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Utilità del controllo dell'iper ed ipotensione nell'immediato post-ictus

Categoria : cardiovascolare
Data : 18 settembre 2009
Autore : admin

Intestazione :

Il labetalolo e il lisinopril somministrati entro le 36 h dall’inizio dei sintomi sono farmaci antipertensivi efficaci nello stroke acuto e non causano un aumentano degli eventi avversi gravi o un precoce deterioramento neurologico.



Testo :

Il miglior trattamento per il controllo della pressione arteriosa dopo uno stroke acuto rimane da stabilire. Evidenze preliminari supportano l’uso del labetalolo in pazienti con stroke emorragico o ischemico acuto. Gli ACE inibitori possono ridurre la pressione arteriosa dopo uno stroke acuto e sono efficaci nella prevenzione secondaria dello stroke. Lo studio CHHIPS ha, valutato in pazienti con infarto o emorragia cerebrale, l’efficacia e la sicurezza di due regimi antipertensivi iniziati entro 36 h dalla comparsa dei sintomi.

Da gennaio 2005 a dicembre 2007 in 6 centri in Gran Bretagna sono stati reclutati pazienti (età >18 anni) con deficit neurologico stabile da almeno 60 min e con diagnosi di stroke. Criteri d’inclusione sono stati: infarto cerebrale o emorragia cerebrale; comparsa dei sintomi entro le 36 h; ipertensione (pressione sistolica: PS>160 mmHg). Criteri di esclusione sono stati: encefalopatia ipertensiva; coesistenza di emergenze cardiache o vascolari; PS>200 mmHg o pressione diastolica (PD)>120 mmHg in associazione ad emorragia cerebrale; preesistente terapia antipertensiva in pazienti non disfagici; compromissione della coscienza (punteggio National Institute of Health stroke scale: NIHSS section 1a =2 punti); controindicazione alle terapie previste dal trial; pregressa disabilità (modified Rankin scale: mRS>3 punti); condizioni che necessitano di un trattamento cronico e aspettativa di vita <6 mesi; diagnosi diversa dallo stroke in base ai dati radiologici. Le valutazioni neurologiche sono state effettuate al momento della randomizzazione, a 72 h e a 14 giorni, ed hanno compreso la valutazione dei punteggi NIHSS, mRS e la classificazione secondo l’Oxfordshire Community Stroke Project (OCSP). Prima della randomizzazione è stata valutata la presenza di disfagia. A tutti i pazienti sono state praticate le cure standard compresa la terapia trombolitica entro le 72 h dalla randomizzazione e, dopo 2 settimane, la terapia di prevenzione secondaria dello stroke con ACE inibitori con o senza diuretici.

I pazienti non disfagici sono stati randomizzati a ricevere 50 mg di labetalolo per os, 5 mg di lisinopril per os o placebo. I pazienti disfagici hanno ricevuto 50 mg di labetalolo ev e placebo sublinguale, 5 mg di lisinopril sublinguale e placebo ev, oppure placebo ev e sublinguale. Nelle 8 h successive alla somministrazione la pressione arteriosa è stata misurata ad intervalli di 30 min. Il trattamento è stato interrotto nei pazienti con ipotensione (SP<140 mmHg). I pazienti che a 4 h non hanno raggiunto la PS desiderata (145-155 mmHg o una riduzione di 15 mmHg rispetto al valore alla randomizzazione) hanno ricevuto un’ulteriore dose dei farmaci; una dose addizionale è stata somministrata a quei pazienti che ad 8 h dalla randomizzazione non hanno raggiunto la PS desiderata. La somministrazione dei farmaci è stata protratta nelle 2 settimane successive alla randomizzazione secondo i seguenti regimi: i pazienti non disfagici hanno assunto 5, 10 o 15 mg/die di lisinopril per os al mattino e placebo alla sera, 50, 100 o 150 mg 2 volte al giorni di labetalolo per os, oppure placebo 2 volte al giorno; i pazienti disfagici hanno ricevuto nelle prime 72 h 5, 10 o 15 mg di lisinopril sublinguale al mattino e placebo ev alla sera, 50, 100, 150 mg di labetalolo ev 2 volte al giorno e placebo sublinguale, oppure placebo ev e sublinguale. Alle 72 h i pazienti ancora disfagici hanno ricevuto il lisinopril, il labetalolo o il corrispondente placebo come sospensione attraverso una sonda nasogastrica o una sonda gastrica posizionata tramite gastrotomia endoscopica percutanea. I pazienti che hanno recuperato la capacità di deglutire hanno ricevuto i farmaci o il placebo per os.

L’end point primario è stato la morte o la disabilità (mRS>3 punti) a 2 settimane. Gli obbiettivi secondari sono stati la valutazione della sicurezza del regime terapeutico, definito come l’assenza di un precoce (entro 72 h) deterioramento neurologico (NIHSS=4 punti); il confronto tra i due trattamenti e le vie di somministrazione in termini di controllo della pressione arteriosa, eventi avversi gravi comparsi nei 14 giorni di trattamento; la valutazione delle potenziali differenze tra i gruppi nella mortalità a 3 mesi.

179 pazienti sono stati arruolati e 126 (73%) hanno completato il trattamento previsto dal protocollo. Alla randomizzazione i gruppi labetalolo (n=56), lisinopril (n=57) e placebo (n=59) erano omogenei per sesso (maschi 53-61%), età (media 74 anni), PS (181 mmHg), PD (96 mmHg), pregresso punteggio mRS, NIHSS e percentuale di disfagici.
A 2 settimane l’end point primario si è verificato nel 61% dei pazienti nei gruppi in trattamento attivo e nel 59% di quelli nel gruppo placebo (RR 1,03; CI 95% 0,80–1,33; p=0,82); percentuali simili sono state determinate nei tre gruppi. Un decesso si è verificato nel gruppo labetalolo, 5 in quello lisinopril e 6 in quello placebo. A 72 h deterioramento neurologico è stato osservato nel 6% dei pazienti in trattamento attivo e nel 5% di quelli nel gruppo placebo (RR 1,22; CI 95% 0,32–4,54; p=0,76). A 24 h è stata rilevata una diminuzione della PS significativamente maggiore nei gruppi in trattamento attivo rispetto al placebo (21 [17–25] mmHg vs 11 [5–17] mmHg; p=0,004). Anche a 2 settimane la riduzione della PS è risultata maggiore nei gruppi in trattamento attivo rispetto al placebo (differenza media 8 mmHg, 0,2–16,0; p=0,045), mentre è risultata smile la riduzione della PD (differenza media 4 mmHg, -0,8–9,0; p=0,10).
Il numero di eventi avversi gravi non è risultato diverso tra i tre gruppi: 28 nel gruppo labetalolo, 33 in quello lisinopril e 35 in quello placebo (trattamento attivo vs placebo, RR 0,91; 0,69–1,12; p=0,50). Un evento avverso fatale si è verificato nel gruppo labetalolo, 5 in quello lisinopril e 6 con placebo. In tutti i gruppi gli eventi avversi più gravi si sono verificati nei pazienti disfagici.
La mortalità a 90 giorni è risultata ridotta nei gruppi in trattamento attivo rispetto a quello placebo (11/113 [10%] vs 12/59 [20%]; HR 0,4, CI 95% 0,2–1,0; p=0,05). Le cause di morte nel gruppo labetalolo sono state cardiache (n=1) e stroke (n=3); quelle nel gruppo lisinopril sono state cardiache (n=1), respiratorie (n=1) e stroke (n=5); quelle nel gruppo placebo sono state stroke (n=6) e respiratorie (n=6).
Il labetalolo e il lisinopril somministrati entro le 36 h dall’inizio dei sintomi sono farmaci antipertensivi efficaci nello stroke acuto e non causano un aumentano degli eventi avversi gravi o un precoce deterioramento neurologico. La riduzione della pressione arteriosa ottenibile con questi farmaci sembra essere un promettente approccio per ridurre la mortalità e la potenziale disabilità. Ciò nonostante, data la piccola dimensione del campione, deve essere posta attenzione nell’interpretazione di questi risultati; sono necessari ulteriori trial di maggiori dimensioni.

Nella discussione gli autori sottolineano alcuni punti: 1) la ridotte dimensioni del campione è da imputare alla non eleggibilità di gran parte di pazienti al momento del ricovero; 2) il maggior numero degli abbandoni in tutti e tre i bracci si è avuto nelle prime 72 h ed ha riguardato soprattutto i pazienti disfagici; 3) gli eventi avversi più severi sono stati osservati nei pazienti disfagici nel gruppo placebo; 4) i dati ottenuti mostrano che labetalolo ev è il regime che determina la maggiore diminuzione della PS a 4 h consentendo di evitare ulteriori somministrazioni.

Parole chiave: ipertensione e stroke, labetalolo e lisinopril, RCT.

Riferimento bibliografico
Potter JF et al. Controlling hypertension and hypotension immediately post-stroke (CHHIPS): a randomised, placebo-controlled, double-blind pilot trial. Lancet Neurol 2009; 8: 48-56.



Uso a lungo termine di glitazoni e fratture in pazienti con diabete di tipo 2: una metanalisi
A cura della Dott.ssa Alessandra Russo


Recenti revisioni sistematiche hanno focalizzato l’attenzione sugli effetti avversi cardiovascolari dei glitazoni (rosiglitazone e pioglitazone). Alla fine del 2006, nell’ambito dello studio ADOPT (A Diabetes Outcome and Progression Trial, Kahn SE et al. N Engl J Med 2006; 355: 2427-43) era già stato sollevato il problema del rischio di fratture associato a rosiglitazone. A questo trial sono seguite alcune "warning letters” da parte delle ditte produttrici di rosiglitazone e di pioglitazone.

Questa metanalisi è stata condotta allo scopo di determinare il rischio relativo e assoluto di fratture associato all’uso a lungo termine di glitazoni in pazienti con diabete di tipo 2, oltre che rivedere criticamente l’effetto di questi farmaci sulla densità minerale ossea a supporto della plausibilità biologica di tale ipotesi.

La ricerca è stata effettuata su MEDLINE, EMBASE e Cochrane Central Registry of Controlled Trials (CENTRAL) fino a giugno 2008. Inoltre, per includere eventuali studi non pubblicati, sono stati esaminati i siti web delle autorità regolatorie, i foglietti illustrativi, i registri dei trial clinici delle ditte produttrici e il Clinical Study Results database. Inoltre, sono state valutate le revisioni sistematiche ed i riferimenti bibliografici degli studi. Infine, per identificare gli articoli più importanti, è stato utilizzato il Web del Science Citation Index.

Sono stati selezionati RCT e studi osservazionali che hanno valutato il rischio di fratture in pazienti con diabete di tipo 2, confrontando i soggetti trattati con glitazoni rispetto ai non esposti.
I criteri di inclusione comprendevano trial a disegno parallelo condotti su qualsiasi glitazone (rosiglitazone, pioglitazone o troglitazone) della durata di almeno 1 anno e su soggetti con ridotta tolleranza al glucosio o diabete di tipo 2 conclamato; studi che utilizzavano, come controllo, placebo oppure una terapia per via orale con un comparatore attivo; i gruppi di trattamento differivano soltanto nell’uso di glitazoni; studi che riportavano chiaramente gli outcome relativi alle fratture.
Per quanto riguarda l’outcome secondario sugli effetti dei glitazoni sulla densità minerale ossea, sono stati selezionati RCT e studi osservazionali, di qualsiasi durata, che confrontavano le modifiche della densità minerale ossea in pazienti con o senza esposizione a glitazoni.

Sono stati inclusi 10 RCT (n=13.715), in doppio cieco, della durata da 1 a 4 anni, in cui i partecipanti avevano una ridotta tolleranza al glucosio o diabete di tipo 2 conclamato. In 5 trial, i dati sulle fratture erano disponibili in base al sesso e i soggetti trattati erano simili ai controlli per quanto riguarda l’origine etnica, la durata della malattia, i valori di emoglobina glicosilata e l’indice di massa corporea.
Nei 10 RCT, rispetto ai controlli, i glitazoni sono stati associati ad un aumento statisticamente significativo del rischio di fratture totali (OR 1,45; 95% CI 1,18–1,79; p<0,001). In 5 RCT, rispetto ai controlli, è stato osservato un aumento statisticamente significativo del rischio di fratture tra le donne (OR 2,23; 1,65–3,01; p<0,001) ma non tra gli uomini (OR 1; 0,73–1,39; p=0,98).

I 2 studi osservazionali inclusi nella metanalisi hanno evidenziato un aumento del rischio di fratture associato all’uso dei glitazoni. Lo studio caso-controllo (Meier C et al. Arch Intern Med 2008; 168: 820-5) ha mostrato un’associazione statisticamente significativa fra esposizione a glitazoni (utilizzatori correnti con >8 prescrizioni) e fratture nelle donne (OR 2,56; 1,43–4,58). Nello studio di coorte (Fracture diagnoses in patients receiving monotherapy with antidiabetic agents, including hand and foot fractures [study no WEUSRTP2181]. Brentford (UK): GlaxoSmithKline; 2008. Available: http://ctr.gsk.co.uk/Summary/rosiglitazone/studylist.asp), nelle donne il rosiglitazone è risultato associato in modo statisticamente significativo a fratture rispetto al trattamento con metformina (1,38; 1,03–1,82), mentre non è stato osservato un aumento del rischio di fratture confrontando il rosiglitazone con una sulfonilurea (OR 0,89; 0,69–1,14). In nessuno dei due studi è stata osservata un’associazione statisticamente significativa tra esposizioni a glitazoni e fratture negli uomini.

Per quanto riguarda le modifiche della densità minerale ossea, sono stati identificati 2 RCT (Grey A et al. J Clin Endocrinol Metab 2007; 92: 1305-10; Glintborg D et al. J Clin Endocrinol Metab 2008; 93: 1696-701) e 2 studi osservazionali (Yaturu S et al. Diabetes Care 2007; 30: 1574-6; Schwartz AV et al. J Clin Endocrinol Metab 2006; 91: 3349-5). Tutti e 4 gli studi hanno evidenziato che, rispetto ai controlli, i glitazoni erano associati ad una notevole riduzione della densità minerale ossea. Nei 2 RCT, nelle donne esposte a glitazoni, la densità minerale ossea è risultata ridotta in misura statisticamente significativa a livello della colonna lombare (differenza media pesata –1,11%; da –2,08% a –0,14%; p=0,02) e dell’anca (–1,24%, da –2,34% a –0,67%; p<0,001). Anche uno dei due studi osservazionali ha evidenziato risultati simili a livello della colonna lombare (differenza media pesata –1,36%; da –2,05% a –0,67%; p=0,001) e dell’anca (–1,24%, da –1,78% a –0,70%; p<0,001) nelle pazienti trattate con glitazoni, rispetto ai controlli.

La metanalisi evidenzia un aumento del rischio di fratture associato all’uso dei glitazoni; inoltre la densità minerale ossea è risultata notevolmente modificata a livello della colonna lombare e dell’anca.
Un’analisi post-hoc dello studio ADOPT (Kahn SE et al; ADOPT Study Group. Diabetes Care 2008; 31: 845-51) non ha evidenziato una chiara correlazione con l’origine etnica, l’ipoglicemia, l’aumento di peso o l’età. Tuttavia, sembra che questi farmaci possano determinare fratture aumentando l’adiposità del midollo osseo, riducendo l’attività degli osteoblasti o l’attività dell’aromatasi, che altera la produzione di estrogeni e aumenta il riassorbimento osseo. Inoltre, i glitazoni esercitano un effetto negativo sui marker di formazione ossea, come la fosfatasi alcalina e l’ormone paratiroideo.
La predominanza delle fratture a livello degli arti superiori e inferiori distali, rispetto all’anca, può essere attribuita all’età delle pazienti (età media 56 anni nello studio ADOPT). In uno dei due studi osservazionali (Sanders KM et al. Osteoporos Int 1999; 10: 240-7), nelle pazienti di età 55-64 anni, le fratture erano più frequenti a livello degli arti superiori e inferiori distali, mentre la maggior parte delle fratture dell’anca si è verificata nelle donne >75 anni.
Tuttavia, lo studio caso-controllo (Meier C et al. Arch Intern Med 2008; 168: 820-5) condotto prevalentemente su donne anziane (60% >60 anni) ha evidenziato che le fratture dell’anca e del femore erano associate in modo statisticamente significativo a terapia con glitazoni (OR 4,54; 1,28–16,10).

La metanalisi presenta diversi limiti, soprattutto correlati all’esiguità dei dati riportati. Nessuno dei trial inclusi era stato disegnato con l’obiettivo di misurare in modo prospettico il rischio di fratture. Nonostante ciò, l’incidenza di fratture nei gruppi di controllo era compatibile con quella riscontrata negli studi epidemiologici su larga scala. I dati disponibili non erano sufficienti a stabilire se il rischio variava in funzione di un particolare farmaco e delle diverse sedi della frattura. Dalla metanalisi, inoltre, sono stati esclusi 17 trial della durata di >12 mesi, in quanto non riportavano l’incidenza di fratture. Ciò potrebbe alterare la precisione della valutazione del rischio e degli intervalli di confidenza.
Inoltre, gli unici dati disponibili dagli RCT relativi alla riduzione della densità minerale ossea si riferivano a donne sane e a pazienti con sindrome dell’ovaio policistico, piuttosto che con diabete di tipo 2. Tuttavia, è probabile che le donne diabetiche abbiano un rischio simile come evidenziato negli studi osservazionali.

La metanalisi evidenzia che, nei pazienti con diabete di tipo 2, l’uso prolungato di glitazoni raddoppia il rischio di fratture nelle donne, senza aumentare in modo statisticamente significativo il rischio di fratture tra gli uomini.

L’editoriale di accompagnamento allo studio ha focalizzato l’attenzione sul dibattito relativo ai rischi e ai benefici dell’uso di glitazoni. L’autorizzazione alla commercializzazione di questi farmaci è attribuibile alla loro capacità di migliorare il controllo della glicemia, senza determinare ipoglicemia, ma anche alla riduzione della resistenza all’insulina. Tale effetto faceva ben sperare che questi farmaci potessero ridurre il rischio cardiovascolare. Tuttavia, poco dopo l’introduzione in commercio, sono emerse preoccupazioni relative alla loro sicurezza nella terapia a lungo termine. Il troglitazone, il primo della famiglia dei glitazoni ad essere introdotto in commercio, fu ritirato a causa della sua epatotossicità; il rosiglitazone e il pioglitazone, pur essendo meno epatotossici, sono stati associati ad aumento di peso, edema ed aumento del rischio di insufficienza cardiaca.
Una metanalisi pubblicata nel 2007 (Nissen SE, Wolski K. N Engl J Med 2007; 356: 2457-71), condotta su 42 RCT, ha suggerito una correlazione tra rosiglitazone ed aumento del rischio di infarto del miocardio e morte cardiovascolare. Altre due metanalisi (Singh S et al. JAMA 2007; 298: 1189-95; United States Food and Drug Administration. FDA briefing document: joint meeting of the Endocrinologic and Metabolic Drug Advisory Committee and the Drug Safety and Risk Management Committee) e un ampio studio osservazionale (Lipscombe LL et al. JAMA 2007; 298: 2634-43) hanno riportato risultati simili. Per tale motivo, l’FDA ha aggiunto un “black-box warning” nel foglietto illustrativo, mentre in Canada sono state disposte nuove restrizioni all’uso di glitazoni.
Inoltre, recenti evidenze suggeriscono anche un possibile aumento del rischio di fratture. La metanalisi qui riportata, su 10 RCT della durata di >12 mesi condotti su >13.000 pazienti, ha evidenziato un aumento del 45% delle fratture e una riduzione significativa della densità minerale ossea.
Poichè è difficile rilevare effetti avversi inattesi, soprattutto se si tratta di eventi rari, la mancata osservazione di un aumento del rischio negli uomini, così come per quanto attiene alle fratture dell’anca, potrebbe essere associato ad un potere statistico insufficiente.
Inoltre, poichè i pazienti inclusi nei trial di solito hanno uno stato di salute migliore rispetto ai pazienti osservati in ambito clinico, i partecipanti ai trial potevano avere un rischio di base inferiore di sviluppare eventi avversi.

Tuttavia, il quesito è se i benefici associati a questi farmaci superano i rischi. Pur migliorando la glicemia in pazienti con diabete mellito non controllato, esiste la possibilità di un aumento del rischio cardiovascolare e di fratture. Pertanto, poichè esistono alternative terapeutiche, con minori effetti avversi, di certo i glitazoni non possono essere considerati come farmaci di prima scelta.

Conflitto di interesse

Uno degli autori della metanalisi ha dichiarato di aver ricevuto un finanziamento dalla GlaxoSmithKline.

Parole chiave

Riferimenti bibliografici

1)Loke YK et al. Long-term use of thiazolidinediones and fractures in type 2 diabetes: a meta-analysis. CMAJ 2009; 180: 32-9.

2) Lorraine L, Lipscombe MD. Thiazolidinediones: Do harms outweigh benefits? CMAJ 2009; 180: 16-7.

Contributo gentilmente concesso dal Centro di Informazione sul Farmaco della Società Italiana di Farmacologia - http://www.sifweb.org/farmaci/info_farmaci.php/



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