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Farmaci nuovi: valgono quello che costano?


Categoria : scienze_varie
Data : 21 settembre 2006
Autore : admin

Intestazione :

I farmaci di nuova introduzione sono spesso molto più costosi dei vecchi, ma solo rararmente vi è una reale e importante maggiore efficacia.



Testo :

L'ultimo numero di Therapeutics Letter [1] affronta il problema della spesa farmaceutica per medicinali di nuova introduzione.
Il bollettino inizia citando un articolo del BMJ [2] in cui sono state analizzate le ragioni dell'aumento della spesa in Canada dal 1993 al 2003, aumento che è passato dai 141 dollori ai 316 dollari pro capite. L'aumento è dovuto essenzialmente alla introduzione nel mercato di nuovi farmaci e al conseguente spostamento delle prescrizioni verso di essi. Tuttavia solo 68 dei nuovi farmaci sono stati giudicati realmente innovativi mentre per la quasi totalità (ben 1005 prodotti) non c'erano sostanziali vantaggi rispetto ai medicinali già in commercio. Circa l'80% della spesa era imputabile ai cosiddetti "farmaci me-too" o farmaci fotocopia. Da considerare che, mediamente, un farmaco me-too nuovo costa 2,5 volte di più di un farmaco usato per la stessa patologia ma già in commercio.
Secondo una revisione della rivista francese Prescrire solo il 2,2% dei nuovi farmaci rappresenta una vera innovazione terapeutica; nel 7% dei casi il nuovo farmaco porta ad alcuni vantaggi senza cambiare la pratica terapeutica già esistente; nel 15% dei casi il vantaggio terapeutico dei nuovi farmaci è stato giudicato minimo e nel 69% dei casi nullo rispetto alle alternative più datate; nel 4% dei casi il giudizio rimene sospeso perchè gli studi esistenti non permettono di trarre conclusioni affidabili.
Therapeutics Letter conclude che nella maggior parte dei casi i nuovi farmaci immessi in commercio non rappresentano un reale progresso rispetto ai vecchi e che una prescrizione oculata permetterebbe di allocare risorse sanitarie in modo più appropriato.

Fonti:
1. Therapeutics Letter n. 59. Disponibile al sito: http://www.ti.ubc.ca/pages/letter59.htm.
2. Morgan SG et al. “Breakthrough” drugs and growth in expenditure on prescription drugs in Canada. BMJ 2005;331:815-816.

Commento di Renato Rossi

Quanto scrive Therapeutics Letter non è una novità ed è del tutto evidente che laddove esistano alternative farmacologiche altrettanto efficaci e più economiche è verso di esse che deve rivolgersi la prescrizione dei medici. Nel nostro paese numerose aziende sanitarie stanno stipulando o hanno stipulato patti aziendali con i medici di Medicina Generale in cui, tra le altre cose, viene prevista anche una prescrizione farmacologica "appropriata" che privilegi alternative più economiche laddove esse siano altrettanto efficaci e sicure di quelli più costose. Tuttavia mi sembra che questo modo di affrontare la questione sia paragonabile al bambino che si accinge a vuotare l'oceano con il secchiello. La spinta dell'industria verso i farmaci più recenti e costosi è e sarà innarrestabile e d'altra parte l'industria fa il suo lavoro e non la si può demonizzare per questo. Però il bollettino canadese sembra ignorare il ruolo delle autorità regolatorie e di quelle che stabiliscono i prezzi dei nuovi farmaci. Per dirla con estrema chiarezza: se un nuovo farmaco non porta a nessun vantaggio rispetto a quelli più vecchi già in uso perchè se ne autorizza l'immissione in commercio ad un prezzo talora molto più elevato?
Delle due l'una: o il nuovo farmaco è un progresso reale e allora merita di essere premiato anche dal punto di vista del prezzo di vendita oppure non porta a nessun vantaggio e allora non si vede perchè dovrebbe costare di più. Se è vero che un farmaco me-too costa in media 2,5 volte di più di un farmaco di riferimento, non vi è alcuna responsabilità in chi ne ha autorizzato il prezzo e soprattutto la prescrivibilità a carico del Servizio Sanitario pubblico? Mutatis mutandis sarebbe come se l'aviazione acquistasse due aerei perfettamente identitici da due costruttori diversi, uno ad un prezzo più che doppio rispetto all'altro.
Credo che chiunque, dotato di minima capacità di raziocino, non avrebbe difficoltà a definire tale comportamento completamente illogico. Mi sembra charo che se si deve parlare di appropriatezza e di giusta distribuzione delle risorse equità vorrebbe che ad adottarla fossero in primis i generali e i colonnelli. Ma di questo nessuno sembra occuparsi (e viene da chiedersi il perchè), mentre tutti sono pronti a chiedere responsabilità e sacrifici al povero soldato semplice in prima linea. Nessuno dei medici vuol sottrarsi a quello che è un preciso dovere verso la comunità (perchè quando si prescrive si usano risorse di tutti) ma francamente dare responsabilità solo ad essi mi sembra una via d'uscita troppo facile e che rischia di non portare molto lontano.

Commento di Luca Puccetti

Perché prendersela con il soldato se il generale è distratto ? Ha ragioni da vendere Renato Rossi a porre il problema. Da una parte si assiste al comportamento, apparentemente incomprensibile, di governi ed agenzie regolatorie che premiano con prezzi elevati farmaci scarsamente innovativi, dall'altra i vassalli dei governi ossia le Regioni, le ASL, premono sul servo della gleba-medico affinché non prescriva tali farmaci. Si fanno L-G con la partecipazione di esperti che solitamente penalizzano i nuovi farmaci non innovativi, ma poi gli stessi esperti scrivono saggi, libri, partecipano a convegni in cui si mettono in risalto gli aspetti positivi dei nuovi farmaci così scarsamente innovativi. La questione però è molto più complessa di come appare guardandola nell'ottica del solo aspetto medico-scientifico. Il farmaco è un prodotto di alta tecnologia che deve essere venduto, ultimo anello di una lunga catena che parte dal cervello di ricercatori, dall'esperienza organizzativa, dalla capacità manageriale e promozionale. Dietro al farmaco non ci sono solo gli operai della fabbrica, che perderebbero il posto di lavoro in caso di grave crisi, ma un intero Know-how, frutto del miglioramento competitivo di anni che ha selezionato le migliori capacità di ricerca, gestionali, promozionali, etc. Chi deve guardare con occhio lungimirante e saggio agli equilibri generali e non solo ad un settore, o addirittura ad una piccola ASL, sa bene che un settore strategico, come quello farmaceutico diventa produttivo dopo anni ed anni in cui si investe in formazione, selezione del personale, tecnologia, controlli, miglioramenti dei disciplinari per la sicurezza, etc. Per rovinarlo invece bastano pochi mesi od anni. I veri farmaci innovativi sono pochi e dunque tutti gli altri mee-too a cosa servono ? La diversità farmacologica è certamente un vantaggio per la comunità dal punto di vista medico in quanto avere più molecole significa poter allargare la base dei pazienti che possono trarne maggior beneficio per riduzione del numero degli intolleranti, per risposte più brillanti per riduzione delle resistenze batteriche o a causa di particolari accoppiamenti farmacometabolici o farmacodinamici con l'ospite tanto è vero che da anni si parla di farmacogenomica e terapie personalizzate. Ma oltre al valore della farmacodiversità il sistema attuale serve mantenere in vita un settore che produce, in sicurezza, rare pepite d'oro che cambiano o migliorano la vita a dei pazienti e che sostiene un grande indotto ad alta tecnologia. Se si registrassero solo le molecole realmente innovative mantenendo l'attuale contesto, il sistema morirebbe o sarebbe ridimensionato a tal punto da non poter produrre più nulla di significativo. Le molecole esistenti sono infatti già molto buone, per trovare di meglio occorrono investimenti colossali ed i rischi sono altissimi, si pensi alla vicenda coxib. Quale broker consiglierebbe di investire in un gioco d'azzardo? Le vere molecole innovative costerebbero fortune e potrebbero essere prescritte solo ad un numero limitatissimo di pazienti rendendo i vantaggi potenziali molto meno significativi a livello di comunità per il piccolo numero di soggetti trattati. Insomma se si seguisse la logica proposta da alcuni di mantenere l'attuale contesto e di non registrare le molecole non innovative o di concederle ad un prezzo basso il sistema diventerebbe poco remunerativo ed entrerebbe rapidamente in declino. D'altro canto non si intravede, se non in nuce, una politica diversa, ossia una ricerca farmacologica pubblica applicata, ed una conseguente organizzazione produttiva gestionale e produttiva pubblica. Poiché occorrono investimenti giganteschi solo paesi ricchi come gli stati Uniti, Giappone, ed Inghilterra possono avere le risorse per produrre prodotti innovativi ed in tali paesi il modello economico è di tipo capitalistico-occidentale e dunque le logiche sono quelle del capitale azionario di rischio che deve dare ritorni agli azionisti che altrimenti dirotterebbero, con buona pace dei bambini malati, verso il petrolio, piuttosto che il mercato immobiliare. Dunque questo sistema attuale rappresenta un punto di equilibrio, precario e con tante contraddizioni, che permette di avere un settore farmaceutico mondiale capace di fornire utili e dunque di attrarre capitali e di poter disporre delle risorse necessarie a svilupparsi ancora e conseguentemente a trovare, produrre e vendere nuove, rare pepite d'oro. Certamente occorrono dei cambiamenti perché il sistema sta diventando sempre più conflittuale. Prima di tutto occorre che la responsabilità delle scelte sia attribuita solo a chi abbia sufficiente apertura mentale e consapevolezza della complessità degli equilibri e pertanto ogni tentativo di spostare in periferia il livello decisionale su questi temi deve essere osteggiato con la massima determinazione. Il livello periferico non ha infatti una sufficiente visione di insieme dei problemi e spesso presenta pesanti conflitti di interesse per gli incentivi economici legati ai risparmi da conseguire. La stessa EBM ha contribuito a rendere più evidente il problema. Pochi sanno che la EBM è stata inventata dalle stesse ditte farmaceutiche che volevano evidenziare e sostanziare con metodi scientifici e statistici vantaggi marginali tra prodotti concorrenti. Adesso la EBM contribuisce a sostanziare ed avvalorare che i nuovi farmaci solo raramente sono superiori a quelli già in commercio. L'aver, giustamente, spostato l'attenzione dagli indici surrogati agli eventi ha reso molto più lungo poter disporre di dati convincenti circa la superiorità di un prodotto rispetto ad una moltitudine di farmaci già presenti sul mercato da anni che sono già corredati dei dati sugli eventi primari. Tutto questo ha accorciato, a causa delle leggi sul brevetto, i tempi di vendita in esclusiva e dunque eroso i potenziali guadagni. Ebbene la proposta, che già altrove abbiamo avanzato, è di allungare i tempi di sfruttamento dei brevetti. Le ditte "serie" continuerebbero a sviluppare i loro farmaci breakthrough fino alle estreme potenzialità, supportandoli con studi ampi e rigorosi. Per perequare si potrebbe trovare un costo, proporzianalmente più basso con l'andar del tempo, in assenza di nuovi ed importanti scoperte circa l'uso del farmaco. Se tutti i guadagni, pur singolarmente ridotti, andasserro solo al detentore del brevetto la collettività non ci rimetterebbe, e ci sarebbe interesse da parte del detentore a continuare a sviluppare il farmaco. In un tale contesto si potrebbe davvero richiedere da parte delle Agenzie regolatorie che per l'approvazione di un nuovo farmaco ci siano prove di efficacia e sicurezza, non solo in termini di eguaglianza con quelli già in commercio, ma di superiorità. Se per i farmaci adesso vogliamo molte più prove di sicurezza e di efficacia su end points primari, è chiaro che occorre molto più tempo per dare dimostrazione di ciò. Nella prospettiva di un lungo periodo brevettuale le ditte farmaceutiche immetterebbero in commercio farmaci con maggiori prove di efficacia e sicurezza senza cercare dei doppioni di quelli a cui sta scadendo il brevetto. Le risorse verrebbero incanalate non nella commercializzazione di mee-too, ma nella ricerca di veri farmaci innovativi. Gli Enti regolatori potrebbero imporre prove più severe di quanto succede adesso, proprio perchè una volta approvato il farmaco potrebbe essere venduto per lungo tempo e dunque eventuali ritardi nell'approvazione, motivati dalla richiesta di prove di efficacia sul campo su end point primari e di sicurezza nell'impiego su vasta scala, non sarebbero drammatici in termini di perdite economiche. Il re faccia il re senza demandare a valvassini ed interessati valvassori le sue responsabilità e le sue scelte.

Ulteriore commento di Renato Rossi

Capisco i timori dell'amico Luca Puccetti ma non li condivido. Anzitutto non credo che l'allungamento del brevetto sarebbe la soluzione, perchè le ditte continuerebbero comunque a produrre farmaci me-too che richiedono pochi investimenti e rendono molto, per il semplice motivo che si tratta di una pura legge di mercato. Con in più l'aggravante che si ritarderebbe la riduzione dei prezzi generata dall'entrata in commercio del farmaco generico.
In secondo luogo il ragionamento che, in soldoni, dice "Se voi servizi sanitari e assicurazioni mi acquistate i me-too a questi prezzi bene altrimenti saremo costretti a licenziare personale e non avremo più fondi per portare avanti la ricerca delle perle rare", più che ad un capitalismo moderno, sembra richiamarsi ad un capitalismo mascherato di stato, che, almeno a parole, nessuno desidera. Non è compito dei vari servizi sanitari salvare i bilanci azionari delle ditte farmaceutiche. Ma poi, siamo sicuri che assisteremmo ad una debacle finanziaria? Il dubitativo, a mio parere, è d'obbligo. Forse sarebbe preferibile portare il ragionamento alle estreme conseguenze: rimborsare i me-too e i farmaci doppione o quelli che non portano a nulla di nuovo nella pratica terapeutica a prezzi simili a quelli dei farmaci di riferimento, e con i fondi risparmiati finanziare ricerche "indipendenti" indirizzate alla realizzazione di farmaci davvero innovativi e necessari. Se è vero che l'industria può permettersi la ricerca (e guadagnarci pure) grazie ai prezzi elevati dei farmaci fotocopia, tanto vale che lo facciano direttamente i vari servizi sanitari o chi per loro, con il vantaggio di finanziare ricerche che non avrebbero solo scopi di lucro ma potrebbero anche riguardare farmaci di nicchia per curare malattie rare e orfane di trattamenti efficaci, verso le quali le ditte non hanno alcun interesse a rivolgersi. Ma potrà mai succedere?



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