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Resistenza all’aspirina e rischio di morbidità cardiovascolare

Categoria : cardiovascolare
Data : 27 settembre 2008
Autore : admin

Intestazione :

I pazienti definiti “resistenti” all’aspirina sono soggetti ad un rischio 4 volte più elevato di eventi avversi cardiovascolari maggiori, indipendentemente dal metodo usato per quantificare la resistenza.



Testo :

L’aspirina, i cui benefici nella riduzione di outcome cardiovascolari (infarto del miocardio, stroke e decessi vascolari in prevenzione secondaria) sono indiscutibili, può non essere efficace in alcuni soggetti. Si è cercato di stabilire se questa “resistenza” clinica all’aspirina possa essere dose-dipendente, se esistano soggetti poco responsivi a questo farmaco per predisposizione genetica o, più semplicemente, scarsamente aderenti alla terapia.
Al momento, la ricerca si è soprattutto focalizzata sulla dimostrazione di una reale esistenza di una resistenza all’aspirina e se possa rappresentare un fattore prognostico sfavorevole. Tra l’altro, non esiste un test universalmente accettato per definire la resistenza all’aspirina.
Alcuni autori ritengono che la minore responsività rientri in una normale variabilità farmacocinetica e farmacodinamica. Altri ammettono che la resistenza all’aspirina esiste ma dubitano della sua importanza prognostica.

Per determinare se esista una correlazione tra resistenza all’aspirina ed outcome clinici in soggetti cardiopatici, è stata condotta una revisione sistematica ed una metanalisi di 20 studi (nella maggior parte dei quali l’aspirina veniva somministrata a dosi di 75-325 mg/die) su un totale di 2930 pazienti. Di questi, 810 (28%) sono stati definiti resistenti. La resistenza è stata maggiormente riscontrata nelle donne e nei pazienti con danno renale (p<0,001 e p<0,03). Tutti i soggetti resistenti, indipendentemente dai sintomi clinici sottostanti, risultavano a maggior rischio di decesso, sindrome coronarica acuta, fallimento di procedure vascolari o nuovi eventi cerebrovascolari.


Un evento cardiovascolare si è verificato nel 41% dei pazienti (odds ratio 3,85; CI 95%: 3,08-4,80), il decesso nel 5,7% (5,99; 2,28-15,72) ed una sindrome coronarica acuta nel 39,4% (4,06; 2,96-5,56). I pazienti resistenti all’aspirina, inoltre, non hanno tratto beneficio da altri trattamenti antiaggreganti (es.clopidogrel o tirofiban).

La metanalisi ha dimostrato che i pazienti definiti “resistenti” all’aspirina sono soggetti ad un rischio 4 volte più elevato di eventi avversi cardiovascolari maggiori, indipendentemente dal metodo usato per quantificare la resistenza.


Riferimenti bibliografici

1)Biondi-Zoccai G, Lotrionte M. Aspirin resistance in cardiovascular disease. BMJ 2008; 336: 166-7.
2)Krasopoulos G et al. Aspirin "resistance" and risk of cardiovascular morbidity: systematic review and meta-analysis. BMJ 2008; 336: 195-8.

Commento

Nonostante quanto emerge da questo lavoro, rimangono diversi dubbi. Non si sa se la resistenza all’aspirina sia una reale risposta anomala o se rifletta una normale variabilità dell’attività terapeutica, né è chiaro se sia un fattore prognostico negativo. Inoltre, bisogna anche considerare le ripercussioni pratiche sull’attività clinica. Qualora i medici dovessero sospettare una resistenza all’aspirina dovrebbero effettuare una valutazione ad ampio spettro del rischio trombotico ed emorragico, dovrebbero prendere in esame la probabilità di una mancata aderenza alla terapia e la disponibilità di altre terapie antiaggreganti, che tuttavia, potrebbero non garantire un adeguato risultato terapeutico.
Sulla scorta di questa valutazione, possono essere attuate diverse strategie (pur con le dovute perplessità legate alla non facile individuazione di un’eventuale resistenza e di un’alternativa terapeutica altrettanto valida su cui i clinici siano concordi): l’aggiunta di un altro farmaco antiaggregante (nei soggetti ad elevato rischio trombotico e basso rischio di sanguinamento), la sostituzione dell’aspirina con il clopidogrel (nei soggetti a rischio trombotico moderato e a basso rischio emorragico), aumento del dosaggio di aspirina (fino a 325 mg/die nei soggetti con modesto aumento del rischio trombotico e rischio emorragico lieve-moderato) o continuare con lo stesso regime antiaggregante (per tutti quei soggetti ad elevato rischio emorragico). Il problema di trovare una risposta oggettivamente scientifica all’efficacia di queste strategie poggia sulla mancanza di trial clinici randomizzati e controllati.
Forse sarà possibile ottenere qualche risposta quando saranno disponibili i risultati di trial come il TREND-AR (valutazione del tirofiban su endpoint surrogati nella prevenzione di complicanze ischemiche in corso di interventi coronarici percutanei in soggetti resistenti all’aspirina), anche se un solo studio non potrà certo fugare tutte le perplessità.

Il crescente interesse nei confronti della resistenza all’aspirina potrebbe però trovare anche un’altra spiegazione: il desiderio da parte delle ditte farmaceutiche di spodestare l’aspirina, ad oggi farmaco leader nelle patologie cardiovascolari, a vantaggio di alternative più costose ma di efficacia non superiore.

Dottoressa Maria Antonietta Catania

Contributo gentilmente concesso dal Centro di Informazione sul Farmaco della Società Italiana di Farmacologia - http://www.sifweb.org/farmaci/info_farmaci.php/



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