di fatto evitando comunque di confrontarsi con la realtà dei bisogni tecnici che la patologia del paziente richiede. Venendo ad un esempio pratico, se un particolare strumento diagnostico di non recentissima costruzione consente, nella maggioranza delle ipotesi, di effettuare esami accurati ed obiettivi, ma non è in grado di fornire allo specialista risposte adeguate al trattamento di casi che nascondono potenziali insidie nella valutazione specialistica, il prudente atteggiamento del medico non può non estendersi, come già anticipato nell'analisi di un caso inedito, a scelte che comportino l'invio del paziente presso strutture che posseggano strumenti di diagnosi avanzati e che possano fornire un supporto alla diagnosi ben più attendibile.
Concludendo, e considerando la dotazione della maggior parte degli ospedali, non si può certo far carico al medico dell'inadeguatezza della strumentazione rispetto ai migliori standard tecnologici disponibili, ma nemmeno si può pensare di considerare esente da responsabilità il sanitario che, ben potendo avvedersi di tale inadeguatezza nel caso specifico, ometta di indirizzare il paziente bisognoso di un'indagine più approfondita presso strutture che siano all'altezza di fornirla.
E ancora, considerando l'ulteriore evenienza[3] rappresentata dall'impossibilità di trasportare il paziente, ovvero dall'urgenza del trattamento, onde evitare il prodursi di un probabile grave danno, potrebbe soccorrere al medico, dal punto di vista dell'inquadramento giuridico, la prova dell'impossibilità di cui all'art. 1218 cod. civ. al fine di andare esente da responsabilità.

Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw



Pagina: 10 - La colpa professionale e lo standard di riferimento

Nelle pagine che precedono si è spesso fatto rinvio ad uno standard medio di riferimento, che dovrebbe costituire la discriminante tra la prestazione diligente e quella al contrario indiligente del professionista in genere.

A maggior ragione nel caso del sanitario, è d'uopo fare riferimento a tale standard per comparare la sua prestazione a quella che avrebbe dovuto porre in essere, secondo quanto prescrivono le pratiche comunemente espresse dal professionista medio[1] appartenente alla categoria di riferimento che interessa.

Se, invero, vi sono alcuni principi, quelli deontologici in primis, che debbono costituire il punto di riferimento principe di qualsiasi attività medica, a prescindere dalla specialità o campo d'applicazione dell'attività di specie, bisogna tuttavia tenere in considerazione che l'altissima specializzazione che caratterizza la scienza medica, ha di fatto consentito d'individuare, nell'ambito delle singole specialità, "comportamenti di riferimento" di volta in volta peculiari, ed è con tali standard che è necessario confrontarsi al momento della valutazione. Quest'ultima sarà condotta di norma sulla base dei pareri espressi da professionisti del settore, nonché da medici legali di adeguata preparazione, con l'ausilio degli apporti dei periti di parte, non possedendo il magistrato le necessarie competenze tecniche in materia.

Ed è su questo punto che si è creato il comprensibile conflitto con i medici legali e con gli specialisti, chiamati a esprimere i propri pareri tecnici sull'operato di altri colleghi, in quanto la valutazione tecnica, che viene condotta ex post, è bene affermarlo, sulla base della documentazione clinica e dei ricordi del professionista interessato, nonché sulla base dell'eventuale nocumento derivato al paziente, fondata sulla adeguatezza del comportamento del medico agli standard che la letteratura medica aggiornata detta sul caso, risulta sempre ardua, forse comunque parziale, non potendo tenere conto di una serie di variabili ambientali, emotive, contingenti che sarà compito del giudice tenere in debita considerazione.

La polemica, tra alcuni medici specialisti ed i medici legali, verte proprio sull'asserita freddezza e rigidità tecnica con la quale il loro operato è messo a confronto con lo stato dell'arte medica, il "famigerato" standard di riferimento, che ridurrebbe tale valutazione in una sorta di rigorosa trasformazione della complessa "arte medica" in una serie di operazioni e di dati che assolutizzano, per così dire, i comportamenti, secondo canoni tecnici e formalismi che nella pratica non troverebbero spazio.

Non essendo il mio compito quello di entrare nel merito di una polemica, che mi troverebbe comunque assolutamente privo delle competenze necessarie, mi limito a renderne conto in questa sede, considerata comunque la sua importanza, non senza auspicare un futuro ove collegi giudicanti da un lato, e consulenti tecnici di parte e d'ufficio dall'altro, unitamente agli avvocati, possano essere appositamente preparati a svolgere incarichi di tale delicatezza, che richiederebbero forse delle apposite sezioni ove essere trattati.

Questa osservazione nasce dal bisogno che il rapporto tra medico e paziente trovi una rinnovata fiducia, nell'interesse preminente ad un sereno e proficuo svolgimento della professione medica e più generalmente sanitaria, i cui risvolti sugli interessi della collettività non abbisognano certo di ulteriore illustrazione.



Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw




Note:
[1] Cfr. Cass. civ. sez. III, 3 marzo 1995, n. 2466: Il medico-chirurgo nell'adempimento delle obbligazioni contrattuali inerenti alla propria attivita' professionale e' tenuto ad una diligenza che non e' solo quella del buon padre di famiglia, come richiesto dall'art. 1176 comma 1 c.c., ma e' quella specifica del debitore qualificato, come indicato dal comma 2 dell'art. 1176, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, tenendo conto che il progresso della scienza e della tecnica ha notevolmente ridotto nel campo delle prestazioni medico-specialistiche l'area della particolare esenzione indicata dall'art. 2236 c.c. (nella specie la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale aveva escluso che possa considerarsi problema tecnico di speciale difficolta' per uno specialista ortopedico la corretta terapia della immobilizzazione delle articolazioni di un arto ustionato), Mascali c. Soc. Cristando, in Giust. civ. Mass., 1995, 514.



Pagina: 11 - Il consenso informato

Nell'attuale panorama delle professioni intellettuali, sempre più caratterizzato dall'alto grado di tecnicismo e specializzazione settoriale, il tema dell'informazione[1] al "cliente" assume, a maggior ragione, rilievo sempre più consistente, anche dal punto di vista deontologico.

In pressoché tutte le professioni intellettuali, il cliente, o meglio il creditore della prestazione professionale, viene più o meno indirettamente posto di fronte a scelte, comportanti valutazioni tra Qcosti e beneficif, sempre più ardue e complesse da comprendere, per assumere le quali risulta fondamentale, oltre che la sua cultura generale, la corretta informazione da parte del professionista.

È certo che la funzione del professionista è, tra le altre, quella di prestare la propria opera in settori che, richiedendo particolari competenze, necessitano della guida di uno specialista della materia, ma ciò non toglie che gli effetti della condotta di quest'ultimo si riverberano sempre e comunque in capo al cliente, andando ad incidere in modo consistente su interessi patrimoniali e non patrimoniali dello stesso, fondando perciò l'obbligo, in capo al professionista, di informare correttamente il creditore-cliente dei vantaggi e dei rischi che la metodologia d'azione scelta comporta, con sufficiente probabilità.

Così l'Avvocato che decida per l'una o l'altra strategia difensiva, dovrebbe illustrare al cliente l'opportunità della scelta e metterlo in guardia rispetto ai possibili rischi che tale condotta potrebbe comportare, non rimanendo del tutto esente da responsabilità a fronte di una scelta rischiosa che, distaccandosi notevolmente dalla comune pratica forense, provocasse danni ai quali il legale stesso non avesse fatto preventivamente cenno alcuno al proprio cliente.

Per venire alla figura professionale d'interesse in questa breve trattazione, ritengo che a maggior ragione, trattandosi di prestazione professionale che coinvolge direttamente da un lato beni della vita di rilevanza primaria, se non il bene della vita stesso, dall'altro materie di pressoché assoluta ignoranza da parte del paziente, il dovere di informare in modo completo quest'ultimo, emerga con forza e intensità del tutto peculiari.

Ciò non significa che non vi siano alcune prestazioni mediche che, per la loro ordinarietà, possano ritenersi conosciute dalla maggioranza dei possibili pazienti, per essere entrate a far parte della comune esperienza di ciascuno: mi riferisco, a titolo d'esempio, al prelievo di sangue, all'applicazione di un gesso, ad un'iniezione antitetanica. Che tali prestazioni comportino, ora l'iniezione con relativa minima ferita al braccio, ora l'immobilizzazione della parte ingessata, è caratteristica che può ritenersi, a ragione, conosciuta o conoscibile con la dovuta ordinaria diligenza da parte di ciascuno, salvo che non vi siano elementi per sostenere che il professionista avrebbe dovuto avvedersi dell'assoluta mancanza di consapevolezza, da parte del paziente che assisteva, delle più elementari nozioni medico-sanitarie e pertanto preoccuparsi di integrarne la conoscenza.

In ogni altro caso non riferibile a tale minima categoria di presunta conoscenza, il dovere d'informazione assume un rilievo fondamentale, in una duplice direzione: da una parte, infatti, la corretta informazione costituisce il presupposto per la valida prestazione del consenso al trattamento medico, dall'altra, assume i contorni di un dovere autonomo rispetto alla stessa colpa professionale, potendone addirittura prescindere. Tale secondo aspetto sarà trattato nel successivo paragrafo.

Riprendendo le osservazioni pertinenti al primo dei due temi di rilievo, occorre rilevare che il professionista, prima di acquisire il consenso[2], si deve preoccupare di illustrare[3] compiutamente al paziente la situazione che ha di fronte, le possibilità d'intervenire, i probabili effetti benefici che ne dovrebbero conseguire, nonché i rischi che potrebbero derivarne; deve dunque mettere il paziente nelle condizioni di effettuare, nel limite delle proprie possibilità, una valutazione, quanto più cosciente e completa, dei costi e dei benefici, e prestare di conseguenza il consenso all'effettuazione delle operazioni che la scelta comporta.

I riferimenti normativi, anzitutto di rango costituzionale, sono chiaramente illustrati nel brano di sentenza[4] che riporto di seguito:



[…] tale informazione e' condizione indispensabile per la validita' del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma 2 della Costituzione [5], a norma del quale nessuno puo' essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost. [6], che garantisce l'inviolabilita' della liberta' personale con riferimento anche alla liberta' di salvaguardia della propria salute e della propria integrita' fisica, e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilita' di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volonta' del paziente se questo e' in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessita' (art. 54 cod. pen.).



Affermati tali imprescindibili riferimenti normativi, gli ulteriori percorsi interpretativi volti ad inquadrare la violazione del dovere d'informare, secondo i principi desumibili dal codice civile, non mancano di stimolare ulteriormente la riflessione.

Infatti l'accordo tra medico e paziente, presupponendo[7] una corretta informazione[8], perde altrimenti ogni significato per un vizio del consenso, conseguendone l'annullabilità ex artt. 1427 e segg. cod. civ[9].

Il vizio che inerisca al consenso informato è altresì, secondo una tesi peraltro non condivisa da molti, motivo di responsabilità precontrattuale[10], ai sensi dell'art. 1337 cod. civ.[11], sul presupposto della violazione del comportamento in Qbuona fedef del professionista. Tuttavia sembra preferibile muovere, nei confronti di quest'ultima ipotesi, una critica. Il rilevo che il difetto d'informazione ha nel contratto d'opera, sembra infatti non tanto da relegarsi alla responsabilità precontrattuale, da individuarsi nella fase delle trattative, peraltro già superata: il dovere d'informazione rileva piuttosto come oggetto della stessa prestazione contrattualmente dovuta.[12]

E ancora, l'eventuale conoscenza della difettosità d'informazione al paziente, ai sensi dell'art. 1338 cod. civ.[13], integrando gli estremi della previsione contenuta nella norma, pone in capo al sanitario il conseguente dovere di risarcire il danno subito dal paziente, qualora non abbia dato notizia a quest'ultimo della consapevolezza acquisita in merito al vizio dell'informazione dovuta.

Soprattutto preme di sottolineare che il consenso informato è manifestazione del diritto di autodeterminazione, tutelato da norme di rango costituzionale, come in precedenza detto, e non è più condizionato dagli angusti confini descritti dall'art. 5 cod. civ., entro i quali una superata dottrina tentava di racchiudere la legittimazione dell'attività medica.

Il codice deontologico del 1995, all'art. 31[14], descrive il consenso come fondamento di legittimazione dell'atto medico[15], in ossequio ai menzionati principi costituzionali di cui agli artt. 13 e 32, sull'importanza dei quali lo stesso Consiglio Nazionale di Bioetica[16] nel documento “Informazione e consenso all’atto medico”, osserva che:



"dal disposto degli artt. 13 e 39 della Costituzione discende che al centro dell’attività medico-chirurgica si colloca il principio del consenso, il quale esprime una scelta di valore nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente, nel senso che detto rapporto appare fondato prima sui diritti del paziente che sui doveri del medico. Sicché sono da ritenere illegittimi i trattamenti sanitari extra-consensuali, non sussistendo un “dovere di curarsi” se non nei definiti limiti di cui all’art. 32 cpv. 2 Cost. E’ da precisare tuttavia che pure il principio del consenso incontra dei limiti, giacché nonostante il consenso, l’intervento risulta illecito quando supera i limiti della salvaguardia della vita, della salute, dell’integrità fisica, nonché della dignità umana".



Affinché il consenso sia legittimamente prestato deve essere reso personalmente, contenendo precisi riferimenti al caso di specie, così da non far incorrere chi lo presta in errori di valutazione, nonché essere consapevole. I prossimi congiunti non possono pertanto prestare il consenso in luogo dell'interessato, dovendosi ritenere che, in mancanza della sussistenza di un pericolo di gravi danni per il paziente, sia da mantenere fermo il principio della prestazione personale: dovrà così attendersi che quest'ultimo riacquisti la capacità per prestarlo validamente.

Al contrario, ove si verificassero le condizioni di pericolo di gravi danni, il medico dovrà intervenire indipendentemente da quanto affermino i congiunti.

Se si tratta di minore o di interdetto, il consenso dovrà essere prestato dal legale rappresentante[17]. Sussistendo opposizione al trattamento, nonché contestualmente motivi di urgenza per la salute del paziente, al medico non rimarrebbe altra via che adire il giudice tutelare il quale avrà la possibilità di dichiarare la temporanea decadenza della potestà ex artt. 330 e 333 cod. civ.

Il consenso inoltre dovrebbe essere sempre scritto, non in quanto la formulazione orale[18] sia incompatibile con i principi su esposti, ma poiché in tal modo il sanitario sarebbe in grado di dimostrare agevolmente la sussistenza del consenso stesso; ne discende l'opportunità e della sua formulazione scritta e del suo sistematico inserimento nella cartella clinica[19]. Ad una mera prestazione orale osta anche un'ulteriore circostanza relativa alla maggior semplicità dell'apprendimento, da parte del paziente, delle numerose informazioni contenute nel modulo di consenso, meritando queste, ove possibile, una meditazione attenta.

Spesso, peraltro, il paziente viene invitato a fornire il proprio consenso firmando moduli prestampati che non possono soddisfare di volta in volta le specifiche esigenze del caso, e che spesso, data la loro incompletezza, non contengono, come al contrario sarebbe auspicabile, i precisi riferimenti al tipo d'informazione e alle caratteristiche dell'intervento, ovvero riportano formule liberatorie di responsabilità nei confronti dell'ente ospedaliero prive di fondamento giuridico e per questo foriere di inutili incomprensioni.

Venendo ora ad alcuni aspetti caratterizzanti particolari profili di -assunta- diversa intensità dell'informazione da fornire, e rinviando per un'analisi più dettagliata al paragrafo relativo al caso del chirurgo estetico[20], vi è ancora da affrontare la necessità o meno di un'informazione che sia direttamente proporzionale -quanto alla sua profondità- all'entità del rischio[21] esistente. Al fine di evitare ulteriori differenziazioni, giova ribadire l'importanza di un'informazione piena e consapevole in ogni caso, a prescindere dall'adesione a criteri di quantificazione che risulterebbero, comunque, di difficile e dubbia applicabilità, con la conseguenza di incrementare le perplessità degli operatori sanitari e dei pazienti interessati.

Piuttosto la giurisprudenza più recente[22] ha sottolineato la necessità che Qnegli interventi chirurgici in varie fasi, che assumano una propria autonomia gestionale e diano luogo a scelte operative diversificate, ognuna delle quali presenta rischi diversi, l'obbligo di informazione del sanitario si estende alle singole fasi ed ai rispettivi rischif. Tale principio, di rilevante applicabilità nel contesto odierno, rappresentato prevalentemente dal lavoro d'équipe, assume notevole importanza ai fini del nostro discorso provocando, da un punto di vista meramente pratico, alcuni problemi organizzativi e burocratici, peraltro superabili, ai sanitari. Infatti, vinte le prime diffidenze in merito alla corretta pratica informativa al paziente, sarà opportuno operare in modo da ottenere il consenso scritto relativamente ad ogni singola fase: quindi, a mero titolo esemplificativo, dovendo il paziente sottoporsi ad un intervento di meniscectomia mediale, nel corso delle visite che precedono tale tipo d'intervento -per lo più realizzato oggi nelle forme agili del day hospital- quale quella presso l'anestesista, o lo specialista ortopedico, il paziente ha diritto di essere adeguatamente informato circa le caratteristiche dei singoli interventi, i rischi che si possono prevedere, infine le scelte che i diversi specialisti intendono operare. Sulla scorta dell'adeguata informazione presterà poi i consensi necessari al fine di procedere all'intervento.

Non risulterebbe altrimenti accettabile, mi sia consentito, comprendere come un paziente debba essere informato solo relativamente all'intervento specifico -in tale caso la meniscectomia-, senza ricevere adeguata informazione sulle scelte che l'anestesista intende operare, non essendo queste ultime certo meno importanti di quelle del chirurgo o dello specialista in ortopedia.

Riprendendo i termini dell'esempio, la scelta dell'anestesista, per tale tipo di interventi routinari, è normalmente quella della rinuncia alla c.d. anestesia totale per molte ragioni, che non è detto però siano assorbenti. E mi spiego. L'anestesia in linguaggio comune detta <> che non comporta, come è noto, la perdita di coscienza del paziente, risulta certo più comoda e veloce, potendo però nascondere anche insidie, ove non praticata correttamente, di notevole entità e comunque interessare valutazioni dello specialista, anche di segno opposto, quando sia messo a conoscenza di eventuali pregresse vicende negative subite dal paziente per tale tipo di intervento.

Riemerge in tale contesto, con una certa forza, l'importanza già accennata dell'anamnesi, attraverso la quale ottenere dal paziente notizie sulla sua pregressa storia clinica e operare di conseguenza.

Venendo ora agli aspetti organizzativi di tale modalità d'informazione, non sarebbe forse inutile soffermarsi sulla necessità di organizzare, come avviene nei presidi ospedalieri più attrezzati, visite separate nel corso delle quali ciascuno specialista, sotto la propria responsabilità, illustrerà al paziente il quadro clinico, chiedendo di volta in volta il consenso specifico alla terapia e/o modalità d'intervento appena illustrata. Dovrebbero in tal modo ottenersi, alla fine del ciclo di visite, una serie di moduli personalizzati e specifici di consenso informato che dovranno ovviamente confluire nella cartella clinica del paziente, completando la documentazione in essa contenuta.



Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw




Note:
[1] Si vedano come riferimento le note di A. PALMIERI, Relazione medico paziente tra consenso globale e responsabilità del professionista, in Foro it., I, 777 e segg., in rif. a Cass., sez. III civ., sen. 15 gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. Usl 12.

[2] Cfr. anche la sen. della Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014, Sforza c. Milesi Olgiati, in Foro it., 1995, I, 2913 nota (SCODITTI), e in Nuova giur. civ. commen., 1995, I, 937 nota (FERRANDO).

[3] Cfr. l'art. 29 cod. deontol.: <
Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta.

Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico, possono essere circoscritte a quegli elementi che la cultura e la condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici.

Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza.

La volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti della potestà, della dignità e della libertà professionale.

Spetta ai responsabili delle strutture di ricovero o ambulatoriali, stabilire le modalità organizzative per assicurare la corretta informazione dei pazienti in accordo e collaborazione con il medico curante.>>

[4] Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014, Sforza c. Milesi Olgiati, in Giust. civ. Mass., 1994, fasc. 11.

[5] Art. 32 Cost. - La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

[6] Art. 13 Cost. - La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.

È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

[7] M. BILANCETTI, La responsabilità del chirurgo estetico, in Giur. it., 1997, 2, IV, 354 e segg.

[8] Cfr. le indicazioni del Comitato Nazionale di Bioetica secondo cui l’informazione deve essere:

a) adatta al singolo paziente, in relazione alla sua cultura e alla sua capacita di comprensione da un lato e al suo stato psichico dall’altro;

b) corretta e completa circa la diagnosi, le terapie, il rischio, la prognosi. Nella sua articolazione detta norma sinteticamente ed efficacemente offre al medico le chiavi per l’individuazione della linea di comportamento più idonea al caso specifico.

[9] Art. 1427. - Errore, violenza e dolo

Il contraente, il cui consenso fu dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo, può chiedere l'annullamento del contratto secondo le disposizioni seguenti.

[10] Cfr. Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014: Nel contratto di prestazione d'opera intellettuale tra il chirurgo ed il paziente, il professionista anche quando l'oggetto della sua prestazione sia solo di mezzi, e non di risultato, ha il dovere di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilita' e probabilita' dei risultati conseguibili, sia perche' violerebbe, in mancanza, il dovere di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto (art. 1337 c.c.) sia perche' tale informazione e' condizione indispensabile per la validita' del consenso, che deve essere consapevole, al trattamento terapeutico e chirurgico, senza del quale l'intervento sarebbe impedito al chirurgo tanto dall'art. 32 comma 2 della Costituzione, a norma del quale nessuno puo' essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, quanto dall'art. 13 cost., che garantisce l'inviolabilita' della liberta' personale con riferimento anche alla liberta' di salvaguardia della propria salute e della propria integrita' fisica, e dall'art. 33 della l. 23 dicembre 1978 n. 833, che esclude la possibilita' di accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volonta' del paziente se questo e' in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessita' (art. 54 c.p.). Sforza c. Milesi Olgiati, in Giust. civ. Mass., 1994, fasc. 11.

[11] Art. 1337. - Trattative e responsabilità precontrattuale

Le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede.

[12] Cfr. sul punto V. CARBONE, L'informazione sulle possibili anestesie e sui relativi rischi, in Danno e resp., 2, 1997, 183; A. SPIRITO, Responsabilità professionale ed obbligo d'informazione, in Danno e resp., 1, 1996, 24.

[13] Art. 1338.- Conoscenza delle cause d'invalidità.

La parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa d'invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto.

[14] Art. 31 cod. deontol.: Il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato.

Il consenso, in forma scritta nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è integrativo e non sostitutivo del consenso informato di cui all’art. 29.

Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l'incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso.

In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente, ove non ricorrano le condizioni di cui al successivo articolo 33.

[15] Cfr. FNOMCeO, op. cit., sub art. 31 cod. deontol.

[16] Ibidem, sub art. 31 cod. deontol.

[17] Cfr. art. 32 cod. deontol. nell'appendice di documentazione.

[18] Cfr. a proposito le conseguenze ricollegabili alla valutazione di inattendibilità delle prove testimoniali presentate a prova dell'avvenuta prestazione del consenso orale, Corte appello Genova, 5 aprile 1995: In ipotesi di indagine radiologica invasiva (nella specie: angiografia carotidea con liquido di contrasto), eseguita in assenza di consenso del paziente e senza un'adeguata informazione sui rischi statisticamente prevedibili ad essa connessi, la struttura sanitaria, dove si e' svolto tale esame, e' responsabile dei danni conseguenti al decesso del paziente, anche se nell'operato dei sanitari non siano ravvisabili imperizia, imprudenza o negligenza. Il direttore della clinica universitaria, dove e' stato eseguito in regime di ricovero l'esame radiologico senza il consenso del paziente, non e' civilmente responsabile dei danni subiti dagli stretti congiunti in conseguenza del decesso del congiunto, non essendo ravvisabile nel suo operato una colpa ne' "in eligendo" ne' "in vigilando". Univ. studi Genova c. Siciliano e altro, in Danno e resp., 1996, 215 nota (DE MATTEIS).

[19] Cfr. G. U. RONCHI, Il consenso all'operazione deve essere esplicito e non filtrato dalla mediazione dei familiari, in Guida al diritto, Il sole 24 Ore, 5, 8 febbraio 1997, 67 e segg.

[20] Vedi infra le osservazioni al paragrafo n. 26 relativo alla responsabilità del chirurgo estetico.

[21] Cfr. A. PALMIERI, op. cit., in Foro it., I, 777 e segg., in rif. a Cass., sez. III civ., sen. 15 gennaio 1997, n. 364, Scarpetta c. Usl n. 12.

[22] Ibidem, pag. 771



Pagina: 12 - Responsabilità professionale e dovere d'informazione

Si diceva poc'anzi della rilevanza autonoma del dovere d'informazione sussistente in capo al sanitario, quale aspetto ulteriore da analizzare in questa sede. Ebbene, l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di dovere d'informazione, nell'ottica del più ampio problema di tutela del "consumatore-cliente", in quanto parte più debole[1], assume nel nostro caso riflessi di assoluta emergenza, anche in considerazione della loro recente manifestazione. Del tutto confacente alla presente disamina risulta l'analisi di alcuni casi interessanti, in special modo in ordine al rilievo del dovere d'informazione. Uno di essi è certamente quello del piccolo Jod[2], caso discusso in primo grado presso il Tribunale di Padova[3], e giunto in Cassazione[4], dopo la conferma in appello, nel 1994. Invero, all'attenzione dei giudici, nel caso di specie, non è l'indiligente esecuzione dell'intervento di interruzione della gravidanza, bensì l'omessa informazione che il sanitario avrebbe dovuto garantire alla paziente, in merito alla necessità di sottoporsi a successivi controlli, soprattutto in considerazione della prevedibilità dell'esito negativo dell'intervento subito, e dalle intervenute dimissioni volontarie della paziente stessa. Ebbene, la Corte di Cassazione ha sanzionato il comportamento del sanitario -rectius della struttura sanitaria- proprio in punto di violazione del dovere d'informazione, a riprova della sua autonoma rilevanza, non solo in quanto presupposto ineliminabile per la prestazione del consenso da parte del paziente, ma anche come dovere che trova la sua origine nella condotta diligente del sanitario. Se ne può apprezzare altresì la necessaria consistenza nel tempo: il dovere d'informare il paziente non cessa né dopo la prestazione del consenso -detto per l'appunto informato né dopo le dimissioni volontarie che eventualmente il paziente stesso renda. Ma l'occasione è stata propizia anche per consentire alla Corte di Cassazione di criticare le prese di posizione dei giudici di merito in punto di individuazione degli interessi protetti dalla legge 194/1978 sull'interruzione di gravidanza; in considerazione dei profili d'interesse che tale pronuncia rappresenta ai fini del prosieguo della disamina in corso, ritengo opportuno riprenderne alcuni passaggi. La Suprema Corte ha nell'occasione sottolineato come non sia ammissibile concedere un risarcimento del danno patrimoniale subito dai genitori, per l'inaspettata nascita del figlio, sulla base dell'assunta difficile condizione economica degli stessi. Invero, la Corte di Cassazione ha ricordato che in sostanza la legge non consente l'interruzione della gravidanza solo perche' una donna versi in disagiate condizioni economiche, ma la consente soltanto se dette condizioni possano influire negativamente sulla salute della donna. L'interesse protetto dalla norma e' quindi la salute della donna; il diritto all'interruzione della gravidanza e' riconosciuto solo in ragione della tutela del detto interesse. Da cio' consegue che in caso di accertata responsabilita' del sanitario per la mancata interruzione della gravidanza, il diritto al risarcimento del danno puo' essere riconosciuto alla donna non per il solo fatto dell'inadempimento dell'obbligazione che il sanitario era tenuto ad adempiere, ma se sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo o di un danno effettivo alla salute fisica o psichica della madre. Secondo i giudici della Suprema Corte il mancato riconoscimento dell'importanza di una corretta individuazione dell'interesse protetto dalla norma, ha compromesso l'obiettiva analisi da parte dei giudici di merito. Coerentemente quindi afferma la Corte di Cassazione che: il ragionamento della Corte di merito e' errato, perche', tenuto conto dell'interesse protetto dall'art. 4, il danno non puo' essere individuato nel solo fatto di aver dovuto prima del previsto sopportare gli oneri economici conseguenti alla intempestiva nascita del figlio, se non sia positivamente accertato che tale fatto abbia messo in pericolo ovvero abbia inciso negativamente sulla salute della donna, sotto l'aspetto fisico o psichico, nel qual caso il risarcimento del danno andrebbe determinato in quella somma necessaria a rimuovere le difficolta' economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna ovvero a risarcire quest'ultima dei danni alla salute in concreto subiti. Proseguendo nella disamina dei casi d'interesse per il corretto inquadramento della materia, mi propongo di analizzare un aspetto forse in parte trascurato. Se invero è stato a sufficienza sottolineato il ruolo dell'informazione e del consenso relativo, come elemento costitutivo del contratto di prestazione d'opera professionale, dal quale scaturisce il consenso come legittimante l'intervento del sanitario sulla persona del paziente, non si è forse argomentato a sufficienza in merito al perdurare del dovere d'informazione anche dopo l'effettuazione della terapia illustrata e dell'indagine diagnostica condotta. Un altro caso specifico, ancora inedito, può certo meglio descrivere l'autonoma rilevanza del dovere d'informazione: una donna, portatrice sana di una patologia a rischio per la gravidanza[5], rimasta incinta della seconda figlia, si reca presso il proprio ginecologo, al quale affida anche l'assistenza di tale seconda gravidanza. Su consiglio dello stesso medico, la paziente si reca presso altro presidio ospedaliero, al fine di effettuare un esame molto delicato -prelievo dei villi coriali- necessario a stabilire se anche il frutto del secondo concepimento fosse portatore della patologia di origine materna. L'esame comporta delle conseguenze devastanti sulla salute del feto, rilevate, tramite indagini ecografiche, solo intempestivamente -e colpevolmente- quando i termini per l'eventuale interruzione della gravidanza sono ormai decorsi. A questo punto il medico non ritiene di informarne i genitori, supponendo che simili anomalie fossero correlate a malformazioni degli organi interni tali da originare l’interruzione naturale della gravidanza o da non consentire la sopravvivenza dopo il parto del nascituro. Al termine della gravidanza la paziente, con parto spontaneo, da alla luce una bambina, la quale risulta affetta da un quadro polimalformativo[6] particolarmente grave. Fin qui i fatti. Cercherò ora di trarne alcune osservazioni. Se l'informazione e il consenso completo e cosciente del paziente all'indagine diagnostica ne legittimano l'effettuazione, integrando gli estremi della condotta diligente del professionista, quid iuris relativamente alla mancata indicazione al paziente degli esiti infausti dell'indagine diagnostica intrapresa ? Il tema è delicato e risente di valutazioni non solo tecniche e professionali ma anche e soprattutto umane e culturali, tanto più quando l'informazione investa prognosi gravi o infauste. Tra i fautori della tesi che esprime il proprio favor nei confronti della non manifestazione della verità in tutta la sua crudezza, si segnalano alcuni principi quali quello della beneficialità che, prevalendo sul dovere di non mentire, fonderebbe la propria validità sull'esigenza di non recare danno al paziente anche dal punto di vista psichico, e ancora quello dell'indesiderabilità del paziente di conoscere la verità quando spiacevole.
A tali argomentazioni si oppongono altre valutazioni che prospettano, al contrario, una violazione della libertà ed autonomia del paziente, e la presunta volontà dello stesso di essere correttamente informato. Invero, il rapporto fiduciario che con il medico si instaura, presuppone un rapporto di reciproca informazione e lealtà, sulla base del quale si concreta l'affidamento del paziente nel medico stesso. Interrompere tale tipo di rapporto, delicatissimo e labile, consentendo una sorta di compressione di tali principi, in nome di valutazioni del tutto personali e non verificabili, potrebbe essere una scelta altrettanto ardua e non esente da pericoli, da relegare forse ad un limitato numero di casi, non definibili a priori, nei quali l'emersione di particolari debolezze psichiche unitamente a quadri clinici disperati, possano suggerire comportamenti di segno relativamente opposto rispetto al dovere ordinario d'informazione completa. Che il medico debba tenere sempre viva la speranza del paziente, giacché è comunque di fondamentale importanza, anche al cospetto di una prognosi infausta, che il suo quadro psicologico sia capace di sostenere scelte e produrre reazioni importanti di fronte alla malattia, è dato di fatto ineliminabile, anche nella prospettiva che la prognosi infausta possa rivelarsi eccessivamente pessimistica. In tali casi la comunicazione, per così dire filtrata e non del tutto "fedele", potrebbe risultare accettabile se funzionale ad un possibile risultato positivo e migliorativo, per quanto in via di presunzione, del quadro complessivo del paziente. Non sussistendo al contrario tali presupposti risulta più complesso rinvenire una causa giustificativa capace di poter derogare validamente al dovere di una completa informazione. La complessità del tema potrebbe ulteriormente aggravarsi in ipotesi, come quella di cui si discute, nelle quali il destinatario dell'informazione sia persona diversa da quella che di fatto è investita in concreto dalla prognosi infausta: mi riferisco al caso -per ultimo descritto- della donna in gravidanza, alla quale venga diagnostica, ma non comunicata, la presenza di malformazioni del feto. In tal caso il profilarsi dei doveri d'informazione in capo al medico potrebbe risentire di alcune considerazioni aggiuntive, quanto alla determinazione del suo contenuto. Il dato di fatto dal quale è impossibile prescindere consiste, come è chiaro, nella circostanza che il destinatario della diagnosi infausta è la madre, pur essendo pronosticate o già evidenti delle malformazioni che interessano il feto. Che il destinatario dell'informazione debba essere la madre non è in discussione, che l'induzione alla speranza possa avere l'identica valenza funzionalizzata ad un potenziale -per quanto remoto- miglioramento delle condizioni del malato -il feto- è considerazione da valutarsi, invero, con molta attenzione. Il quesito che sembra sottendere tali valutazioni è il seguente: può sostenersi che la comunicazione alla madre della diagnosi infausta ed intempestiva, per decorrenza dei termini previsti per l'interruzione di gravidanza, integri gli estremi di un comportamento diligente del sanitario ? L'applicazione del succitato principio di beneficialità avrebbe fondamento quanto alla sua funzione di preservare in qualche modo l'integrità psicofisica della madre e/o del feto ? Oppure dovrebbero comunque ritenersi prevalenti i doveri d'informazione posti in capo al medico che ha eseguito l'esame e rilevato, seppur intempestivamente, la malformazione esistente ? Le osservazioni di carattere deontologico appena accennate, aprono il varco per l'accesso a quelle più propriamente giuridiche. Che la diagnosi intempestiva integri di per sé gli estremi della colpa professionale -accertata nell'esempio poc'anzi illustrato- è profilo da valutarsi separatamente a quello altrettanto importante dell'omessa comunicazione tardiva. La scelta che si profila al medico è dunque se comunicare alla madre l'intempestiva diagnosi infausta, ovvero se evitarle lo shock, al fine di consentirle di portare innanzi una gravidanza senza che il turbamento psicologico possa in qualche modo influire negativamente sugli esiti della gravidanza stessa. La scelta è di non poca gravità, umana, professionale, morale. Altrettanto ardua è la valutazione che di tale comportamento è opportuno operare al fine di verificare la condotta del sanitario in punto di responsabilità. Possono venire in soccorso le valutazioni ricavabili dalla pregressa storia clinica e psicologica della madre, dalle sue concrete aspettative alle prevedibili complicazioni che potevano essere tenute in debita considerazione dal medico e comunicatele fin dall'inizio. Ove però risulti già obiettivamente noto un quadro clinico di rilevante pericolo, essendo la madre affetta da una patologia che comporti rischi per la gravidanza in corso, ne consegue in capo al medico un dovere di diligente informazione preventiva, in merito ai pericoli che tale quadro clinico poteva suggerire, commisurata allo stato delle conoscenze mediche di tempo e di luogo. L'errore diagnostico, indipendentemente dalla sua inescusabilità, aggrava il quadro da valutare, inserendo un ulteriore motivo di debolezza da parte della destinataria dell'informazione, unitamente al prodursi di una situazione di impossibilità di intervenire sulla gravidanza in atto, per decorrenza dei termini utili per l'eventuale interruzione della stessa. A tutto ciò si aggiunge la valutazione circa la gravità della malformazione rilevata, in rapporto all'impatto che sulla madre la notizia può avere. Il comportamento del medico, in punto di violazione del suo dovere d'informazione, deve essere valutato tenendo in considerazione tutti questi elementi concreti che hanno arricchito di profili di intensa emotività e conflittualità l'intera vicenda. In che misura possa soccorrere la scelta del medico il principio di beneficialità e di tutela dell'integrità psicofisica della madre è fattore da valutarsi con estremo rigore, in considerazione anche della responsabilità del medico che ha causato l'aggravarsi del quadro con l'intempestiva diagnosi. Tale particolare ritengo non possa essere sottovalutato. Il punto è se potevano ritenersi prevalenti le esigenze di tutela del normale esito del parto, al cospetto della successiva notizia, che pur si sarebbe appalesata al momento della nascita della piccola malformata, provocando anche in quella sede delle ripercussioni violentissime sulla psiche della madre che, oltre al dolore per la constatazione delle condizioni fisiche della neonata, avrebbe dovuto fare i conti con una sensazione di tradimento delle aspettative e del rapporto di fiducia con il medico, non meno gravi.A sommesso avviso dello scrivente, una soluzione a tali deleterie conseguenze poteva esserci, ed era quella di informare la madre dell'intempestiva diagnosi di lesioni malformanti che interessavano purtroppo la piccola, impegnandosi semmai in quella sede a fornire l'informazione nel segno della salvaguardia dell'equilibrio psicofisico della madre, potendosi in tal modo valutare con benevolenza la mancata comunicazione della gravità delle malformazioni stesse nella loro completezza, e mettendo comunque la madre in condizione di assorbire, per quanto possibile, il probabile contraccolpo psicologico, con tutti gli strumenti di assistenza che la struttura ospedaliera poteva offrire su richiesta del medico interessato. Appare diversamente non del tutto accettabile che la scelta dell'entità e del tempo delle sofferenze, che immancabilmente la madre avrebbe subito, sia del tutto ed incondizionatamente lasciata alla decisione -del medico- di non informare la madre stessa dell'intempestiva nefasta diagnosi, impedendo di fatto a quest'ultima di esercitare, per quanto in condizioni assai limitate, la propria autonomia e libertà di conoscenza, e interrompendo la fiduciarietà del rapporto, tradendo in tal modo l'affidamento che la paziente aveva impegnato nel rapporto con il suo medico. In senso conforme sembra essersi pronunciata la giurisprudenza, in una sentenza del Tribunale di Roma[7], quando ha dovuto affrontare un caso simile a quello appena descritto: in questo caso però sussiste una differenza di rilievo consistente nella valutazione temporale dei comportamenti che si sono succeduti. I genitori, invero, si sono rivolti ad un Centro di diagnostica prenatale, dopo la decorrenza dei novanta giorni previsti dalla legge n. 194/1978, vale a dire allorquando la madre, quand'anche avesse appreso, a seguito di esami non negligenti, le notevolissime malformazioni del nascituro, non avrebbe, comunque, potuto legittimamente abortire, ne' ai sensi dell'art. 4 della legge n. 194 del 1978, ne' ai sensi dell'art. 6 della cit. legge, dato che le pur gravissime malformazioni, riguardando il solo apparato scheletrico ed articolare, senza intaccare la sfera della coscienza e delle facolta' intellettive del minore, rimasta del tutto integra, e senza comportare una prognosi infausta circa la durata di sua vita, non sono tali da determinare un grave pericolo per il benessere psicofisico della madre. E' invece risarcibile il danno biologico cagionato ai genitori di una neonata cui non siano state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari. A ragione pertanto i giudici hanno escluso la sussistenza del nesso di causalità tra il danno subito dal feto e la condotta dei sanitari, aprendo però una breccia consistente quanto ad altra domanda dei genitori, ossia quella relativa al risarcimento del danno, da loro patito, in ragione della mancata informazione sull'esistenza delle malformazioni.In questo senso appare simile la decisione in questione rispetto al caso analizzato in precedenza, nel quale in realtà la diagnosi intempestiva è stata seguita dalla presa di coscienza -altrettanto intempestiva- da parte del medico, delle malformazioni, sulle quali lo stesso sanitario ha scelto di tacere, mentre nel caso analizzato dal Tribunale di Roma non è in questione una scelta, in quanto sembra che i sanitari non abbiano potuto effettuarla, data la negligente condotta in sede di diagnosi. In altre parole non hanno comunicato ciò che non avevano appreso per la negligente effettuazione dell'indagine diagnostica. Ad ogni buon conto il rilievo che assume maggior importanza, e che accomuna, seppur parzialmente, i casi, è quello che attiene, da un lato alla richiesta del danno sofferto per non aver potuto accedere alle possibilità di interruzione della gravidanza, dall'altro quello attinente alla richiesta di risarcimento del danno patito per aver subito, al momento del parto, uno shock certamente superiore a quello che sarebbe derivato dalla consapevolezza delle malformazioni, ove fossero state comunicate tempestivamente. Le scelte del Tribunale di Roma sembrano condivisibili anche sotto tale profilo, trovandovi conferma l'ipotesi interpretativa dallo scrivente sommessamente avanzata in precedenza. I giudici affermano infatti che: E' invece risarcibile il danno biologico cagionato ai genitori di una neonata cui non siano state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari. Il mezzo attraverso il quale la rilevanza autonoma del dovere d'informare assume significato peculiare, sussiste proprio nel riconoscimento che i giudici danno al trauma che i genitori hanno subito per aver appreso, solo all'atto della nascita della piccola, la notizia della triste realtà, subendo in tal modo un contraccolpo psicologico certamente più grave di quanto non sarebbe accaduto qualora l'informazione fosse stata tempestiva. Ma la pronuncia appare importante anche perché fa trasparire un ulteriore profilo d'interesse, secondo quanto affermato, in sede di commento alla pronuncia, da Dogliotti[8], lasciando intendere che sarebbe stato risarcibile anche il danno relativo alle spese mediche e alla lesione della salute psichica dei genitori, ove gli esami fossero stati richiesti prima della decorrenza dei termini per l'interruzione consentita della gravidanza, concretandosi la possibilità di scelta -anche se solo eventuale- diretta all'interruzione della gravidanza stessa. Tuttavia a tale rilievo sembra opporsi altra argomentazione, tratta dal brano di sentenza più sopra riportato[9], e riferita al diniego di risarcimento delle maggiori spese sostenute dai genitori a causa della nascita di un figlio in seguito all'infelice esito dell'intervento di interruzione di gravidanza. Nelle pagine precedenti si è già illustrato il ragionamento della Suprema Corte, secondo la quale, in aperto contrasto con i giudici di merito, la corretta individuazione del bene tutelato dagli artt. 4 e 6 della L. 194/1978 è la salute della madre, non le condizioni economiche dei genitori. Pertanto il danno risarcibile sembra individuabile nella misura in cui vi sia stata una lesione della salute della madre. Quest'ulteriore osservazione consente di completare l'analisi che ho tentato di illustrare, in ordine al caso inedito che ho descritto, potendo affermare che se l'errore diagnostico si verifica in un periodo che consenta ancora l'intervento per interruzione della gravidanza, spetta alla madre, che ne faccia richiesta, un risarcimento del danno sia sotto il profilo patrimoniale -spese mediche e similari- sia sotto quello non patrimoniale, se provata, secondo quanto detto poc'anzi, una lesione alla salute della richiedente, spettando altresì ad entrambi i genitori un congruo risarcimento relativo al danno biologico da essi subito per aver appreso -ignari delle malformazioni esistenti- la realtà dolorosa della salute della figlia solo al momento della nascita, quando la loro attesa era del tutto inconsapevole e ben lontana dal prefigurarsi un accadimento sì penoso. Infine, rimanendo sul terreno dell'individuazione dell'esatta dimensione del dovere d'informazione, può essere utile sottolineare un aspetto al quale si è fatto incidentalmente accenno in queste pagine, in merito all'interrogativo che nasce dall'individuazione del persistere del dovere d'informazione del medico anche in presenza di dimissioni volontarie del paziente. Ebbene la soluzione accolta è nel senso della permanenza di tale dovere, tanto più nel caso in cui il paziente abbia deciso di dimettersi volontariamente, creando potenzialmente una situazione di maggior rischio, a fronte della quale la diligenza del professionista deve esprimere uno sforzo ulteriore, e del tutto coerente con le premesse fin qui illustrate, affinché la scelta del paziente possa essere, per quanto possibile, cosciente.

Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

Note:
[1] Si veda in proposito l'appendice sui profili assicurativi, in specie con riferimento all'impatto delle direttive sulla tutela del consumatore.

[2] Richiamato anche da A. SPIRITO, Op. cit., 28.

[3] Tribunale Padova 9 agosto 1985: L'insuccesso dell'intervento per interruzione della gravidanza, accompagnato dalla negligenza del medico nel prescrivere i controlli o nell'informare dell'esito la paziente, che lascia cosi' proseguire la gestazione, determina il diritto al risarcimento del danno derivante dai maggiori disagi affrontati per effetto della nascita avvenuta in un momento di difficolta', nonche' dagli ostacoli che i nuovi doveri verso il figlio abbiano portato alla realizzazione anche economica della coppia. - Nodari e altro c. Universita' studi Padova e altro, in Nuova giur. civ. commen., 1986, I,115 (nota).

[4] Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464: E' responsabile la struttura sanitaria per violazione del dovere di informativa del paziente circa le conseguenze dell'intervento ed i suoi possibili esiti, stante che il dovere di informativa rientra tra quelli del medico (ed a maggior ragione nel caso di interruzione volontaria della gravidanza ai sensi dell'art. 14 l. 22 maggio 1978 n. 194, essendo l'esito negativo dell'intervento un evento prevedibile, dimostrato dal fatto che per aversi la certezza dell'esito favorevole e' necessario procedere all'esame istologico). Tale dovere di informativa non viene meno per effetto della dimissione volontaria da parte del paziente. Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Riv. it. medicina legale, 1995, 1282; in Rass. dir. civ., 1996, 342 nota (CARUSI).

[5] Tale traslocazione di tipo robertsoniano 13/14 bilanciata familiare.

[6] Più precisamente trattasi di: quadro malformativo ad espressione eterogenea, noto in letteratura medica come sindrome oro-acrale o di Hanart, caratterizzato da ipoplasia oro-madibolare (micrognazia e microglossia, cioè riduzione dello sviluppo della mandibola e della lingua), da ipoplasia-aplassia degli arti (agenesia, cioè assenza, delle ultime tre vertebre sacrali e di entrambi gli avambracci; arresto di sviluppo ad altezza del ginocchio dell’arto inferiore sinistro; ipodattilia al piede destro), nonché da ulteriori malformazioni delle vie respiratorie e dell’apparato urinario […].

[7] Tribunale Roma, 13 dicembre 1994, Visona' e altro c. Soc. Artemisia e altro, in Dir. famiglia, 1995, 662 nota (CONTE); in Dir. famiglia, 1995, 1474 nota (DOGLIOTTI).

[8] Cfr. nota n. 119.

[9] Il riferimento è alla sentenza Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464, Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Riv. it. medicina legale, 1995, 1282; in Rass. dir. civ., 1996, 342 nota (CARUSI), sub nota n. 116.



Pagina: 13 - La colpa lieve e la colpa grave

Come già anticipato nel capitolo relativo all'inquadramento giuridico, la colpa lieve e la colpa grave rilevano soprattutto in riferimento all'applicabilità dell'art. 2236 cod. civ. alla responsabilità professionale del medico.I concetti qui in esame risultano pertanto intimamente connessi con quanto affermato in tema di diligenza professionale come criterio di responsabilità e con l'individuazione del c.d. standard di riferimento per la valutazione di adeguatezza e diligenza nella prestazione. Infatti, secondo un principio ormai consolidato anche nell'elaborazione giurisprudenziale[1], l'area della responsabilità per colpa lieve risulta ormai molto estesa, giacché la tendenza restrittiva, manifestatasi nei confronti dell'area di applicazione dell'art. 2236 cod. civ., è andata sempre più acuendosi, prima con l'esclusione dell'applicabilità ai casi d'imprudenza e incuria, poi con l'estendersi del patrimonio di conoscenze richieste al professionista medio. Infatti si configura la responsabilità professionale del medico anche per colpa lieve, in applicazione dell'art. 1176, II c. cod. civ., quando il professionista medesimo non abbia posto in essere una prestazione diligente per fronteggiare un caso ordinario, ossia quando si sia trovato a prestare la propria opera non per risolvere problemi tecnici di speciale difficoltà, ma dovendo esercitare la sua professione al cospetto di casi ordinari per affrontare i quali si ritiene necessario, nonché doveroso ed adeguato, il bagaglio tecnico del professionista medio appartenente al medesimo settore[2]. Peraltro, come già anticipato, la responsabilità del professionista sarà, per così dire, relegata alla colpa grave solo qualora il medesimo abbia dovuto affrontare, nell'esercizio della propria professione, problemi tecnici di speciale difficoltà e per imperizia abbia cagionato il danno. Non, si badi bene, per incuria o imprudenza, ritenendosi tali condotte degne delle valutazioni più severe e rigorose.A questo proposito risulta chiaro come non sarebbe apparso congruo ammettere una limitazione di responsabilità, proprio al cospetto di problemi tecnici di speciale difficoltà, in relazione a comportamenti, quali l'incuria e l'imprudenza, che tanto meno risultano tollerabili quanto più l'impegno diligente e l'attenzione del professionista debbono essere richiamati dall'emersione di un caso non ordinario. Concludendo, una valutazione più cauta della responsabilità in concomitanza con problemi di speciale difficoltà altro non è che un correttivo di agevole comprensione, che entra in gioco quando anche la più diligente delle prestazioni trova ostacoli di ordine tecnico tali da travalicare le conoscenze attinenti allo standard professionale di riferimento. E' la colpa lieve guardata attraverso l'opportuno filtro della ricorrenza dei problemi tecnici di speciale difficoltà[3]. A titolo esemplificativo è stata ritenuta sussistente la colpa grave[4] in capo ai sanitari, medici dipendenti di un ente ospedaliero, in quanto, nell'attività di assistenza al parto, hanno scelto una metodologia in presenza di dati obiettivi che ne imponevano l'esclusione; e ancora quando il medico curante, fattosi sostituire per un certo periodo da un altro medico, in assenza di tenuta di uno schedario degli assistiti, non abbia informato[5] il sostituto di una grave ed accertata intolleranza ad un determinato farmaco da parte di un paziente (nella specie il medico sostituto, non avvisato dell'intolleranza, prescrisse ad una paziente il farmaco "Voltaren" rispetto al quale la stessa aveva già dato segni di allergia e la cui assunzione ne provoco' la morte per "shock" anafilattico); infine quando l'odontoiatra[6], in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, abbia praticato un intervento chirurgico in sito diverso da quello su cui si sarebbe dovuto svolgere e senza tenere conto di un preesistente stato di invalidità del paziente.

Avv. Nicola Todeschini
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Note:
[1] Cass. civ. sez. III, 12 agosto 1995, n. 8845 La responsabilità del professionista per i danni causati nell'esercizio della sua attività postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento, tra i quali quello della diligenza che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell'attività e che in rapporto alla professione di medico-chirurgo implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale. Ne consegue che il professionista risponde anche per colpa lieve quando per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione provochi un danno nell'esecuzione di un intervento operatorio o di una terapia medica, mentre risponde solo se versa in colpa grave quante volte il caso affidatogli sia di particolare complessità o perche' non ancora sperimentato o studiato a sufficienza, o perche' non ancora dibattuto con riferimento ai metodi terapeutici da eseguire. Com. Montevarchi c. Usl n. 20/A Montevarchi, in Giust. civ. Mass., 1995, 1517.

[2] La S.C. ha ribadito il principio con riguardo all'omesso accertamento, da parte dei medici militari, delle conseguenze neurologiche - nella specie di carattere epilettico - patite da un soldato a seguito di trauma cranico per lo scoppio fortuito di una bomba e rivelatesi poi letali). Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 1988 n. 1847, Maggio c. Amministrazione difesa, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc. 2.

[3] Sul punto cfr. G. CATTANEO, op. cit., 79.

[4] Cass. civ. sez. I, 5 dicembre 1995, n. 12505, Com. Fermo c. Usl n. 21 Fermo e altro, in Foro it., 1996, I, 2494, nota (LENOCI); in Danno e resp., 1996, 195 nota (LAZARI).

[5] Corte appello Bologna, 14 dicembre 1993, Borelli, in Giur. merito, 1994, 677 nota (IADECOLA).

[6] Cass. civ. sez. III, 2 luglio 1991 n. 7262, Failoni c. Negri e altro, in Foro it. 1992, I, 803.



Pagina: 14 - Il nesso di causalità

L'individuazione in capo al sanitario di una responsabilità in ordine all'evento dannoso verificatosi è strettamente legata alla riconducibilità causale[1] dell'evento all'azione od omissione del sanitario.

Il tema fondamentale del nesso di causalità assume, anche e soprattutto in questa disamina, un ruolo del tutto peculiare, stante l'implicazione con altri temi qui appena accennati, quale il problematico rapporto tra medici legali o comunque specialisti che operano anche come consulenti di parte o d'ufficio da un lato e gli altri operatori sanitari dall'altro.

Ai fini della corretta determinazione del rapporto di causalità, trovano applicazione, anche in sede civilistica, i principi espressi nelle norme penali di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., in conformità con quanto affermato dalla giurisprudenza della Cassazione[2].

Il nodo che il disposto normativo lascia irrisolto, e sul quale dottrina e giurisprudenza hanno prodotto gli sforzi interpretativi più consistenti, è quello dell'esatta configurazione del rapporto tra evento dannoso e l'azione od omissione. Secondo la formulazione tradizionale della teoria[3] della condicio sine qua non sono causa dell'evento gli antecedenti senza il verificarsi dei quali l'evento non si sarebbe prodotto, individuati sulla scorta del processo della c.d. eliminazione mentale secondo il quale la condotta è condicio sine qua non dell'evento se non può essere mentalmente eliminata senza che l'evento stesso venga meno[4].

Pertanto sarà da analizzare, sotto il profilo etiologico, l'iter etiopatogenetico, riferendosi al modello della c.d. sussunzione sotto leggi scientifiche, secondo il quale l'antecedente storico assume rilievo, dal punto di vista della ricerca etiologica, quando può affermarsi, sulla scorta delle risultanza scientifiche, che entra a far parte del novero di quegli antecedenti che, secondo una successione regolare, omogenea e conforme ad una legge dotata di validità scientifica, determinano eventi del tipo di quello in concreto verificatosi.

Il rilevo che l'art. 1223 cod. civ.[5], relativo al risarcimento del danno da inadempimento -richiamato dall'art. 2056 cod. civ. e pertanto applicabile anche al risarcimento in materia di responsabilità aquiliana- limiti il risarcimento medesimo alla conseguenza immediata e diretta, non attiene, come osservato dal Barni[6], alla necessità di intravedere un criterio cronologico e di congruità, ma indica piuttosto i contorni del contenuto della responsabilità stessa. E di tale impostazione sembra essersi appropriata anche la Corte di Cassazione[7] quando ha affermato che ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il nesso di causalità tra fatto illecito ed evento dannoso può essere anche indiretto e mediato, essendo all'uopo sufficiente che il primo abbia posto in essere uno stato di cose senza il quale il secondo non si sarebbe prodotto e che il danno si trovi con tale antecedente necessario in un rapporto eziologico normale e non fuori dell'ordinario.

In conclusione il criterio della regolarità casuale fungerebbe da correttivo del criterio espresso dall'art. 1223 cod. civ., nel senso di ricomprendere nell'area dei danni risarcibili anche quelli che, pur essendo mediati e indiretti, rientrano tuttavia nella serie delle conseguenze normali ed ordinarie del fatto […][8].

Le connessioni con la configurazione del regime eventualmente diversificato dell'onere della prova saranno trattate nel paragrafo successivo.

Sotto il profilo medico-legale il nodo della questione, al quale ritengo opportuno accennare, è per dirla con un'espressione del Fiori[9], il problema della discendenza da un fattore causale di rilevanza giuridica. Se infatti l'iter patogenetico del danno, che è il percorso tra l'evento dannoso e la sua etiologia[10], in talune circostanze risulta palese e scientificamente certo, in altri casi si consegue solo agli esiti di uno studio, quello per l'appunto patogenetico, sui ritmi, tempi e modi di sviluppo.

Quindi il compito del medico legale, nella sua funzione di ausilio alla decisione del giudice, è quello di verificare la causalità materiale dal punto di vista etiopatogenetico, nonché la causalità giuridica sotto il profilo della responsabilità giuridicamente rilevante. Ma non potendosi conseguire di norma giudizi improntati alla certezza sull'iter patogenetico del danno, soccorreranno il medico legale e la successiva valutazione del giudice i criteri che discendono dall'applicazione del principio della probabilità statistica, al quale ha attinto copiosamente la stessa giurisprudenza[11].

Nell'ottica dell'adeguamento di tali metodologie alle nuove tecniche di elaborazione dei dati e di consultazione delle basi di dati, può risultare d'ausilio, alla formulazione di valutazioni probabilistiche, anche l'elaborazione che il calcolatore è in grado di offrire all'operatore che lo consulti, soprattutto, come in questo caso, quando ci si trovi a porre in essere giudizi che tanto più sono consapevoli quanto più possono, sotto questo profilo, essere il risultato della valutazione di una quantità di dati più consistente possibile. Il vero ostacolo, o meglio la vera professionalità dell'interprete di questi dati, così come elaborati dalla macchina, sta nella capacità di farne un uso che funga da ausilio all'applicazione di consapevoli criteri di valutazione, senza dimenticare che comunque l'elaborazione elettronica dei dati può tenere in considerazione solo le varianti che sono state inserite preventivamente, e che pertanto fornisce risultati di operazioni matematiche da valutarsi congruamente.

Il rischio che secondo alcuni autori[12] si cela dietro l'introduzione del criterio probabilistico nella valutazione del nesso di causalità, è quello di estremizzare la valutazione, confondendo la ricorrenza del dovere del medico d'intervenire per tentare di salvare il malato, con l'individuazione del nesso di causalità.

Si intende con ciò affermare che se da un lato il dovere del medico d'intervenire per salvare il malato sussiste anche quando le probabilità di guarigione sono minime, altra dovrebbe essere la valutazione in termini probabilistici ove si volgesse l'attenzione alla ricorribilità del nesso di causalità tra la condotta del medico e l'evento dannoso. La necessità di configurare e adeguare la teoria della condicio sine qua non, pur integrata dalle valutazioni in termini di probabilità, si pone sul piano anche dell'individuazione e valutazione -in senso negativo- di fattori eccezionali che turbino il processo di causalità che si dice adeguata, volendo in tal modo significare l'esigenza che non siano imputati all'azione od omissione del sanitario quegli eventi dannosi che non rientrano nel normale sviluppo etiopatogenetico, in quanto anormali e atipici ovvero eccezionali, giacché posti al di fuori del processo causale anzidetto.



Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw




Note:
[1] A. E S. BALDASSARRI, La responsabilità civile del professionista, Coll.: il diritto privato oggi, Milano, 1993, 653 e segg.

[2] Cass. civ. sez. III, 15 gennaio 1996, n. 268: Nel caso che l'evento dannoso si ricolleghi a piu' azioni o omissioni, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell'art. 41 c.p., secondo cui, in presenza di una pluralita' di fatti imputabili a piu' persone, a tutti deve riconoscersi un'efficacia causativa ove abbiano determinato una situazione tale che senza di essi l'evento, sebbene prodotto dal fatto avvenuto per ultimo, non si sarebbe verificato. Qualora, invece, la causa sopravvenuta sia stata da sola sufficiente a determinare l'evento, questa puo' assurgere a causa efficiente esclusiva, in quanto, inserendosi nella successione dei fatti, toglie ogni legame tra le cause remote e l'evento. (Nella specie, sei uomini spingevano, di notte, lungo il ciglio della strada, una betoniera; sopraggiungeva un motociclo che, benche' il trasporto fosse segnalato mediante una lampada bianca, andava a scontrare contro la betoniera; questa perdeva equilibrio e schiacciava uno degli uomini che la trasportava, causandone la morte. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha confermato la sentenza del merito, la quale aveva escluso che l'instabilita' propria della betoniera potesse costituire una causa sopravvenuta di per se' idonea a determinare l'evento e ad interrompere il nesso di causalita' con l'investimento ad opera del motociclista, attribuendo, pertanto la responsabilita' del fatto, per il 40%, a quest'ultimo e, per il 60%, alla vittima ed ai suoi compagni). Vianello c. Busetto e altro, in Giust. civ. Mass., 1996, 48; in Danno e resp.,1996, 521.

Cfr. anche Cass. civ. sez. III, 27 maggio 1995, n. 5923: In materia di responsabilita' aquiliana, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso e' riferibile a piu' azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento solo nel principio della causalita' efficiente, desumibile dal comma 2 dell'art. 41 dello stesso codice, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa azione risulti tale da rendere irrilevante le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale gia' in atto . Onesto e altro c. Min. difesa, in Giust. civ. Mass, 1995, 1093.

[3] M. BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, II ediz., Padova, 1996, 51 e segg.

[4] Ibidem, 52.

[5] Art. 1223. - Risarcimento del danno

Il risarcimento del danno per l'inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

[6] M. BARNI, Il rapporto di causalità materiale in medicina legale, Milano, 1991, 30 e segg.

[7] Si tratta della Cass. civ., sez. III, 11 gennaio 1989 n. 65, Fondi c. ENEL, in Giust. civ. Mass., 1989, fasc. 1.

[8] Cass. civ. , sez. lav., 19 luglio 1982, n. 4236, in Giust. civ., 1983, I, 523; Cass. civ., sez. III, 7 ottobre 1987 n. 7467, Violini c. D'Alberto, in Giust. civ. Mass., 1987, fasc.10.

[9] A. FIORI, Un discorso nel metodo, in Riv. It. Med. Leg., 7, 1985, 687 e segg., così come citato da M. BARNI, op. cit., 30 e segg.

[10] Ibidem, 33 e segg.

[11] Cfr. Cass. penale sez. IV, 17 gennaio 1992: In tema di responsabilità per colpa professionale del medico, nella ricerca del nesso di causalita' tra la condotta dell'agente e l'evento, al criterio della certezza degli effetti della condotta lesiva si puo' (e si deve, occorrendo) sostituire il criterio della probabilita', anche limitata, di tali effetti e della idoneita' della condotta a produrli; ne consegue che il rapporto di causalita' sussiste anche quando l'opera del sanitario, se correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto non gia' la certezza, bensi' soltanto serie ed apprezzabili possibilita' di successo, tali che la vita del paziente sarebbe stata, con una certa probabilita', salvata (nella specie, trattasi di omicidio colposo per tardiva diagnosi di infezione tetanica in donna sottoposta a taglio cesareo; i giudici di merito avevano ritenuto il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e l'evento letale, sussistendo la probabilita' del 30% che un corretto e tempestivo intervento terapeutico avrebbe avuto esito positivo). Silvestri e altro, in Dir. famiglia, 1992, 580 (nota); e in Nuova giur. civ. commen., 1992, I, 358 (nota).

E ancora: Cass. pen. sez. IV, 11 novembre 1994: In tema di colpa professionale, sussiste responsabilita' del medico che colposamente ometta un intervento chirurgico necessario, quando anche esso non sia tale da garantire in termini di certezza la sopravvivenza del paziente, se vi sia una limitata purche' apprezzabile probabilita' di successo, indipendentemente da una determinazione matematica percentuale di questa. Presta e altro, in Cass. pen., 1996, 1442 (s.m.);

Cass. civ. sez. III, 16 novembre 1993, n. 11287: Con riguardo alla sussistenza del nesso di causalita' fra lesione personale ed un intervento chirurgico, al fine dell'eventuale responsabilita' risarcitoria dell'autore di tale intervento, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalita' non puo' essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relativita', a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilita' scientifica. Dettori c. Pistoro, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc.11;

Cass. civ., sez. lav., 20 dicembre 1986 n. 7801: Per accertare se una condotta umana sia o meno causa, in senso giuridico, di un determinato evento, e' necessario stabilire un confronto tra le conseguenze che, secondo un giudizio di probabilita' "ex ante", essa era idonea a provocare e le conseguenze in realta' verificatesi, le quali, ove non prevedibili ed evitabili, escludono il rapporto eziologico tra il comportamento umano e l'evento, sicche', per la riconducibilita' dell'evento ad un determinato comportamento, non e' sufficiente che tra l'antecedente ed il dato conseguenziale sussista un rapporto di sequenza, occorrendo invece che tale rapporto integri gli estremi di sequenza costante, secondo un calcolo di regolarita' statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza normale dello antecedente […]. Balotta c. Federazione Italiana consorzi agrari, in Giust. civ. Mass., 1986, fasc. 12.

[12] M. BILANCETTI, op. cit., 59.



Pagina: 15 - L'onere della prova

L'onere della prova: una questione aperta

La disamina delle problematiche relative all'onere della prova, soprattutto con riferimento all'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale dei disposti legislativi, abbisogna di alcuni chiarimenti relativi ai lineamenti generali in tema di prova[1].

Il percorso storico del principio di base espresso nell'antico brocardo actori incumbit probatio e nell'altro ei incumbit probatio qui dicit non qui negat, si ritrova nella lettura dell'art. 2697 cod. civ., secondo il quale Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.

Orbene, l'interpretazione che qui s'accoglie[2] individua nell'articolo in esame due fondamentali funzioni: da un lato quella di ripartire l'onere della prova, dall'altro quella di consentire comunque al giudice di decidere, accogliendo o rigettando la domanda, sulla base del collegamento sistematico con l'art. 116 cod. proc. civ. che, affermando il principio del libero convincimento, completa il quadro. Di conseguenza il giudice non può limitarsi ad un mero non liquet ma decidere, applicando, se gli elementi offerti non consentono il raggiungimento della prova, la regola dell'art. 2697 cod. civ.

Giova inoltre ribadire che l'applicazione di quest'ultima trova un proprio spazio solo quando non esistono regole particolari sull'onere della prova, quale quella -che qui interessa- dell'art. 1218 cod. civ.[3]

A ben vedere, peraltro, la scelta terminologica[4] operata dal legislatore - mi riferisco al termine e soprattutto al concetto di onere - sembra non soddisfare pienamente; normalmente infatti il concetto di onere sottende il rapporto esistente tra l'esercizio di una determinata facoltà e il conseguimento di un interesse. Ebbene, se l'accezione accolta dal legislatore, nella formulazione dell'articolo in oggetto, fosse stata veramente quella tradizionale poc'anzi descritta, se ne dovrebbe dedurre che tutte le volte che la parte sulla quale grava l'onere della prova non vi provveda, dovrebbe derivarne l'impossibilità di conseguire l'interesse o il risultato al quale si tende. Ma non è così.

Infatti il giudice può decidere in senso favorevole anche se l'attore non fornisce la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, quando emergano prove, a quest'ultimo favorevoli, provenienti dalla controparte o da un terzo che sia intervenuto nel giudizio, talché dovrà decidere in senso sfavorevole a chi non ha dimostrato i fatti che costituiscono il fondamento della propria pretesa solo quando gli sia impossibile decidere tenendo in considerazione tutti gli elementi che siano stati acquisiti al processo.

Ne consegue che nella situazione esaminata ci si trovi al cospetto non tanto di un onere, nel senso sopra descritto, piuttosto di un aumento del rischio -non di un'automatica impossibilità di veder soddisfatta la propria pretesa- ricollegato al mancato soddisfacimento del comportamento prescritto dall'art. 2697 cod. civ.

Svolte queste brevi considerazioni preliminari, è possibile affrontare più specificamente le problematiche sottese alla prova della responsabilità in ambito sanitario, e all'elaborazione giurisprudenziale che ne ha caratterizzato il delinearsi.

In primo luogo, in dottrina, si discute sulla configurabilità di un autonomo obbligo di chiarimento che potrebbe sussistere in capo a coloro che non sono onerati ai sensi dell'art. 2697 cod. civ. Si può notare come tale aspetto controverso possa assumere peculiare rilievo proprio nel caso delle azioni di responsabilità professionale, laddove si realizza una fattispecie caratterizzata dalla circostanza che il paziente si trova quasi sempre sprovvisto della documentazione e dei mezzi di prova per far valere la propria pretesa. Quindi per i fautori della tesi che privilegia l'individuazione autonoma di un obbligo di chiarimento, quest'ultimo lo si dovrebbe rinvenire in capo ai sanitari, come accade in altri Paesi. Ad ogni buon conto la giurisprudenza italiana si è attestata su posizioni diverse, preferendo alleggerire la posizione del tutto peculiare del malato limitandone l'onere probatorio, e ponendo piuttosto in capo al sanitario l'onere di provare l'adeguatezza della propria prestazione professionale, prestando però il fianco ad una critica, ovverosia quella di aver trattato, quasi confondendoli, onere della prova e obbligo di chiarimento.

Conseguenza immediatamente apprezzabile è quella che si assiste così allo spostamento del rischio del mancato convincimento del giudice dall'onerato, ex art. 2697 cod. civ., all'altra parte, sulla quale sarebbe semmai gravato esclusivamente l'onere di chiarimento.

Ma il nostro ordinamento giuridico prevede anche altre regole riguardanti l'onere della prova, che comportano conseguenze differenti. Tra queste le c.d. presunzioni iuris tantum -che ammettono cioè la prova contraria- le quali, al pari dell'art. 2697 cod. civ., da un lato ripartiscono l'onere della prova, dall'altro stabiliscono una regola di giudizio, indicando al giudice come deve decidere la controversia ove la parte che risulta onerata non abbia fornito la prova richiesta. La ratio di tali previsioni è ricollegabile vuoi a criteri di esperienza, vuoi a criteri di probabilità, infine a criteri di verosimiglianza.

E ancora si possono ricordare le presunzioni iuris et de iure -c.d. assolute- che non ammettono la prova contraria.

Tra le norme che, come anticipato, presentano una diversa ripartizione dell'onere della prova deve segnalarsi, soprattutto ai fini della presente esposizione, la regola di cui all'art. 1218 cod. civ., secondo la quale sul debitore che non ha eseguito esattamente la prestazione, grava l'onere di provare che l'inadempimento o il ritardo sono dovuti a impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, essendo tenuto, in caso contrario, a risarcire il danno.

La giurisprudenza, attestatasi fino agli anni '70 su posizioni piuttosto favorevoli al medico, ha cominciato in quegli anni a mutare il proprio indirizzo, fino a creare una sorta di inversione dell'onere della prova nei casi di non difficile esecuzione dell'intervento. All'uopo risulta di estrema chiarezza una recentissima sentenza della Cassazione[5], non ancora pubblicata, ove si legge che:
nel giudizio avente ad oggetto l'accertamento della responsabilita' del medico chirurgo per l'infelice esito di un intervento chirurgico, l'onere della prova si riparte tra attore e convenuto a seconda della natura dell'intervento effettuato, e precisamente:

a) nel caso di intervento di difficile esecuzione, il medico ha l'onere di provare soltanto la natura complessa dell'operazione, mentre il paziente ha l'onere di provare quali siano state le modalita' di esecuzione ritenute inidonee;

b) nel caso di intervento di facile o routinaria esecuzione, invece, il paziente ha il solo onere di provare la natura routinaria dell'intervento, mentre sara' il medico, se vuole andare esente da responsabilita', a dover dimostrare che l'esito negativo non e' ascrivibile alla propria negligenza od imperizia.
Quindi a dispetto di un intervento di facile esecuzione e del peggioramento delle condizioni del paziente che vi si è sottoposto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, per indirizzo ormai costante[6], distribuisce l'onere della prova tra le parti nel senso di far gravare sul paziente l'onere di provare che l'intervento e/o la terapia erano di facile esecuzione e che ne è derivato un risultato peggiorativo, e sul sanitario l'onere di fornire la prova contraria, ossia la prova che la sua prestazione è stata eseguita diligentemente e che l'esito dannoso è stato provocato da un evento sopravvenuto imprevisto ed imprevedibile, ovvero da una pregressa condizione particolare del malato che non è stato possibile accertare con la dovuta diligenza professionale.[7]

Quanto poi all'eventualità, che la giurisprudenza più recente ritiene possibile, ossia quella che con il chirurgo estetico il paziente perfezioni un contratto avente ad oggetto un'obbligazione di risultato

-piuttosto che di mezzi-, la prova di tale contenuto grava sul paziente, così come sul medesimo grava l'onere di provare l'insufficiente informazione ricevuta dal sanitario[8].

Avv. Nicola Todeschini
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Note:
[1] S. PATTI, Prove. Disposizioni generali, in Comm. al cod. civ. Scialoja e Branca, Bologna, Zanichelli, 1987.

[2] Il riferimento è all'Autore indicato nella nota precedente.

[3] Art. 1218. - Responsabilità del debitore

Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

[4] S. PATTI, Op. cit.,33 e segg.

[5] Si tratta della sen. 01127 del 04/02/1998 pronunciata dalla III sez. della Corte di Cassazione.

[6] Tra le altre, cfr. Cass. civ. sez. III, 18 ottobre 1994, n. 8470: Posto che in materia di responsabilita' per danni cagionati nell'esercizio della professione medica va applicato il disposto dell'art. 2236 c.c., a norma del quale il sanitario risponde del danno soltanto in caso di dolo o colpa grave, nell'ipotesi in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficolta', mentre quando si tratti di interventi che siano al di fuori dell'ipotesi della speciale difficolta' presupposta dall'art. 2236 c.c., occorre riportarsi alla disciplina generale prevista dall'art. 1176 per l'esercizio di un'attivita' professionale, la quale importa l'obbligo di usare la diligenza del buon padre di famiglia, implicante una scrupolosa attenzione ed una adeguata preparazione professionale, venendo in tale ipotesi in considerazione la colpa lieve, da presumere sussistente ogni volta che venga accertato un risultato peggiorativo delle condizioni del paziente, diverse sono, nelle due ipotesi, le conseguenze sul piano probatorio, sia per quanto concerne la posizione del paziente parte lesa, il quale dovra' limitarsi a provare il peggioramento delle proprie condizioni perche' sussista la presunzione di colpa, o sobbarcarsi al maggior onere probatorio in caso di intervento di speciale difficolta', sia per quanto concerne la posizione del sanitario, anch'egli da porre di fronte ad una alternativa opposta a seconda della sussistenza di una delle due ipotesi. Arcuti c. Pascarelli, in Giust. civ. Mass., 1994, 1235 (s.m.).

E ancora Cass. civ. sez. III, 30 maggio 1996, n. 5005, Usl n. 11 Pordenone c. Chiaranda e altro, in Giust. civ. Mass., 1996, 797; Cass. civ. sez. III, 11 aprile 1995, n. 4152, Bossi c. Marconi, in Giust. civ. Mass., 1995, 807.

[7] Cfr. Cass. civ. sez. III, 16 novembre 1993, n. 11287 Dettori c. Pistoro, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 11, conforme a Tribunale Roma, 10 ottobre 1992 P.T. c. L.G.R., in Giur. it. 1993, I, 2, 337.

[8] A titolo esemplificativo si legga ancora Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014: Il cliente che, avendo subito un intervento di chirurgia riabilitativa, o anche di chirurgia estetica, senza conseguire i risultati sperati, intenda chiedere al professionista il risarcimento dei danni sostenendo che l'obbligazione da questo contrattata era, nel caso specifico, di risultato o addebitando al professionista la violazione del dovere di informazione sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei risultati e sulle possibilita' e probabilita' dei risultati conseguibili, ha l'onere di provare l'inadempimento, che e' fatto costitutivo del suo diritto al risarcimento del danno, e, percio', che la prestazione dovuta dal professionista era di risultato, e non solo di mezzi, o che il professionista non ha adempiuto puntualmente all'obbligo di informazione.

Nella stessa sentenza, ad ulteriore chiarimento della materia, si legge anche che: Questa Corte ha avuto modo di chiarire, anche di recente, che "ai fini della ripartizione dell'onere della prova in materia di obbligazioni, si deve aver riguardo all'oggetto specifico della domanda, tal che', a differenza del caso in cui si chieda l'esecuzione del contratto e l'adempimento delle relative obbligazioni, ove e' sufficiente che l'attore provi il titolo che costituisce la fonte del diritto vantato, e cioe' l'esistenza del contratto e, quindi, dell'obbligo che si assume inadempiuto, nell'ipotesi in cui si domandi invece la risoluzione del contratto per l'inadempimento di una obbligazione l'attore e' tenuto a provare anche il fatto che legittima la risoluzione, ossia l'inadempimento e le circostanze inerenti in funzione delle quali esso assume giuridiche rilevanza, spettando al convenuto l'onere probatorio di essere immune da colpa solo quando l'attore abbia provato il fatto costitutivo dell'inadempimento (da ultimo, Cass. 29.1.1993, n. 1119). Il problema non si pone diversamente allorche' l'inadempimento venga addotto non per conseguire la risoluzione del contratto, ma ai fini di ottenere il risarcimento del danno. L'obiettiva difficolta' in cui si trovi la parte di fornire la prova del fatto costitutivo del diritto vantato non puo' condurre ad una diversa ripartizione del relativo onere, che grava, comunque, su di essa (fra le altre, Cass., sent. n. 83/2596 del 1983), mentre l'antico brocardo, negativa non sunt probanda, e' da intendere nel senso che, non potendo essere provato cio' che non e', la prova dei fatti negativi deve essere fornita mediante la prova dei fatti positivi, ma non gia' nel senso che la negativita' dei fatti escluda od inverta l'onere (Cass., sent. n. 2612 del 1969). Esattamente, quindi, la Corte di Appello ha ritenuto che spettasse alla Sforza fornire la prova che la controparte non aveva adempiuto all'obbligo di informazione ovvero dell'oggetto del contratto, eventualmente estendendosi al conseguimento di un determinato risultato (dovendosi escludere che la Corte abbia ritenuto che, in astratto, l'obbligazione assunta dal chirurgo estetico sia sempre una obbligazione di risultato, anche se non ha omesso di valutarne l'attivita' sotto tale profilo). Sforza c. Milesi Olgiati, in Foro it., 1995, I, 2913 nota (SCODITTI), e in Nuova giur. civ. commen., 1995, I, 937 nota (FERRANDO).



Pagina: 16 - Responsabilità del medico dipendente SSN

Per affrontare la disamina del problema di emergenza non certo antica, seguirò soprattutto, dato il pressoché silente atteggiamento di dottrina e giurisprudenza, antecedente alla fondamentale sentenza della Corte di Cassazione n. 2144 del 1988, il ragionamento della Suprema Corte nella predetta sentenza, nonché i commenti dottrinali che ne sono seguiti[1]. La scelta che l'interprete si trova a dover operare è strettamente ricollegata all'analisi dell'art. 28 d.p.r. 761/79 nei suoi rapporti con la disciplina del codice civile in merito alle professioni intellettuali. Infatti l'art. 28 d.p.r. 761/79, rinviando al t.u. degli impiegati civili dello Stato, introdurrebbe una differente disciplina per i medici dipendenti pubblici rispetto a quelli privati, comportando l'obbligo del medico dipendente di rispondere personalmente dei danni arrecati ad altri nell'esercizio delle proprie attribuzioni solo se si tratti di danno ingiusto -violazione di un dritto soggettivo commesso con dolo o colpa grave- mentre negli altri casi il terzo danneggiato potrebbe soltanto agire contro la pubblica amministrazione che avrebbe poi facoltà di rivalersi nei confronti del proprio medico dipendente.
La disparità di trattamento che ne deriverebbe, invero non del tutto comprensibile, potrebbe superarsi considerando l'art. 28 norma generale e valorizzando la specialità della disciplina dettata dal codice civile in merito alle professioni intellettuali, che troverebbe pertanto applicazione anche in riferimento ai medici dipendenti. Ebbene, nella sentenza in commento il ricorrente ha invocato per l'appunto l'applicazione dello statuto per gli impiegati civili dello stato. Ma la risposta della Suprema Corte è stata netta: Il motivo e' destituito di fondamento. E' amministrazione pubblica l'attivita' concreta svolta dallo Stato o da altro ente pubblico per la realizzazione di interessi generali. Nell'ambito di tale attivita', indirizzata al conseguimento di quei fini, lo Stato o altro ente pubblico esercita poteri pubblicistici, che possono incidere, direttamente o indirettamente, su diritti soggettivi di privati. Diversa e' la natura dell'attivita' svolta dallo Stato o da altro ente pubblico nello svolgimento di un servizio pubblico. I servizi pubblici, assunti ed organizzati dallo Stato o da altro ente pubblico, che li gestisce, sono predisposti a vantaggio e nell'interesse dei privati, che, fattane richiesta, ne usufruiscono. Non esiste, in tal caso, una posizione di potere dello Stato o dell'ente pubblico che gestisce il servizio; a differenza dell'attivita' amministrativa svolta per la realizzazione di interessi generali. Il privato, fattane richiesta, ha un diritto soggettivo alla prestazione del servizio pubblico in suo favore; e al diritto soggettivo del privato corrisponde, ed e' correlato, il dovere di prestazione dello Stato o del diverso ente pubblico in favore del privato richiedente. A seguito e per effetto della richiesta, si costituisce, quindi, un rapporto giuridico, di natura pubblicistica, tra il privato e lo Stato o il diverso ente pubblico, strutturato dal diritto soggettivo del primo alla prestazione del servizio pubblico e dal dovere del secondo di eseguire la prestazione. Quanto poi alla configurazione, nell'alternativa tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, del rapporto, la Suprema Corte esclude che si tratti di responsabilità extracontrattuale, giacché sussiste, al contrario, un rapporto giuridico all'interno del quale la prestazione viene prestata. Inoltre il riconoscimento che l'attività prestata è certo di tipo professionale, e del tutto simile a quella posta in essere dal libero professionista, porta ad affermare la necessità di un'interpretazione analogica e dell'applicabilità quindi delle regole che disciplinano la responsabilità professionale medica in esecuzione di un contratto d'opera professionale. Poste queste premesse l'applicabilità anche dell'art. 2236 cod. civ. sembrerebbe essere conseguenza immediata. Sgombrato il campo dai dubbi che assillavano la configurabilità del tipo di prestazione dei medici dipendenti, la Corte di Cassazione passa ad analizzare i rapporti tra la responsabilità dell'ente e quella del medico, fondando la propria ricostruzione sulla lettura dell'art. 28 Cost., conseguendone l'affermazione della responsabilità del medico oltre a quella dell'ente, e valutando la medesima tipologia di attività anche in capo al medico dipendente, ne deduce l'applicabilità delle norme sancite nel codice civile. Altre pronunce successive[2], basandosi sulla presente, hanno confermato l'impostazione che si è cercato d'illustrare, spingendosi anche alla disamina dei casi simili[3]. Ma per un'analisi più approfondita del tema si rimanda a quanto osservato più oltre in tema di responsabilità civile degli enti ospedalieri, al capitolo quinto. Concludendo, e riprendendo il filo del discorso relativo alla configurabilità del concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, potrebbe dirsi che l'ente ospedaliero risponde nei confronti del paziente danneggiato secondo i canoni della responsabilità contrattuale, dato il rapporto giuridico esistente, mentre il sanitario che in particolare ha prestato la propria opera nella fattispecie, risponderà secondo lo schema della responsabilità extracontrattuale per il danno cagionato, non sussistendo, in capo allo stesso, responsabilità fondata su un pregresso rapporto giuridico diretto con il paziente danneggiato. E ancora, in adesione alla teoria del cumulo di responsabilità può dirsi che il paziente potrà scegliere se agire nel confronti dell'ente ospedaliero anche per illecito extracontrattuale, essendo stato comunque colpito un bene tutelato erga omnes anche a prescindere da un rapporto giuridicamente rilevante con l'ente ospedaliero medesimo.La scelta, ben inteso, avverrà sulla scorta di una valutazione del danneggiato che terrà conto delle differenze di disciplina, dell'eventuale decorso del termine prescrizionale più breve, anche se l'auspicato avvicinamento dei criteri di disciplina delle due forme di responsabilità potrà forse in futuro allineare ancor di più le stesse, anche per il tramite di appositi interventi legislativi. In conclusione è opportuno accennare all'azione di rivalsa dell'ente ospedaliero nei confronti del medico dipendente, una volta accertata la responsabilità di quest'ultimo e osservare che la giurisdizione spetta alla Corte dei Conti[4] .

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Note:
[1] Si tratta della Cass. civ., sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144, Balestra c. Scanga e altro, in Resp. civ. e prev. 1988, 992 (nota), in Giur. it., 1989, I,1,300, in Dir. e prat. assicur., 1989, 298 (nota), nonché soprattutto in Foro it., 1988, 2296 con nota di A. PRINCIGALLI.

[2] Cfr. Cass. civ. sez. III, 27 maggio 1993, n. 5939: La responsabilita' dell'Ente ospedaliero, gestore di un servizio pubblico sanitario, e del medico suo dipendente per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica, inserendosi nell'ambito del rapporto giuridico pubblico (o privato), tra l'ente gestore ed il privato che ha richiesto ed usufruito del servizio, ha natura contrattuale di tipo professionale. Ne consegue che la responsabilita' diretta dell'ente e quella del medico, inserito organicamente nella organizzazione del servizio, sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilita' in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto di opera professionale, senza che possa trovare applicazione nei confronti del medico la normativa prevista dagli art. 22 e 23 del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3 con riguardo alla responsabilita' degli impiegati civili dello Stato per gli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini. Panfili c. Boghi, in Giust. civ. Mass., 1993, 933 (s.m.);Cass. civ. sez. III, 22 novembre 1993, n. 11503, Guglielmini c. Usl, in Rass. dir. civ., 1995, 908 nota (VENNERI).

[3] Cfr., per il caso della clinica privata, Tribunale Napoli, 15 febbraio 1995: Il ricovero di un paziente in una casa di cura privata e' caratterizzato dalla nascita di un contratto a prestazioni corrispettive avente ad oggetto, da parte dell'ente, l'obbligo di porre in essere un'attivita' sanitaria polivalente non dissimile, nella sostanza, da quella apprestata da un ospedale, costituendo la prestazione del medico operante il profilo essenziale e maggiormente qualificante della suddetta attivita' e a nulla rilevando che il medico operi in quel centro una o infinite volte. Ne consegue che, in caso di erronea esecuzione dell'operazione chirurgica, la casa di cura privata risponde ex art. 2049 c.c. solidalmente con il medico dei danni prodotti, essendo sufficiente che vi sia un potere di direzione e vigilanza dell'ente privato sull'attivita' del medico, in virtu' di un rapporto non occasionale ma non necessariamente di lavoro subordinato, che puo' essere anche temporaneo e non continuativo. Cosentino c. Magli e altro, in Foro napoletano, 1996, 76; in Gius. 1996, 87 (s.m.).

E ancora si veda Tribunale Roma 28 giugno 1982: L'attivita' che un chirurgo, libero professionista, svolge presso una casa di cura privata, quanto meno in virtu' di un non occasionale rapporto d'esecuzione d'opere, comporta, per sua natura, un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra la casa di cura committente ed il chirurgo preposto; ne consegue che, in caso di danni derivanti da un intervento chirurgico erroneamente eseguito per imperizia dell'operatore, oltre alla responsabilita' di costui verso il paziente per il fatto illecito (ex art. 2043 c.c.) sussiste, con vincolo solidale, la responsabilita' contrattuale (ex art. 1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (ex art. 2049 c.c.) della predetta casa di cura. G Z c. A F e altro, in Temi romana, 1982, 601 (nota).

[4] Cfr. Cass. civ., sez. un., 15 luglio 1988 n. 4634: Spetta alla giurisdizione della corte dei conti l'azione di rivalsa promossa da ente ospedaliero (poi trasformato in U.S.L.) nei confronti del dipendente a seguito d'intervenuta condanna al risarcimento dei danni arrecati a terzi (nella specie lesioni personali provocate da un medico nel corso di un intervento chirurgico), atteso che l'art. 103 cost. attribuisce al giudice contabile tutte le ipotesi di responsabilita' per danni arrecati agli enti pubblici da persone aventi con questi vincoli d'impiego o comunque di servizio, come conseguenza della violazione di tali rapporti, tra i quali rientrano, in carenza di esplicite deroghe legislative, i rapporti tra U.S.L. e propri dipendenti. Lucherini c. Comune Roma in Riv. corte conti 1988, fasc. 4, 236.



Pagina: 17 - La responsabilità per fatto degli ausiliari

Quando ci si accinge ad affrontare i problemi sorgenti dai rapporti tra debitore e ausiliari nell'esecuzione di un rapporto obbligatorio, l'interrogativo di fondo al quale dare una risposta è se e chi risponda dei danni provocati dagli ausiliari medesimi[1]. L'art. 1228 cod. civ.[2] risolve il dilemma, disponendo che il debitore risponde anche dei fatti dolosi o colposi commessi dai terzi dell'opera dei quali si avvalga nell'adempimento dell'obbligazione.Appare pertanto subito chiaro il presupposto fondamentale di tale responsabilità : la circostanza che si tratti di fatti posti in essere dall'ausiliario su incarico del debitore, nell'esecuzione del rapporto obbligatorio, e che configurino un inadempimento dell'obbligazione che il debitore è tenuto ad adempiere. Il fondamento di tale impostazione, emanazione del principio generale dell'imputazione giuridica al debitore del fatto dell'ausiliario, si trova, secondo Bianca, nell'affermazione di un esigenza: che il creditore possa fare affidamento sulla responsabilità originaria del debitore che si avvalga di terzi nell'adempimento dell'obbligazione. Quindi, i fatti ai quali fa riferimento l'articolo in esame, debbono comportare un'impossibilità -anche temporanea- della prestazione, che può incidere anche sui momenti relativi ai c.d. oneri preparatori, ovvero arrecare un danno ai beni del creditore[3], violando così la diligenza richiesta nell'adempimento. La pertinenza del danno che dovesse prodursi in capo al creditore, rispetto al rapporto obbligatorio sussistente, è descritta da un ventaglio di possibili rapporti sui quali l'esistenza dell'obbligazione produce i propri effetti, nell'ottica del comportamento improntato alla cautela e alla diligenza che il debitore deve tenere per non danneggiare in alcun modo i beni del creditore. Al di fuori di questa sfera potrebbe tutt'al più sussistere responsabilità extracontrattuale dell'ausiliario nei confronti del creditore. Merita di essere brevemente analizzata anche la responsabilità dell'ausiliario, caratterizzata, come detto nell'art. 1228 cod. civ., da dolo e/o colpa. I criteri di valutazione della responsabilità dell'ausiliario, fatte salve le premesse sulla riconducibilità delle conseguenze al debitore originario, poco sopra accennate, non possono che dipendere dagli stessi criteri in base ai quali viene valutata la diligente prestazione del debitore; sembrerebbe infatti fuori luogo valutare la diligenza richiesta dall'ausiliario diversamente da quanto non si faccia per la diligenza richiesta, nell'adempimento dell'obbligazione, al debitore. Risulta pertanto consequenziale valutare il comportamento dell'ausiliario del prestatore d'opera professionale sulla scorta delle valutazioni precedentemente condotte in materia di responsabilità contrattuale e di diligenza necessaria nell'adempimento, che non sarà semplicemente quella del buon padre di famiglia ma quella specifica, espressa dallo standard medio di riferimento rappresentato dalla categoria di appartenenza. Se invero il debitore sia in questo caso un medico, e se è vero che a questi è richiesta la diligenza "del buon medico di famiglia e/o specialista", la medesima diligenza sarà pretesa a buon diritto dall'ausiliario del quale il medico stesso si serva nell'adempiere alla propria prestazione. Una soluzione diversa graverebbe sull'auspicabile esigenza di uniformità e certezza delle responsabilità in gioco, non sembrando altrimenti sostenibile alla luce delle premesse illustrate. Certo è che la suddetta responsabilità dell'ausiliario è da leggersi in rapporto a quella del debitore, nel senso che sul debitore grava anche l'onere di verificare la rispondenza dell'attività dell'ausiliario alla diligenza richiesta, nonché la pronta attivazione, ogni qualvolta dovesse risultare necessario operare la tempestiva sostituzione dell'ausiliario che non ottemperasse ai propri doveri. Pertanto non potrebbe certo essere invocata la ricorrenza del caso fortuito -liberatoria di responsabilità- al cospetto della sopravvenuta ed imprevista inidoneità dell'ausiliario alla prestazione dei propri compiti, qualora si potesse dimostrare la prevedibilità di tale emergenza. Non merita più che un accenno l'eventualità che il medico conosca l'imperizia dell'ausiliario e che, ciò non di meno, se ne serva, conseguendone l'ovvia responsabilità del primo, secondo lo schema esposto. Tornando ad un esame più letterale del disposto legislativo, si può notare altresì come la norma indichi nella sussistenza di un incarico, conferito dal debitore (per es. il medico) all'ausiliario (per es. altro collega), un altro presupposto fondamentale per la sussistenza della fattispecie, non potendo ricollegarsi al debitore una responsabilità che dipenda da atti compiuti dall'ausiliario senza averne ricevuto incarico, e pertanto nella insussistenza di un rapporto nel quale il debitore si vale dell'opera di terzi.
Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw
Note:
[1] C. MASSIMO BIANCA, Inadempimento delle obbligazioni, in Comm. del Cod. Civ. Scialoja e Branca, art. 1228, Bologna-Roma, 1993, 375 e segg.
[2] Art. 1228. - Responsabilità per fatto degli ausiliari
Salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si vale dell'opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.
[3] C. MASSIMO BIANCA, Op. cit., 382 e segg.



Pagina: 18 - La responsabilità civile degli enti ospedalieri

La responsabilità dell'ente ospedaliero per colpa dei sanitari. Verso l'individuazione della prestazione di assistenza sanitaria

Ritengo vi siano due profili distinti, seppur intimamente connessi, da esaminare per addivenire ad un possibile inquadramento della prestazione posta in essere dall'ente ospedaliero. Sotto il primo profilo sorge l'esigenza di descrivere i contorni della prestazione erogata dall'ente ospedaliero pubblico ai pazienti che vi si rivolgano. Con riguardo al secondo, è d'uopo inquadrare il rapporto tra medico dipendente e struttura ospedaliera, al fine di stabilire secondo quali meccanismi, in punto di responsabilità, sia possibile ricondurre sul secondo le condotte dannose del primo. Veniamo ad analizzare il primo dei due profili ai quali si è fatto poc'anzi accenno. Una prima ipotesi sistematica, va nel senso di individuare un contratto d'opera professionale, disciplinato analogicamente alle regole stabilite per il professionista che eserciti autonomamente e alle conseguenti regole in materia di responsabilità contrattuale già descritte. Infatti si è in precedenza rilevato come la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia in più occasioni sostenuto che la similarità della prestazione che l'ente ospedaliero si impegna a porre in essere, quando il paziente si reca presso la struttura, con quella del prestatore d'opera, sia tale da giustificare l'attrazione del rapporto, quanto alla sua disciplina, nell'orbita del contratto d'opera professionale[1]. Conseguentemente si sostiene anche l'applicazione dell'art. 2236 cod. civ., nell'interpretazione giurisprudenziale che lo caratterizza. Appare tuttavia doveroso segnalare che sussistono sul punto voci di dissenso[2] che segnalano l'esistenza di una forzatura nell'applicare analogicamente, anche alla responsabilità dell'ente ospedaliero, una regola giurisprudenziale elaborata su misura per il prestatore d'opera. A tale critica sembra tuttavia lecito rispondere che l'applicazione della regola dell'art. 2236 cod. civ., data la sua genesi e il suo significato e stante l'asserita applicabilità analogica delle norme sulla responsabilità del professionista, appare accettabile, anche in termini di unità e coerenza sistematiche. Non si vede come possa giustificarsi, se si accetta ben inteso l'applicazione analogica suddetta, una disparità di trattamento condizionata dalla circostanza che la prestazione sia posta in essere dal medico dipendente piuttosto che dal professionista autonomo. Lo sforzo argomentativo è probabilmente indirizzato più correttamente se concentrato semmai nell'individuazione della prestazione atipica e complessa che l'ente ospedaliero, per il tramite dei suoi dipendenti e della sua complessa struttura, offre a coloro che la richiedono, come si dirà tra breve. Infatti, la tesi più sopra rappresentata, non è, come anticipato in apertura, l'unica strada per descrivere correttamente il quadro: alcuni autori [3] sostengono, con l'avallo di certa giurisprudenza [4], che al contrario sarebbe preferibile configurare autonomamente la responsabilità delle strutture sanitarie, come fattispecie complessa comprensiva certo anche della prestazione intellettuale dei sanitari che vi prestano la loro opera, ma caratterizzata altresì da altre competenze, così come dalla circostanza di essere espressione di un particolare apparato organizzativo, e che potrebbe definirsi prestazione di assistenza sanitaria , ovvero contratto di spedalità [5]. La peculiarità di tale forma di contratto atipico consisterebbe altresì nella presenza di una serie di obblighi integrativi individuabili ex lege ovvero ex contractu. In questo senso la giurisprudenza[6] ha riconosciuto la responsabilità della struttura ora per mancanza di sicurezza delle attrezzature[7], ora per mancata protezione della salute dei ricoverati[8], quindi per difetto di protezione della salute dei terzi[9], per omessa custodia degli assistiti [10], in ipotesi di danni anonimi [11], infine per omessa adeguata informazione[12]. Questa seconda ipotesi sembra più aderente alla realtà, osservando la quale emergono alcuni dati di fatto dai quali non sembra corretto prescindere. L'ente ospedaliero si presenta come una struttura complessa, caratterizzata certo dalla presenza al suo interno di medici dipendenti e di altri operatori in senso lato sanitari, ma anche dalla consistenza di una struttura organizzativa e amministrativa particolare, nonché dalla predisposizione di un apparato strumentale di rilievo. Non può mancare un ulteriore considerazione, ovverosia quella stimolata dalla c.d. spersonalizzazione della prestazione sanitaria all'interno della struttura. Invero il paziente non si rivolge direttamente all'uno o all'altro specialista, ma si rivolge alla struttura, che di volta in volta, in ossequio alle sue esigenze organizzative, indirizza il paziente verso lo specialista che in concreto è possibile individuare. Ciò non di meno la prestazione, che lo specialista in concreto attivato presta, è sempre e comunque una prestazione d'opera assimilabile a quella del medico autonomo, e sembra corretto mantenerne perciò stesso fermi i principi di valutazione in punto di diligenza. Pertanto individuare la prestazione dell'ente come prestazione complessa, che nei rapporti che ci interessano assume la forma di un contratto atipico come è stato ricordato in precedenza, pare essere l'ipotesi interpretativa sulla scorta della quale esaminare la materia. Quanto alla configurazione dei rapporti tra Unità sanitaria locale (ormai A.s.l.) e medici dipendenti, in punto di riferibilità alla prima dei comportamenti dannosi posti in essere dai secondi, è il caso di rilevare[13] la possibilità di configurare in modo triplice il rapporto che si instaura tra paziente ed ente ospedaliero. Le ipotesi interpretative vanno dall'inquadramento, in materia di responsabilità contrattuale, ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., nella disciplina della responsabilità per fatto degli ausiliari, a quello, in materia di responsabilità aquiliana, nella disciplina della responsabilità dei padroni e dei committenti, ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., per arrivare all'affermazione della responsabilità diretta nel segno della c.d. immedesimazione organica[14] dell'ente, gestore di un servizio pubblico sanitario, con i suoi dipendenti. Quest'ultima posizione trova maggiori consensi in giurisprudenza, conoscendo articolate applicazioni ad opera della Suprema Corte di Cassazione[15]. Su tali basi si afferma pertanto la concorrenza della responsabilità dell'ente con quella dei medici suoi dipendenti, nelle forme che si sono illustrate brevemente in precedenza. La prospettiva muta solo parzialmente se si passi ad analizzare il tema nei confronti della struttura privata. Infatti in tale evenienza la responsabilità del sanitario non è mai diretta[16], come accade se si accoglie il principio della c.d. immedesimazione organica propugnato da certa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, ma da valutarsi come di consueto, ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., sotto il profilo della responsabilità contrattuale, nonché, ai sensi dell'art. 2049 cod. civ., sotto quello della responsabilità extracontrattuale.

Avv. Nicola Todeschini
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Note:
[1] Cass. civ., sez. III, 24 marzo 1979 n. 1716: L'accettazione del paziente nell'ospedale, ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto d'opera professionale tra il paziente e l'ente ospedaliero, il quale assume a proprio carico, nei confronti del paziente, l'obbligazione di svolgere l'attività diagnostica e la conseguente attività terapeutica in relazione alla specifica situazione del paziente preso in cura. Poiché a questo rapporto contrattuale non partecipa il medico dipendente, che provvede allo svolgimento dell'attività' diagnostica e della conseguente attività terapeutica, quale organo dell'Ente ospedaliero, la responsabilità' del predetto sanitario verso il paziente per il danno cagionato da un suo errore diagnostico o terapeutico è soltanto extracontrattuale, con la conseguenza che il diritto al risarcimento del danno spettante al paziente nei confronti del medico si prescrive nel termine quinquennale stabilito dal comma 1 dell'art. 2947 c.c. Cirielli c. Bisaro e altro, in Giust. civ. Mass., 1979, fasc. 3; in Giust. civ., 1979, 1440, I; in Resp. civ. e prev., 1980, 90; in Riv. it. medicina legale, 1981, 880.
Nello stesso senso cfr. Cass. civ., sez. III, 21 dicembre 1978 n. 6141: La responsabilita' di un Ente ospedaliero per i danni causati a un paziente dalle prestazioni mediche dei sanitari dipendenti e' di natura contrattuale, poiche' l'Ente, obbligandosi ad eseguire le prestazioni, ha concluso col paziente uncontratto d'opera intellettuale. Pertanto, nel settore chirurgico, quando l'intervento operatorio non sia di difficile esecuzione ed il risultato conseguitone sia peggiorativo delle condizioni finali del paziente, il cliente adempie l'onere a suo carico provando che l'intervento operatorio era di facile esecuzione e che ne e' conseguito un risultato peggiorativo, dovendosi presumere l'inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale del chirurgo; spetta, poi, all'Ente ospedaliero fornire la prova contraria, cioe' che la prestazione professionale era stata eseguita idoneamente e l'esito peggiorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dall'esistenza di una particolare condizione fisica del cliente non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale . Rainone c. Ospedale San Gennaro, in Arch. civ., 1979, 335.
[2] R. DE MATTEIS, op. cit., 295.
[3] Ibidem, 294 e segg.
[4] E' il caso della già citata sen. Cass. civ., III sez., 22 novembre 1993, n. 11503, in Giur. it., 1, I, 321.
[5] M. BILANCETTI, op. cit., 312 e segg.
[6] La casistica che segue è tratta dal testo citato nella nota 164.
[7] App. Napoli del 14/09/1979, La Rocca, Siemens-Gorla-Siama S.p.A. c. Università degli studi di Napoli.
[8] Trib. Casale di Monferrato, 06/07/1966, in Resp. civ. e prev., 1968, 622. Secondo i giudici del predetto tribunale, la casa di cura privata contrae con il paziente un contratto d'opera intellettuale, assumendo non solo l'obbligazione principale di curarlo con la diligenza necessaria, ma anche una serie di obbligazioni accessorie e complementari che si accompagnano e confluiscono nell'obbligazione principale, e che sinteticamente si esprimono nel concetto di obbligo di adottare tutte le cautele necessarie e sufficienti a tutelate l'incolumità del malato .
[9] Si vedano sul punto le considerazioni già svolte nel paragrafo relativo ai rapporti tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale ed ai tentativi di superamento, nonché in particolare nelle note. Il riferimento, brevemente richiamato è alla configurazione del c.d. contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi . Si legga anche A. PINORI, Contratto con effetti protettivi a favore del terzo e diritto di nascere sano, in Giur. it., 1995, 1, I, 321. Nota a margine della sen. Cass. civ., III sez., 22 novembre 1993, n. 11503. Per le connessioni con il tema dei rapporti tra azione contrattuale ed extracontrattuale, si legga il paragrafo "Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale: distinzioni e tentativi di superamento".
[10] Tra le altre si veda Cass. civ., sez. III, 4 agosto 1987 n. 6707: La tutela della salute, che rientra tra i compiti istituzionali primari degli enti ospedalieri, in relazione alle persone di minorata o nulla autotutela (nella specie, neonato), non si esaurisce nella mera prestazione delle cure medico-chirurgiche generali o specialistiche, ma comprende anche la protezione delle stesse persone; pertanto, quando la mancata predisposizione di una organizzazione volta a sopperire a tale compito abbia favorito il prodursi di un danno (nella specie, il rapimento del neonato dal nido ad opera di ignoti), va affermata la responsabilita' dell'ente ospedaliero per la violazione dei suoi obblighi istituzionali. USL n. 1 Ventimigliese c. Aste e altro, in Foro it., 1988, I, 1629 (nota).
[11] Ovverosia quando, come accade, dagli atti non risulti possibile individuare il medico che nella fattispecie sia intervenuto, trattandosi di prestazione ricevuta in una struttura ospedaliera. Trattasi di Corte appello Milano 12 dicembre 1980, Biraghi c. Istituto ortopedico Pini, in Arch. civ., 1981, 47. Nella sentenza in oggetto i giudici hanno affermato la responsabilità dell'Istituto ortopedico dove è stato operato il paziente che ha riportato un danno encefalico di gravissime proporzioni a causa di complicazioni insorte in sede anestesiologica.
[12] Cass. civ. sez. III, 8 luglio 1994, n. 6464: E' responsabile la struttura sanitaria per violazione del dovere di informativa del paziente circa le conseguenze dell'intervento ed i suoi possibili esiti, stante che il dovere di informativa rientra tra quelli del medico (ed a maggior ragione nel caso di interruzione volontaria della gravidanza ai sensi dell'art. 14 l. 22 maggio 1978 n. 194, essendo l'esito negativo dell'intervento un evento prevedibile, dimostrato dal fatto che per aversi la certezza dell'esito favorevole e' necessario procedere all'esame istologico). Tale dovere di informativa non viene meno per effetto della dimissione volontaria da parte del paziente. Usl n. 21 Padova c. Petix e altro, in Riv. it. medicina legale, 1995, 1282; in Rass. dir. civ., 1996, 342 nota (CARUSI).
[13] M. BILANCETTI, op. cit., 269.
[14] Su tutte si legga la fondamentale Cass. civ., sez. III, 1 marzo 1988 n. 2144: […]La responsabilita' dell'ente pubblico gestore del servizio sanitario e' diretta, essendo riferibile all'ente, per il principio della immedesimazione organica, l'operato del medico suo dipendente, inserito nell'organizzazione del servizio, che con il suo operato, nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria, ha causato danno al privato che ha richiesto ed usufruito del servizio pubblico. E, per l'art. 28 cost., accanto alla responsabilita' dell'ente esiste la responsabilita' del medico dipendente. Responsabilita' che hanno entrambe radice nell'esecuzione non diligente della prestazione sanitaria da parte del medico dipendente, nell'ambito dell'organizzazione sanitaria. Pertanto, stante questa comune radice, la responsabilita' del medico dipendente e', come quella dell'ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate a quella dell'ente pubblico, di tipo professionale; e vanno applicate anche ad essa, analogicamente, le norme che regolano la responsabilita' in tema di prestazione professionale medica in esecuzione di un contratto d'opera professionale. Ne discende che la responsabilita' del medico dipendente verso il privato danneggiato non ricade nella normativa di cui agli art. 22 e 23 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3; la quale normativa riguarda, in applicazione dell'art. 28 cost., le ipotesi di danni arrecati a terzi (privati) dagli impiegati civili dello Stato per i comportamenti - attivi od omissivi - da essi tenuti nell'ambito dell'esercizio dei poteri pubblicistici che strutturano l'amministrazione pubblica quale attivita' concreta svolta dallo Stato o da altro ente pubblico per la realizzazione di interessi generali. […]. Balestra c. Scanga, in Giust. civ. Mass., 1988, fasc.3; in Foro it., 1988, I, 2296 (nota); in Nuova giur. civ. commen., 1988, I, 604 (nota).
In generale si veda: Cass. civ. sez. lav., 6 maggio 1991 n. 4951, Sciascia e altro c. Ministero giustizia e altro, in Giust. civ. Mass., 1991, fasc. 5.
[15] Sul punto si possono leggere le note relative al paragrafo sulla responsabilità del medico dipendente del servizio sanitario nazionale.
[16] In tema si veda M.BILANCETTI, op., cit., 307 e segg.



Pagina: 19 - Omeopatia e responsabilità professionale

Omeopatia e responsabilità professionale: un'ipotesi di studio

Solo qualche breve osservazione su di un' ipotesi d'indagine che non mi risulta essere stata molto seguita, pur senza voler affrettare giudizi delicati. Il problema di fondo dell'omeopatia sembra essere quello legato alla mancanza di risultati scientificamente apprezzabili delle terapie che i medici omeopatici possono predisporre. L'art. 28 cod. dentol.[1] affronta, anche se non esplicitamente, quelle che la FNOMCeO definisce, nel suo commentario al codice deontologico del 1995, medicine o pratiche alternative. Rientrano in questo campo tutte quelle pratiche che pretendono di curare utilizzando metodologie diverse da quelle ufficiali verificate dalla sperimentazione della scienza medica[2]. L'art. 82 cod. deontol.[3], sotto la rubrica "Pratiche alternative", affronta l'argomento consentendo l'accesso dei medici a tali pratiche sotto la loro responsabilità. Ritengo che il tema sia di non scarsa importanza se si vuol affrontare alla luce del rilievo che il consenso informato assume nell'odierno panorama della professione. Se infatti l'informazione deve essere completa ed esauriente, nei limiti e nelle forme che si sono descritte nella sede opportuna, al medico che pratichi l'omeopatia, si pongono dei doveri di indiscutibile rilievo deontologico. Dato che l'accesso alle pratiche alternative è rimesso alla sua cosciente valutazione, nel segno della responsabilità professionale sin qui illustrata, è conseguenza immediata che la sua opera dovrà essere valutata, in punto di diligenza, secondo le regole generali descritte in precedenza. Quindi la serietà del medico omeopata dovrà attivare in lui un'attenzione particolare, quando si troverà a consigliare al suo paziente un trattamento omeopatico, in quanto la sua informazione e l'esatta comprensione da parte del paziente stesso, dovranno essere tali da descrivere anche il riconoscimento scientificamente apprezzabile che tale pratica alternativa abbia -o non abbia- ricevuto dalla comunità scientifica, e ciò a prescindere dalle convinzioni personali -non pertanto ufficialmente enunciate- del professionista che a tale pratica aderisca. L'omissione, che una indiligente informazione potrebbe concretare, costituirebbe già di per sé un rilievo in punto di responsabilità professionale. Quid iuris a fronte del mancato miglioramento della patologia in atto, che normalmente il paziente avrebbe potuto conseguire se invece della pratica omeopatica gli fosse stata prescritta una terapia tradizionale ? Potrebbe il professionista invocare l'applicazione dell'art. 2236 cod. civ. anche nel caso in cui abbia adottato una pratica alternativa ? Quanto al primo dei due quesiti ritengo che sussisterebbe sia una violazione dei principi deontologici, che una conseguente responsabilità professionale, in primis per imprudenza. Imprudente infatti sarebbe la condotta del sanitario che, a fronte di una patologia che la scienza medica ritiene trattabile agevolmente con terapie tradizionali, avesse ciò non di meno consigliato un trattamento alternativo omeopatico nel caso di specie ottenendo o un aggravamento della patologia in atto, ovvero un decorso complicato e ben più lungo della stessa[4]. Quanto al secondo quesito, ritengo che la risposta data al primo sia illuminante anche in tale frangente. La rigorosa e condivisibile interpretazione giurisprudenziale dell'art. 2236 cod. civ., che ne nega l'applicazione nei casi di imprudenza ed incuria, troverebbe certo terreno fertile per una sua conferma anche in questo caso. Pertanto la responsabilità dovrebbe essere valutata, anche ricorrendo condizioni di speciale difficoltà, secondo i consueti canoni della culpa levis. Queste brevi note, estendibili anche alle altre pratiche alternative, non vogliono certo essere un monito nei confronti di chi le adotti, bensì un modesto contributo, in sede di ipotesi interpretativa, su argomenti comunque molto delicati, di emersione relativamente nuova, nonché, sotto certi profili, di scottante attualità.

Avv. Nicola Todeschini
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membro dello Studio Legale Consumerlaw


Note:

[1] Art. 28 cod. deontol.: Al medico è riconosciuta piena autonomia nella scelta, nell'applicazione e nella programmazione dell'iter dei presidi diagnostici e terapeutici, anche in regime di ricovero, fermi restando i principi della responsabilità professionale.
Ogni prescrizione e ogni trattamento devono essere comunque ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche, alla massima correttezza e all'osservanza del rapporto rischio-beneficio. Il medico è tenuto ad una adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e delle prevedibili reazioni individuali nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici che prescrive e utilizza. Il ricorso a terapie nuove è riservato all'ambito della sperimentazione clinica e soggetto alla relativa disciplina. Sono vietate l'adozione e la diffusione di terapie segrete, scientificamente infondate o non supportate da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica, oppure atte a suscitare illusorie speranze. Il ricorso a trattamenti con effetto "placebo" è consentito solo se ispirato a criteri dì beneficialità per il paziente.
[2] Commentario al cod. deontol. a cura della FNOMCeO, sub art. 82 cod. deontol.
[3] Art. 82 cod. deontol.: La potestà di scelta di terapie e di metodi innovativi o alternativi rispetto alle consolidate esperienze scientifiche si esprime nell'esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale. É vietato al medico di collaborare a qualsiasi titolo o favorire in qualsiasi modo chi, non medico, eserciti abusivamente anche nel settore delle cosiddette "pratiche alternative". Il medico, venuto a conoscenza di casi di esercizio abusivo o di favoreggiamento o collaborazione anche nel settore delle pratiche di cui al precedente comma, è obbligato a denunciarli all'Ordine professionale.
[4] Sul caso teorico che affronto non ho rinvenuto precedenti interessanti. Addirittura il termine omeopatia , né la sua radice, sia nell'archivio su supporto ottico della Giuffrè relativo alle massime giurisprudenziale, che su quello della Utet relativo alle sentenze della Cassazione per esteso, non fornisce risultati alla ricerca.



Pagina: 20 - Il caso del chirurgo estetico

Le difficoltà connesse all'adattamento rigido della distinzione tradizionale tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, già affrontata, si avvertono forse con maggiore intensità quando si pone attenzione alla particolare cura che la giurisprudenza ha riservato a particolari ipotesi di responsabilità professionali sanitarie. Mi riferisco in particolare alle prestazioni del chirurgo estetico e del dentista.
Quale che sia la scelta dell'interprete, tra le due impostazioni sopra ricordate -conferma o superamento della distinzione tradizionale- le prestazioni professionali del chirurgo estetico -ma anche del dentista- sono rivisitate, soprattutto dalla giurisprudenza, nel senso della rottura con l'adesione alla categoria delle obbligazioni di mezzi, rinvenendo al contrario un'obbligazione di risultato a disciplina dell'attività professionale in oggetto.
Venendo ora alla disamina della prima delle due figure professionali sanitarie, quella del chirurgo estetico, si è autorevolmente sottolineata [1] l'inutilità della differenziazione, tra sanitari in genere e chirurghi estetici, sostenendosi che non sarebbe più opportuna alla luce della rinnovata concezione della salute, intesa anche nelle accezioni comprensive della soddisfazione psicologica derivante dall'accettazione del proprio aspetto fisico. Invero, ad una differenziazione di questo
genere si oppone anche una valutazione d'ordine medico legale, sulla base della quale non appare corretto sostenere che, nella specialità in esame, a fronte di una diligente prestazione del chirurgo, debbano conseguentemente conseguirsi risultati estetici soddisfacenti, ben potendosi produrre risultati di segno opposto, o comunque non soddisfacenti, legati a fattori fisiologici o patologici peculiari al paziente, non sempre prevedibili.
Sarebbe pertanto eccessivamente penalizzante per il chirurgo estetico valutare la sua responsabilità [2] secondo i canoni relativi alle obbligazioni di risultato, ben potendosi semmai puntare l'attenzione -coerentemente con quanto detto in punto di superamento della distinzione in oggetto- sul diligente adempimento del dovere d'informazione del paziente, gravante sul chirurgo estetico, come sugli altri sanitari, fondamentale anche in questa specialità al fine di determinare le condizioni ideali per una partecipazione cosciente del paziente e per la prestazione di un consenso all'intervento od alle terapie altrettanto pieno e cosciente.
Sembra in effetti più corretto, spostare l'attenzione dall'inquadramento tradizionale della prestazione in oggetto, vuoi nelle obbligazioni di risultato vuoi in quelle di mezzi, ad un piano diverso che privilegi la fase della definizione del contenuto della prestazione del chirurgo estetico, data la delicatezza particolare che in questa specialità assume anche la prestazione del consenso da parte del paziente.
E' il chiarimento del contenuto della prestazione [3], in sede contrattuale, da farsi per iscritto, che formalizzerebbe, disegnandone i confini, ad un tempo e l'informazione sul trattamento e i limiti di responsabilità del chirurgo che si impegni ad una determinata opera.
La circostanza che la peculiarità dell'intervento del chirurgo estetico sottende, legata soprattutto alla finalità non meramente necessaria alla salute bensì tesa ad un miglioramento estetico, ha fatto da più parti sostenere [4] che il consenso informato dovrebbe, in questo caso, essere considerato in modo più attento e rigoroso, comunque diverso [5].
Ma a questa posizione si oppone una considerazione di non poco conto: discriminare la specialità in esame sostenendo la necessità di valutare più rigorosamente la fase dell'informazione e della prestazione del consenso, significherebbe introdurre, all'interno della scienza medica, una differenziazione che non trova specifiche ragioni deontologiche per essere sostenuta. Come si potrebbe infatti sostenere che un paziente che debba sottoporsi ad un intervento a cuore aperto abbia diritto ad un'informazione meno accurata [6] di quella alla quale avrebbe invece diritto il paziente che si sottoponesse ad una plastica facciale ?
Ma l'elaborazione giurisprudenziale non si è fermata a questo, creando, con non poche perplessità tra gli stessi giudici della Suprema Corte [7], un'ennesima differenziazione all'interno della categoria delle prestazioni poste in essere dal chirurgo estetico, ossia quella tra interventi di chirurgia estetica ordinari, ed interventi di chirurgia estetica c.d. ricostruttivi [8]. Questi ultimi sarebbero interventi riferibili a casi, come quello trattato dalla sentenza in commento, nei quali sia stato il paziente stesso a procurarsi volontariamente alcune alterazioni -nel caso di specie tatuaggi osceni e ripugnanti- per poi volerne conseguire l'eliminazione. Di fronte a casi simili il contenuto dell'obbligo d'informazione sarebbe diverso rispetto a quello richiesto, al contrario, nei casi di chirurgia estetica ordinaria, dovendosi nel primo caso adempiere all'obbligo d'informazione del paziente in modo meno rigoroso e limitato agli esiti eventuali che potrebbero rendere vana l'operazione, e non dovendo il medico spingersi oltre nell'informazione diligente al paziente.
Ebbene, a chi scrive questa conclusione sembra inaccettabile, introducendo una distinzione tra pazienti di "categoria superiore" e pazienti "di categoria inferiore" che dovrebbe consentire al chirurgo una modulazione del proprio dovere d'informazione piena del paziente assolutamente discrezionale, dando accesso di fatto ad un'alterazione del contenuto della sua prestazione, che parrebbe ricollegato ad una valutazione del medico stesso sulla identificazione del tipo d'intervento -ricostruttivo/non ricostruttivo- che non appare fondata.
Sembra, in conclusione, che la strada intrapresa, caratterizzata dalla rivisitazione [9] della distinzione tradizionale tra prestazioni di mezzo e prestazioni di risultato possa fornire fecondi apporti anche nei settori che, in virtù di tale differenziazione, hanno subito maggiormente le sue estremizzazioni, spostando piuttosto l'attenzione sulla corretta e completa informazione del paziente e sulla prestazione cosciente del consenso al trattamento al quale si deve sottoporre; su tali premesse si potrà definire a quale opus il sanitario è chiamato e quali siano i confini di responsabilità che l'obbligazione che ha assunto descrivono, senza fondare la qualità dell'informazione da fornire su differenti categorie di prestazioni, dando seguito a bizantine distinzioni, piuttosto sottolineando l'importanza di un'informazione sempre diligente quale contenuto indefettibile della prestazione del sanitario.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

Note:
[1] M. BILANCETTI, La responsabilità penale civile del medico, II ed., Padova, 1996; dello stesso v. anche La responsabilità del chirurgo estetico, in Giur. it., 1997, 2, IV, 354 e segg.
[2] Cfr. Tribunale Trieste, 14 aprile 1994: L'obbligazione, contratta da un istituto specializzato nella chirurgia estetica, e' un'obbligazione di mezzi e comporta, davanti ad un caso ordinario, una responsabilita' per colpa anche lieve ex art. 1176 e 2236 c.c. In assenza di un rapporto di lavoro subordinato del sanitario, officiato per l'intervento chirurgico, l'istituto contraente rispondera', ex art. 1228 c.c., per fatto degli ausiliari, mentre il sanitario medesimo, per responsabilita' aquiliana, in base all'art. 2043 c.c. Depta c. Laudano e altro, in Resp. civ. e prev., 1994, 768 nota (PONTONIO).
[3] M. BILANCETTI, La responsabilità del chirurgo estetico, in Giur. it., 1997, 2, IV, 357 e segg.
[4] Cfr. Trib. di Roma, 10 ottobre 1992, P.T. - L.G.R, in Assicurazioni, 1993, II, 207; in Giur. it., 1993, I, 2, 238.
[5] Cfr. Cass. civ., sez. II, 8 agosto 1985 n. 4394,: Nel contratto di prestazione d'opera intellettuale, la violazione del dovere di informazione gravante sul professionista e' fonte di responsabilita' contrattuale e del conseguente obbligo di risarcimento del danno commisurato all'interesse c.d. positivo. Tale dovere investe oltre le potenziali cause di invalidita' d'inefficacia della prestazione professionale anche le ragioni che la rendono inutile o dannosa in rapporto al risultato (ancorche' non espressamente dedotto in contratto). Pollaci c. Bayali, in Giur. it., 1987, I, 1, 1136 (nota).
[6] A questo proposito può leggersi la sen. della Cass. civ. sez. III, 25 novembre 1994, n. 10014, ove si dice che : Un consenso immune da vizi non puo' che formarsi dopo aver avuto piena conoscenza della natura dell'intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione e dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, sicche' presuppone una completa informazione sugli stessi da parte del sanitario o del chirurgo, senza che possa distinguersi, sotto tale profilo, tra chirurgia riabilitativa e chirurgia estetica (con particolare riferimento alla chirurgia estetica, Cass. 8.8.1985, n. 4394; Cass. 12.6.1982, n. 3604). Solo cosi' il paziente potra' consapevolmente decidere se sottoporsi all'intervento o se ometterlo, in un bilanciamento tra vantaggi e rischi, specie allorche' si tratti di intervento non necessitato, come nel caso della chirurgia estetica. Sforza c. Milesi Olgiati, in Foro it., 1995, I, 2913 nota (SCODITTI); in Nuova giur. civ. commen., 1995, I, 937 nota (FERRANDO).
[7] Infatti vi fu nell'occasione contrasto tra gli stessi giudici del collegio.
[8] Si tratta della sen. Cass. civ., 9 aprile 1997, n. 3046, Veneziano - Amendola, in Giur. it., recentissime, IV dispensa, aprile 1997, commento di Vincenzo Carbone.
[9] Cfr., Ibidem: Nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica, il sanitario puo' assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest'ultimo non come un dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilita' consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie.



Pagina: 21 - L'importanza dell'assicurazione

L'importanza dell'assicurazione: tutela del professionista e garanzie per il paziente

L'assicurazione della responsabilità civile dei professionisti è acquisizione relativamente recente. Si comprenderà tale affermazione ponendo mente all'origine della professione intellettuale e alla sua genesi, specialmente con riguardo alla professione che qui interessa esaminare. Finché il medico, o l'avvocato, sono stati considerati come interpreti di arti che nulla o quasi avevano a spartire con forme di responsabilità professionale, anche l'esigenza di sottoscrivere contratti di assicurazione professionale è rimasta a margine della loro attività.
Il giudizio di responsabilità, un tempo inconciliabile [1] con la concezione antica della professione intellettuale, espressione della libertà morale e dell'indipendenza nelle decisioni del professionista, ora assume contorni del tutto diversi, e per certi aspetti pericolosamente opposti: le azioni di responsabilità si sono fatte sempre più frequenti, coerentemente con un'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale sempre più approfondita e intensa.
Con il progredire dell'aggravamento del rischio è aumentata anche la correlata sensibilità del medico: si stima [2] che circa il 55 % dei medici abbia provveduto ad assicurarsi personalmente; a loro si devono aggiungere le U.s.l. (ora A.s.l.) che sono corse ai ripari sottoscrivendo contratti di assicurazione.
L'evoluzione ha vissuto un moto di sviluppo tale che oggi le compagnie assicurative, maggiormente impegnate sul fronte dell'offerta di polizze sulla responsabilità professionale, lanciano addirittura un allarme: il sistema sembra essersi incamminato verso il collasso. I dati che vengono sottoposti all'attenzione del settore descrivono un quadro nel quale i ricavi derivanti dai premi versati sarebbero di gran lunga superati dagli esborsi, ai quali le assicurazioni sarebbero tenute in seguito a pronunce sempre più severe. Secondo gli ultimi dati disponibili [3], nel 1995 la raccolta premi della RC medica ammontava a 180 miliardi e i sinistri risarciti a 360, il doppio. Appena un anno dopo, invece, i premi raccolti sono sì arrivati a 250 miliardi, ma i risarcimenti hanno raggiunto i 750 miliardi, triplicando cioè il livello degli "esborsi" rispetto alle "entrate".
L'ANIA denuncia il peso che la RC del medico ha esercitato sui dati complessivi: i premi hanno rappresentato solo l'8,3% della raccolta della RC generale (pari a circa 2.981 miliardi), laddove i risarcimenti hanno inciso per il 23 % sul complesso dei sinistri pagati (3.242 miliardi). Come può essere agevolmente compreso, l'incidenza del rapporto medico paziente, e più generalmente la responsabilità professionale dei sanitari sta assumendo contorni, anche sotto il profilo assicurativo, di assolta emergenza.
Il sistema assicurativo dovrà correre ai ripari e calibrare al meglio la propria offerta sulla base di una rinnovata valutazione del rischio, anche in funzione dell'affidabilità dell'assicurato. In questo senso sarà molto importante individuare alcuni parametri di riferimento sulla scorta dei quali valutare attentamente la posizione -in particolar modo- della struttura da assicurare, sotto il profilo del rispetto degli standard di sicurezza e di capacità di gestione del rischio. Anche l'individuazione, all'interno della struttura, di un responsabile della gestione del sinistro, come già anticipato in apertura, sarà certamente d'aiuto per monitorare e gestire in modo più complesso, ma certamente più corretto e meno costoso, l'intero processo.
Quest'inversione di tendenza nella valutazione del rischio e nella personalizzazione dell'assicurazione avrà anche l'effetto di promuovere un salto di qualità delle stesse strutture verso standard di qualità sempre più elevati [4].
Un possibile elemento di ulteriore allarme, per il mercato assicurativo, potrebbe essere ricollegato dall'individuazione di precisi oneri connessi al consenso informato, soprattutto se si pone attenzione al rilievo che assume l'autonoma individuazione del dovere d'informare il paziente, connessa all'altrettanto autonoma sanzione per la violazione dello stesso.
Pretendere che la struttura si adegui alle nuove esigenze che richiamano l'attenzione sulla corretta descrizione del rischio, condotta sulla base dell'attenta analisi della dottrina e della giurisprudenza, appare condizione fondamentale per l'auspicabile adeguamento del sistema.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

Note:
[1] G. GENTILE, L'assicurazione della responsabilità civile dei liberi professionisti, in Resp. civ. e prev., XXXIV, Milano, 1969, 391 e segg.
[2] La fonte dei dati è il Sole 24ore del 23/09/1996, n. 261, pag. 6.
[3] La fonte è il Sole 24ore del Lunedì, del 05/01/1998, n. 4, pag. 5.
[4] Il pensiero è espresso in Giornale delle Assicurazioni, Settembre 1996, pag. 6.




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