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Fibrosi cistica e screening neonatale


Categoria : pediatria
Data : 24 maggio 2008
Autore : admin

Intestazione :

Lo screening a 2 mesi della fibroisi cistica rispetto alla diagnosi clinica si associa a soggetti più alti e a ridotta morbosità, ma non ad una migliore funzionalità polmonare.



Testo :

Uno studio realizzato nel Regno Unito si è posto l’obiettivo di confrontare rispetto allo sviluppo di esiti e al tipo di trattamento instaurato i pazienti con fibrosi cistica diagnosticati attraverso screening con quelli identificati clinicamente.

Gli studi sinora condotti sui possibili benefici dello screening neonatale per fibrosi cistica (CF), ad eccezione di uno soltanto nordamericano (Farrel PM, N Engl J Med 1997;337:963-969), sono tutti studi retrospettivi su coorti storiche. Il presente rimane uno studio retrospettivo, basato su dati del registro inglese dei pazienti CF, ma con un approccio metodologico del tutto originale. Questo del metodo è forse quello che merita in realtà particolare considerazione. Infatti, rimane tuttora assai arduo condurre un trial clinico di tal genere in chiave prospettica ed ogni studio retrospettivo è estremamente carico di bias tanto da rendere ancora assai controversi i risultati sinora ottenuti, tutti a sostegno di vantaggi clinici significativi della diagnosi precoce attraverso screening neonatale rispetto alla diagnosi clinica per sintomi.
In questa ricerca sono da sottolineare alcuni criteri principali mirati a rendere omogenee e comparabili le coorti considerate:
- Inclusione di pazienti di età 1-10 anni (per contenere l’effetto età e l’effetto variazioni strategie terapeutiche nel tempo)
- Solo pazienti omozigoti per la mutazione DF 508 (per contenere l’effetto del genotipo)
- Valutazione degli outcomes sui pazienti con dati clinici registrati nel corso di tre anni, dal 2000 al 2002 (maggiore compiutezza nella raccolta dati e sufficiente età per un bilancio clinico).

La popolazione così identificata (1167 pazienti) è stata suddivisa in tre coorti in base alla modalità di diagnosi: diagnosi per screening, diagnosi clinica precoce (entro i 2 mesi di vita ed incluso l’ileo da meconio), diagnosi clinica tardiva (dopo i 2 mesi di vita). Data la notevole disparità numerica tra le coorti si è passati alla ridefinizione delle coorti attraverso un processo di matching randomizzato tra i pazienti delle coorti originali in modo da rendere le tre coorti numericamente eguali ma anche omogenee per età e per anno di raccolta dati. In una prima analisi trasversale, ogni caso della prima coorte doveva avere un caso di eguale età e di eguale anno di raccolta dei dati utilizzati (utilizzando l’anno più recente di raccolta), ottenendo così tre coorti di 133 soggetti ciascuna. Tuttavia, questo sistema basato sull’anno più recente di raccolta generava una preponderanza di soggetti di 10 anni e quindi il rischio di selezionare una popolazione clinicamente più grave (data la caratteristica di progressione della malattia). Si è così introdotta una seconda analisi che accettava nel matching tutti i dati clinici inclusi nei 3 anni di rilevazione considerati (2000-2002), distribuiti peraltro in misura eguale tra le diverse età delle coorti: le coorti così ricomposte risultavano quindi di 291 soggetti ciascuna. Come si vede, un procedimento assai complesso che doveva, secondo gli autori, contenere se non eliminare i numerosi bias che un tale studio poteva comportare.

Quattro outcomes clinici erano considerati e valutati in termini di mediana: zeta score di altezza e peso, score clinico sec. Shwachman, FEV1 % predetto (6 anni e oltre). Inoltre erano valutati in termini di mediana i totali delle terapie di lungo termine (oltre 3 mesi).

Combinati insieme, i risultati ottenuti dai due tipi di analisi sono stati i seguenti: i pazienti diagnosticati per screening erano più alti, avevano una ridotta morbosità (score clinico più alto), ricevevano meno trattamenti rispetto alla coorte dei soggetti diagnosticati tardivamente. Tuttavia i primi non mostravano rispetto ai secondi sostanziali differenze nella funzione polmonare.

Non sono state invece trovate differenze né sul piano nutrizionale né su quello dell’intensità di terapie tra i diagnosticati per screening e i diagnosticati per sintomi entro i due mesi.

Per tutte le coorti comunque un più alto numero di terapie di lungo termine era associato con lo stato di infezione da Pseudomonas aeruginosa, con maggior impatto per l’infezione cronica rispetto all’infezione intermittente o all’assenza di infezione.

Gli autori sostengono alla fine, sulla base di dati discriminanti per soglia, che il limite dei 2 mesi di età discrimina sensibilmente la prognosi dei soggetti diagnosticati precocemente rispetto a quella dei soggetti diagnosticati tardivamente.

Fonte: Pediatrics 2007;119:19-28.

Commento

a cura del Prof. Gianni Mastella, Direttore Scientifico della Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica-Onlus di Verona.

È assai apprezzabile lo sforzo di questi studiosi per rendere informativa una serie di dati storici, ma i bias che vengono denunciati negli ormai numerosi studi di coorte retrospettivi si ritrovano anche in questo studio, forse più mitigati che in precedenza. Per citarne alcuni, si consideri il problema della rappresentatività delle coorti. Mentre la coorte degli screenati si può assumere rappresenti la quasi totalità dei CF appartenenti alla popolazione sottoposta a screening (i sistemi di screening CF attuali hanno alta sensibilità, tra il 90 e il 95%), le due coorti dei diagnosticati per sintomi non sono rappresentative di tutta la popolazione CF da cui provengono. La diagnosi clinica infatti identifica solo una parte, anche se consistente, dei malati: sfuggono infatti i casi molto gravi deceduti prima della diagnosi, sfuggono alle età considerate nello studio i casi non ancora pervenuti a diagnosi in quanto forme lievi ad espressione clinica molto tardiva o forme atipiche, sfuggono i casi provenienti da aree in cui l’abilità diagnostica, anche nel Regno Unito, è ancora debole. Quindi il rischio di un bias di selezione in queste due coorti è più alto che nella coorte degli screenati. Problematica appare l’esclusione di 59 casi con storia significativa di familiarità: sintomatici o no dovevano essere inclusi nelle coorti di diagnosi clinica precoce o tardiva sulla base dell’età reale di diagnosi. Il match randomizzato “caso-controllo”, per rendere le coorti più comparabili, è l’aspetto più originale di questo tipo di indagine epidemiologica retrospettiva ma c’è da chiedersi se questo artificio in realtà non impoverisca il significato informativo della coorte integra e non lasci forse alla coorte degli screenati (molto più piccola delle altre quella originale) un vantaggio numerico non trascurabile, a dispetto della randomizzazione.

Ma, a monte di tutto, c’è da chiedersi se i dati di un registro nazionale siano la base più adatta per una indagine di questo tipo, ben sapendo i limiti di affidabilità dei dati registrati, attraverso un tale sistema, da molti centri, assai disomogenei sotto molti aspetti della care e della qualità di rilevazione dei dati: delle caratteristiche e dei criteri di controllo qualità del registro peraltro gli autori della ricerca non ci danno informazioni. Tanto più che alcuni degli outcomes considerati peccano inevitabilmente di grande soggettività da parte degli esaminatori, come lo score clinico di Shwachman, la durata dei trattamenti, il tipo di infezione da Pseudomonas.
Sui risultati, comunque ottenuti, merita un commento il fatto che le due coorti a diagnosi precoce, per screening o per sintomi, presentano nel corso dei primi 10 anni di vita un vantaggio, rispetto ai pazienti con diagnosi tardiva, sul piano nutrizionale, sull’intensità delle cure e sui livelli di morbosità complessiva, ma non si differenziano invece per quanto riguarda la funzionalità respiratoria. Gli autori esprimono su questo un giudizio di soddisfazione affermando che a pari età si è ottenuta nei diagnosticati precoci una situazione respiratoria equivalente a quella dei diagnosticati tardivi ma a un prezzo minore, con meno morbilità e meno cure. È proprio vero che non vi sono limiti al bisogno di consolarsi: noi potremmo dire che forse è sulle età successive che si può misurare più correttamente l’impatto della modalità di diagnosi sulla situazione polmonare.

Una volta ancora su questa tematica dello screening neonatale emerge il bisogno di trial prospettici controllati e randomizzati, ma si tratta di un’impresa nella quale l’unico trial di questo tipo (Farrel 1997, aggiornato nel 2001, Pediatrics 2001;107:1-13) ha comunque mostrato le sue difficoltà e le sue debolezze. Al momento comunque vi è diffuso e fiducioso consenso che lo screening neonatale CF è benefico e comunque, appare chiaro che la possibilità di modificare la storia naturale della malattia con eventuali nuove strategie terapeutiche è fortemente legata alla disponibilità di una diagnosi molto precoce, prima dell’instaurarsi di condizioni patologiche irreversibili.”

Sono state pubblicate delle linee guida che affrontano il tema dell’implementazione dei programmi di screening neonatale della fibrosi cistica. Si tratta dei risultati di un workshop realizzato negli Stati Uniti e sponsorizzato dalla Cystic Fibrosis Foundation di Bethesda.

Referenze

1) Comeau AM, Accurso FJ, White TB, et al. Guidelines for Implementation of Cystic Fibrosis Newborn Screening Programs: Cystic Fibrosis Foundation Workshop Report. Pediatrics 2007;119:e495-e518.

Contenuto gentilmente concesso da: Associazione Culturale Pediatri (ACP) - Centro per la Salute del Bambino/ONLUS CSB - Servizio di Epidemiologia, Direzione Scientifica, IRCCS Burlo Garofolo, Trieste; tratto da: Newsletter pediatrica. Bollettino bimestrale- Dicembre 2006-Gennaio 2007, Volume 4, pag. 25-27.



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