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Lo zio Alfredo

Data : 15 aprile 2005
Autore : admin

Pagina: 1 - qualità di vita o morte

Lo zio Alfredo è il mio zio preferito, e non solo perché è l'unico ( gli altri due inesistenti). E' il fratello di mia madre. E' nato nel 1921, ha fatto la campagna di Russia ed è rimasto prigioniero, fortunosamente scappato in aereo e riparato a Parigi è rimasto per un anno in una cantina con altri 4 compagni. Non ha mai voluto parlare di questi anni tremendi, di cui io ho avuto notizie solo attraverso i racconti della nonna. Funzionario di banca e celibe ha vissuto con la madre (la mia nonna) fino ala sua morte nel 1978 e poi solo. Grande amante della montagna, istruttore di roccia del CAI ( suo grande orgoglio è stato aver insegnato la tecnica a Fausto De Stefani, grande alpinista collezionatore di diversi 8.000 ), ha partecipato ad una spedizione alpinistica sulle Ande peruviane e ha imparato a sciare a 50 anni diventando abilissimo; una volta in pensione si dedica ancora più intensamente alla montagna, escursioni, sci alpinismo ecc. A 66 anni (1987) episodio di proctorragia (non è il primo, confessa) e dolori addominali. Effettuiamo un clisma opaco: K colon discendente-sigma.
Mio zio è un fifone (terrore della malattia e degli aghi, quando la mamma è stata operata di colecistectomia non è nemmeno andato in ospedale a trovarla per paura di sentirsi male) ed è quindi con molta cautela che affronto il discorso e gli prospetto la necessità di sottoporsi ad un intervento chirurgico per l'asportazione di un tumore. Dopo i primi momenti di comprensibile disorientamento prende l'unica decisione possibile e si effettua un ricovero in tempi brevi. Viene operato alla fine di ottobre del 1987: K sigma stadio C Dukes, 1 linfonodo positivo su 21. Postoperatorio in dimissione con indicazione ad una chemioterapia adiuvante. L'ottimo è nemico del meglio: vale veramente la pena sottoporlo ad una chemioterapia dall'indicazione discussa e peggiorare la sua qualità di vita ? No, dopo una breve convalescenza è di nuovo sui campi di sci in meno di due mesi.
In un grave incidente stradale (rientrando dalla montagna) riporta la frattura del braccio sin e un grosso trauma cranico. La ripresa è molto difficile, per mesi è rimasto ricoverato in una situazione tra una depressione e una franca demenza. Poi, finalmente l'uscita dal tunnel, è tornato a casa. Passeggiate quotidiane (munito di contapassi per registrare i chilometri percorsi), qualche trasferta e festività e domeniche a pranzo dalle nipoti. D'estate trascorre anche qualche settimana fra le sue montagne, solo. E' appena rientrato da uno di questi periodi, siamo nell'agosto 1999 quando è colpito da un ictus. Emiparesi sinistra: settembre e ottobre trascorrono con l';impegno della fisioterapia riabilitativa. La mattina presto, prima del giro visite, mi reco da lui con il giornale (che leggerà sistematicamente e sulle cui notizie discuteremo sino a tre giorni prima di morire), l'aiuto per la colazione e gli faccio la barba (Eh, si. Ho imparato a fare le barba con schiuma e rasoio). Alla dimissione passa in una struttura protetta (camera singola) dove grazie ad un intenso programma riabilitativo riprende a fare qualche passo aiutato dal bastone. La voglia di tornare quasi come prima è tanta, l'impegno c'è, deve riuscire a sedersi, alzarsi dalla sedia a rotelle e salire in auto, così potrà nuovamente venire da noi a pranzo la domenica.
In effetti riprende a deambulare, anche se un poco incerto con il bastone. Il 4 gennaio, compleanno, come gli altri anni usciamo tutti a pranzo ed è felice, capotavola con una schiera di nipoti mariti e pronipoti (in tutto siamo in 15). La domenica mattina lo si va a prendere e si riaccompagna nel tardo pomeriggio, la riabilitazione prosegue e si profila la possibilità di un futuro, anche se non imminente, rientro a casa. Ma i primi di febbraio cade mentre sta andando in bagno: frattura del femore. Ricovero, intervento osteosintesi, e ricominciamo da capo. Ma dopo venti giorni nuovo ricovero per grave anemia (ematoma in sede di intervento) Hb 4,8 ma non muore nemmeno questa volta. Quando viene dimesso, capito che mai più riuscirà ad essere autonomo, che ormai ha 79 anni e che la sua vita ha avuto un senso e non vi è più nulla da aggiungere decide di morire ( la stessa cosa aveva fatto la sua mamma). Rifiuta il cibo in modo assoluto. Ne parliamo a lungo: capisco. E' una scelta coraggiosa che condivido con lui sino alla fine. Grandi contrasti con il medico della struttura che insiste per una alimentazione forzata e per flebo che assolutamente rifiuto. Tutte le mattine arrivo con il giornale e lo "difendo" dalle aggressioni del medico. Si spegne poco a poco, mi ripete che mi vuole tanto bene e mi ringrazia per tutto ciò che sto facendo per lui e per essergli così vicino e si rammarica che si "faccia così fatica a morire". Le ultime due notti le faccio al suo capezzale (mi sono portata da casa fl di valium e buscopan) e il mattino alle 5 faccio colazione con gli ausiliari. E' in fase agonica, lo assiste la sorella (mia mamma). Il medico passa e prescrive flebo per idratazione. l'infermiera arriva "con calma" e lascia il vassoio sul comodino "ripasserò più tardi dice ammiccando, è così difficile trovare una vena". Lo zio è morto il 17/04/2000.

Il medico, anche se non condivide una scelta, dopo avere fatto ciò che è ragionevole fare per far capire al paziente che non è d'accordo e che ci sono altre soluzioni, ha il dovere di assecondare il malato e di non lasciarlo solo.
Adriana Loglio




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