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Pillole di EBM - capitolo 1

Categoria : scienze_varie
Data : 11 maggio 2006
Autore : admin

Intestazione :

Il primo di una serie di articoli che tratteranno di Evidence Based Medicine (EBM) e di interpretazione degli studi clinici.



Testo :

PREMESSE
L'esigenza di scrivere queste note nasce dalla constatazione che molti medici conoscono poco i rudimenti della statistica, la differenza tra studio osservazionale e studio di intervento, cosa si intende per rischio assoluto e rischio relativo, gli errori che possono inficiare i risultati di uno studio. Non sono un esperto di statistica per cui ho usato un linguaggio semplice e facilmente comprensibile, per prima cosa a me stesso, cercando di ridurre al minimo l'uso dei numeri (verso i quali molti hanno una preclusione naturale) e gli esperti troveranno probabilmente queste pagine elementari e con molte imprecisioni. Ma se il lettore avrà tratto anche solo l'impulso a meglio conoscere e comprendere i meccanismi che stanno alla base degli studi clinici il mio scopo sarà raggiunto.
Molte delle nozioni che seguiranno derivano dalla lettura, nel corso degli anni, di vari editoriali e commenti apparsi nelle maggiori riviste scientifiche internazionali, dalla consultazione del sito EQM (Evidenza Qualità e Metodo: http://www.evidenzaqualitametodo.it/pubblicazioni.htm) che contiene una serie di articoli molto approfonditi sulle tematiche relative alla interpretazione degli studi clinici, infine da una serie di colloqui avuti con il dr. Alessandro Battaggia e con il dr. Fausto Bodini, che da anni si occupano di EBM e che pubblicamente ringrazio.

PERCHE' SERVE LA MEDICINA BASATA SULLE EVIDENZE? L'INGANNO DELL'ESPERIENZA

La conoscenza della letteratura è sempre più indispensabile al medico per esercitare la sua professione. Un medico che pretendesse di curare i malati senza conoscere la letteratura scientifica è come il capitano di una nave che si barcamena in un oceano sconfinato senza conoscere le previsioni meteorologiche.
Tuttavia la mole di lavori pubblicati ogni anno rende impossibile la conoscenza di tutto quello che viene scoperto: nell’epoca della massima disponibilità di notizie il medico rischia l’effetto inondazione. E’ indispensabile quindi avere dimestichezza con un metodo generale che serva a filtrare le informazioni ritenendo quelle importanti e cestinando le altre.
Ma quali sono i mezzi che noi abbiamo a disposizione per determinare se un farmaco (o più in generale un intervento terapeutico) è efficace o non lo è?
In quale modo possiamo capirlo? Non potrebbe bastare l'esperienza clinica?
Qualcuno potrebbe dirmi: in fin dei conti io faccio questo lavoro da 20-30 anni, possibile che non serva a niente tutto il sapere e la fatica che ho accumulato nel corso della carriera?

PERCHE' L'ESPERIENZA NON PUO' ESSERE LA BASE CHE CI PERMETTE DI GIUDICARE DELL'EFFICACIA DI UN NOSTRO INTERVENTO?

Non voglio dire che l'esperienza clinica sia inutile, anzi essa è importantissima nel processo diagnostico e in quello di gestione globale del paziente, tuttavia ci può ingannare quando dobbiamo giudicare della efficacia di un nostro intervento.
Un vecchio medico di famiglia si divertiva a raccontare la seguente storiella, che giurava essere vera.
In una famiglia di contadini si ammala il nonno, ormai avanti negli anni, di una tosse persistente che non se ne voleva andare, per cui pensano bene di chiamare il medico. Costui arriva, come vuole la tradizione a bordo di una malandata automobile dopo aver attraversato una strada polverosa immersa tra i campi di frumento, visita il nonno, sentenzia che si tratta di una semplice tracheite e prescrive uno sciroppo per la tosse, raccomandando alla figlia del vecchio contadino malato di somministrarne regolarmente un cucchiaio ogni otto ore. "Già che c'è, dottore, dia un'occhiata anche al mio bambino, che da qualche giorno mangia poco e si lamenta di mal di pancia". Il buon medico visita anche il piccino, tranquillizza la madre che si tratta di semplice indigestione e prescrive un farmaco in supposta, da somministrare per via rettale ogni dodici ore.
Passano circa due settimane e un mercoledì, al mercato, il dottore incontra la figlia del vecchio contadino e si informa di come va il padre. "Benissimo" risponde la donna "quelle supposte che gli avete prescritto gli hanno fatto benissimo, è guarito in pochi giorni, anche se a dire la verità è stata una faticaccia a fargliele accettare. Anche mio figlio è guarito, lo sciroppo ha fatto miracoli".
Questo aneddoto dimostra una cosa che ogni medico sul campo tocca spesso con mano: "la guarigione non significa nulla" e in medicina non è vero il detto "post hoc ergo propter hoc".
L'esperienza di ciascuno di noi è sicuramente importante per il lavoro di tutti i giorni, ma non può essere la base per poter giudicare dell'efficacia di un farmaco o di un trattamento. Per poterlo fare abbiamo bisogno di un altro metodo, e questo metodo è rappresentato dagli studi clinici.
E' evidente infatti che l'esperienza non può venirci in aiuto quando si tratta di farmaci che non abbiamo mai usato perché appena immessi in commercio. In questi casi su cosa dobbiamo basarci? Chiedere ai nostri amici informatori del farmaco non è molto realistico. Sarebbe come domandare all'oste se il vino che vende è buono. Quale oste direbbe che quello venduto nell'enoteca accanto è migliore?
Ma anche per i farmaci che usiamo da più tempo i nostri sensi finiscono con il giocarci brutti scherzi, una sorta di "inganno dei sensi".

L'INGANNO DEI SENSI: CASISTICA LIMITATA

Supponiamo di avere a disposizione quattro farmaci per abbassare la pressione, il farmaco A, B, C, D.
Supponiamo anche che dopo 5 anni di trattamento si verifichino i seguenti casi:
- con il farmaco A si hanno 40 infarti ogni 1000 pazienti trattati
- con il farmaco B si hanno 50 infarti ogni 1000 pazienti trattati
- con il farmaco C si hanno 40 infarti ogni 1000 pazienti trattati
- con il farmaco D si hanno 30 infarti ogni 1000 pazienti trattati
Mediamente un medico ha in carico 300 soggetti ipertesi, e sempre per pura probabilità, supponiamo che i pazienti siano così distribuiti:
- 75 assumono il farmaco A
- 75 assumono il farmaco B
- 75 assumono il farmaco C
- 75 assumono il farmaco D
In base a quanto detto il medico avrebbe la possibilità di registrare, dopo 5 anni:
- 3 infarti nel gruppo che assume il farmaco A
- 3,75 infarti nel gruppo che assume il farmaco B
- 3 infarti nel gruppo che assume il farmaco C
- 2,25 infarti nel gruppo che assume il farmaco D
Risulta chiaro senza bisogno di ulteriori spiegazioni che in base alla sua casistica il medico non potrebbe accorgersi della diversa efficacia dei quattro farmaci nel ridurre il rischio di infarto, perché imputerebbe la differenza, così piccola, al caso, mentre sappiamo in realtà che il farmaco B aumenta il rischio del 25% rispetto ad A e C e il farmaco D riduce lo stesso rischio del 25% sempre rispetto ad A e C.
In questo primo esempio la piccolezza del campione trattato porta fuori strada il medico, il quale sarà portato a ritenere che i quattro farmaci siano grosso modo equivalenti.

L'INGANNO DEI SENSI: SELEZIONE DEI PAZIENTI

Supponiamo di avere a disposizione due farmaci per curare l'ipertensione, il primo farmaco (farmaco A) è noto per essere efficace ma provoca frequentemente disfunzione erettile, il secondo farmaco (farmaco B) è pure esso efficace e provoca disfunzione erettile in una percentuale di casi inferiore ma è poco maneggevole negli anziani perché può accentuare i problemi di memoria.
Può succedere quindi che se devo trattare un iperteso giovane (in cui la disfunzione erettile è più disturbante) sarò portato ad usare il farmaco B mentre se devo trattare un anziano userò più probabilmente il farmaco A. Se, dopo un certo numero di anni, andassi a controllare i miei ipertesi troverei probabilmente che chi prende il farmaco A va incontro ad una percentuale di infarto o ictus superiore a quella di chi prende il farmaco B. Erroneamente sarei portato a ritenere che il farmaco A è meno efficace del farmaco B nel ridurre le complicanze dell'ipertensione (infarto e ictus). In realtà la mia analisi è viziata fin dall'inizio per il fatto di aver somministrato prevalentemente il farmaco A a soggetti più anziani e quindi di per sé più propensi a sviluppare le complicanze della malattia ipertensiva rispetto ai più giovani. Al contrario ho somministrato il farmaco B a pazienti più giovani, di per sé meno soggetti ad avere le complicanze dell'ipertensione.
In gergo tecnico si dice che vi è un "bias di selezione". Vedremo meglio in seguito di che cosa si tratta. L'esempio che ho fatto è abbastanza grossolano, ne vedremo in seguito altri presi da studi clinici veri, ma per il momento è importante capire che la mia esperienza in questo caso può portarmi a conclusioni errate perché, in modo più o meno inconscio, io "seleziono" i pazienti da trattare.

L'INGANNO DEI SENSI: EVOLUZIONE NATURALE DELLA MALATTIA

Le infezioni delle alte vie respiratorie sono molto frequenti e quasi sempre di natura virale, hanno un decorso autolimitato a 7-10 giorni (in genere) e, ovviamente, gli antibiotici sono inutili. Prendiamo ora un giorno qualsiasi di una giornata invernale e vediamo cosa succede in un affollatissimo ambulatorio: un medico sta visitando un paziente che lamenta da 3-4 giorni tosse, raucedine, mal di gola e scolo nasale. Dopo aver visitato scrupolosamente il malato il medico arriva alla conclusione di essere di fronte ad una banale virosi respiratoria e prescrive una terapia sintomatica. Dopo tre giorni il paziente richiede una nuova visita perché la tosse e il raffreddore persistono e la terapia si è dimostrata inefficace. Il paziente chiede al medico se non sia il caso di assumere un antibiotico. Il curante, un po’ perché teme di aver sottovalutato il quadro, un po’ perché non vuol entrare in contrasto con le richieste dell'assistito, finisce con accondiscendere e ordina un antibiotico. Dopo tre giorni il paziente guarisce. E' stato l'antibiotico? Probabilmente no, semplicemente l’infezione virale ha fatto il suo naturale decorso. Eppure nell'immaginario del paziente e nell'esperienza del medico si fa strada l'idea erronea che l'antibiotico serva nelle tracheo-bronchiti. Al contrario studi clinici effettuati con il sistema della randomizzazione e del doppio cieco (vedremo in seguito cosa significano queste buffe espressioni) hanno dimostrato l'opposto, e cioè che nelle flogosi respiratorie l'antibiotico, di solito, è inutile.

L'INGANNO DEI SENSI: L'IMPORTANZA DEL PLACEBO

Molti anni fa frequentavo il reparto medicina di un piccolo ospedale periferico. C'era un paziente affetto da asma bronchiale che si ricoverava con la precisione di un orologio svizzero ad ogni riacutizzazione per "farsi una flebo" di aminofillina e cortisonici.
Una mattina eravamo tutti in riunione nello studio del primario quando entra trafelata un' infermiera, tutto preoccupata, a riferirci che aveva messo la flebo di fisiologica all'asmatico (così lo conoscevano in reparto), che guarda caso si era ricoverato proprio quella mattina, flebo ordinata dal medico di guardia, ma poi si era dimenticata di iniettarci dentro i farmaci perché chiamata d'urgenza per un altro paziente. Come un sol uomo ci precipitiamo dall'asmatico e lo troviamo sorridente che tiene una quasi conferenza ai suoi vicini di letto, la flebo ormai del tutto consumata. Il primario gli chiede come sta e lui, serafico, risponde che sta benissimo e che anche questa volta "la flebo miracolosa" l'aveva vinta sulla sua malattia.
Naturalmente non è neppure ipotizzabile che la semplice acqua possa essere efficace nella cura dell'asma ma la cosa si spiega se si tiene conto che si trattava di un paziente molto emotivo e suggestionabile e dell'effetto placebo dovuto alla flebo stessa e a tutta la "messa in scena" che la circonda (boccione, tubicini, ago infilato nel braccio, ecc.). Un osservatore esterno avrebbe potuto però trarre l' errata conseguenza che la semplice acqua di rubinetto è una cura per l'asma.

COSA FARE SE L'ESPERIENZA CI INGANNA?

Ma allora, come possiamo sapere se un farmaco funziona di più e meglio dell'acqua di rubinetto? Come possiamo eliminare l'effetto placebo? Come possiamo uscirne se l'esperienza, anche la più vasta, può giocarci di questi brutti scherzi? Cosa dobbiamo fare?
La scienza ha elaborato dei metodi per oggettivare ( o meglio per CERCARE di rendere oggettivo) l'effetto di un farmaco o di un intervento. Questi metodi si chiamano studi clinici. In altre parole la medicina ha cercato di darsi una dignità scientifica fondata su di un metodo che sia oggettivo e ripetibile e che la possa, in qualche modo, togliere dalla volubile soggettività dell'operatore e dalla soggettività del paziente. Non è tutto oro quello che luce e ovviamente la medicina è una scienza sui generis diversa dalla matematica: non sempre in medicina 2 + 2 = 4, qualche volta può essere 3 o 5. Tuttavia lo sforzo intrapreso in questi ultimi decenni, ha permesso di costruire un corpus di conoscenze notevoli. Le quali però, e questo è un punto importantissimo che non va mai dimenticato, valgono a livello di popolazioni e di numeri statistici, ma vanno poi applicate, tagliate su misura, per ogni singolo paziente che ci sta davanti. In altre parole i risultati degli studi vanno “trasferiti” nella pratica del mondo reale e in quel particolare paziente. Ma avremo modo di tornare con più calma su questi aspetti.
Riprendiamo invece il discorso sugli studi clinici che, come abbiamo detto, sono il metodo che la medicina si è data per avere pure essa, al pari di altre branche del sapere, una veste scientifica. Quanti tipi di studi esistono?
Per fare le cose molto semplici diremo che ne esistono di due tipi. Gli studi del primo tipo, detti anche studi di intervento, sono noti come studi randomizzati e controllati (o anche con la sigla inglese RCT: randomized controlled trial); quelli del secondo tipo sono detti studi osservazionali.
In che cosa si distinguono, come fare per capire se si tratta di studi del primo o del secondo tipo, quali sono i loro pregi e i loro difetti e altre quisquilie del genere sarà argomento dei prossimi capitoli.

Renato Rossi



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