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Consensus Conference su screening K prostatico mediante dosaggio PSA

Categoria : urologia
Data : 27 giugno 2004
Autore : admin

Intestazione :

edito a cura di:
Associazione Italiana di Epidemiologia, Associazione Italiana di Medicina Nucleare, Associazione Italiana di Oncologia Medica, Associazione Italiana Medici di Famiglia, Associazione Urologi Italiani, CSPO Istituto Scientifico della Regione Toscana, Gruppo Italiano per lo Screening del Cervicocarcinoma, Gruppo Uro-oncologico del Nord Est, Società Italiana di Andrologia, Società Italiana di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica, Società Italiana di Chirurgia Oncologica, Società Italiana di Genetica Umana, Società Italiana di Medicina Generale, Società Italiana di Psico-oncologia, Società Italiana di Radiologia Medica, Società Italiana di Statistica Medica ed Epidemiologia Clinica, Società Italiana di Urodinamica, Società Italiana di Urologia Oncologica, Società Urologia Nuova



Testo :

La maggior parte dei Registri Tumori fa rilevare un’aumentata incidenza del carcinoma prostatico. Da circa venti anni, prima negli USA e Canada, e da circa 10 anni, anche se in forma meno evidente e più lenta, in molti paesi occidentali industrializzati, l’incidenza ha subito un rapido aumento, grossolano, in certi paesi fino a circa 10 volte, per poi diminuire nuovamente fino ad attestarsi su valori di circa 1.5-2 volte rispetto a quella attesa in base al trend storico degli ultimi 30 anni (1). Il fenomeno è stato spiegato essenzialmente con l’aumentato uso, in questi paesi, del dosaggio dell’antigene prostatico specifico (PSA), in forma di screening "opportunistico", con conseguente diagnosi anticipata di un numero molto elevato di carcinomi asintomatici e preclinici. La mortalità sembra non essersi invece sostanzialmente modificata (1). La discrepanza tra l’aumento grossolano dell’incidenza e la sostanziale stabilità della mortalità (un limitato flesso osservato negli ultimi anni in alcuni paesi non è necessariamente da ascrivere alla diagnosi precoce mediante PSA, essendo da molti spiegato con il miglioramento del controllo mediante terapia, specie nelle forme avanzate), che perdura oltre un decennio dopo il picco di incidenza, suggerisce che l’anticipazione diagnostica causa del picco di incidenza sia mediamente di almeno 10 anni. Tenendo conto della aspettativa di vita relativamente limitata in alcune fasce di età oggetto dello screening opportunistico, l’elevata anticipazione diagnostica suggerisce la possibilità che parte dei carcinomi identificati in tal modo sia di fatto "sovradiagnosticata", "latente", dotata cioè di scarsa aggressività e, in assenza di screening, destinata a non manifestarsi clinicamente nella vita (2). L’esistenza nell’uomo di una elevata prevalenza di carcinomi "latenti" (oltre il 30% in maschi oltre i 50 anni di età) è ben documentata da studi autoptici di popolazione (3).
Poiché al momento non appare prevedibile una riduzione di incidenza del carcinoma della prostata attraverso una prevenzione primaria efficace, la prevenzione secondaria (screening, spontaneo, opportunistico o organizzato che sia) potrebbe rappresentare, assieme alla terapia, il mezzo fondamentale per influire sulla storia naturale della malattia, riducendone la mortalità. Il test di screening che appare più confacente allo scopo, per considerazioni complessive di costi, convenienza e accuratezza diagnostica, è il PSA, un test semplice e relativamente poco costoso, che pure necessità un rigoroso controllo di qualità della sua determinazione.
Peraltro, perché una procedura di screening sia accettabile, sia a livello individuale che di popolazione, necessita che l’efficacia (riduzione della mortalità) e il rapporto costi/benefici dello screening siano confermati oltre ogni dubbio. La sola dimostrazione di una anticipazione diagnostica, che di per sé stessa comporta un aumento, in parte o del tutto solo apparente (lead time bias) della sopravvivenza dalla diagnosi, non può essere sufficiente a garantire l’efficacia dello screening (riduzione effe ttiva della mortalità): di questo esistono esempi molteplici nella storia dello screening oncologico (screening del ca. polmonare, screening mammografico <50 anni, autopalpazione).
In genere, la metodologia più accreditata per la dimostrazione di efficacia di uno screening oncologico è lo studio (trial) prospettico controllato (randomizzato). Studi simili in corso in Europa (ERSPC) e in USA (PLCO), hanno arruolato un ingente numero di soggetti (oltre 200.000) e dovrebbero produrre i primi dati relativi all’impatto dello screening sulla mortalità e sulla qualità della vita non prima del 2005, più verosimilmente verso il 2008 (4). Fino ad allora, e forse per qualche anno ancora, non sarà possibile definire con certezza se lo screening sia utile o meno. L’evidenza di riduzione di mortalità suggerita da studi non controllati (5) o controllati (6) di screening è stata oggetto di molte critiche in letteratura (disegno di studio e modalità di valutazione) e non sembra sufficientemente affidabile, sul piano scientifico, per supportare la raccomandazione dello screening come pratica corrente, soprattutto considerando che altri studi non controllati (ad es. studio comparativo Seattle/Connecticut (7)) non confermano un impatto sulla mortalità. Peraltro tutti questi studi e altri studi pilota di screening hanno ampiamente dimostrato che l’anticipazione diagnostica ottenibile è molto elevata (oltre 10 anni) ed è stato stimato che una porzione rilevante dei casi diagnosticati dallo screening non era destinata a manifestarsi clinicamente nella vita. Una simile sovradiagnosi, stimata a seconda della aggressività dello screening dal 50% (1 ca. "latente" ogni due ca. potenzialmente letali) al 300% (3 ca. "latenti" per ogni ca. potenzialmente letale) (8), ha come conseguenza un "sovratrattamento", essendo a tutt’oggi impossibile distinguere un ca. "latente" da un ca. potenzialmente letale. La sovradiagnosi e il sovratrattamento costituiscono degli effetti negativi rilevanti dello screening, sia per la loro frequenza che per la loro importanza, anche per le implicazioni e i costi psicologici (ansia, tensione, isolamento) e la morbilità psicosociale (possibili disturbi della sessualità, disturbi depressivi). Considerando che lo screening basa la sua ipotesi di efficacia sulla intenzione di diagnosi e terapia precoce, a complicare ulteriormente il quadro sono insorte recentemente incertezze anche sulla strategia ottimale da seguire nelle neoplasie iniziali (chirurgia, radioterapia, watchful waiting) (10).
E’ evidente che lo screening ha "comunque" dei considerevoli aspetti negativi (sovradiagnosi, con importanti implicazioni psicologiche, e sovratrattamento con possibile deficit erettile, incontinenza, ad alto impatto sulla qualità di vita) e quindi una sua attuazione non può prescindere, per motivi etici, da una dimostrazione della sua efficacia e da una valutazione del bilancio tra effetti negativi e positivi (9). Non stupisce che molti consessi scientifici nazionali (11,12,13,14,15), non ultima la Comunità Europea (16), abbiano ribadito la non eticità dello screening quale pratica corrente in assenza di una dimostrazione di efficacia.
Peraltro, alcune autorevoli associazioni come l’Associazione Americana di Urologia (AUA) e l’Associazione Americana per il Cancro (ACS) hanno prodotto raccomandazioni relative all’opportunità del dosaggio del PSA nei maschi sopra i 50 anni di età. Questo e una diffusa campagna a favore dello screening da parte dei media e di "testimonial" importanti, hanno fatto sì che, certamente negli USA ma recentemente anche in Europa, lo screening "opportunistico" si sia molto diffuso (17,18). Ciò ha sollevato notevoli polemiche, essenzialmente motivate dalla considerazione che tale screening espone i soggetti esaminati ai rischi sopraindicati dello screening, senza che, in base all’evidenza esistente, si possa promettere loro un beneficio verosimile né, tanto meno, quantizzarlo.
Altra cosa è, ovviamente, l’uso del PSA in ambito clinico, nell’occasione di una consultazione medica, in quanto in questa circostanza il medico ha gli elementi anamnestici (esiti di altri test, precedenti dosaggi del PSA, valutazione di fattori di rischio e familiarità) che gli consentono di valutare l’opportunità del dosaggio del PSA anche in assenza di sintomi di neoplasia, nonchè la possibilità di informare il paziente sui pro e sui contro di tale indagine. Non c’è dubbio poi che il PSA sia di grande utilità per la diagnosi differenziale di quadri che suggeriscano anche un minimo dubbio di neoplasia, in associazione ad altri accertamenti, per aumentare l’accuratezza diagnostica complessiva.
L’assemblea dei rappresentanti delle Associazioni Scientifiche intervenute alla "Consensus Conference" ha condiviso all’unanimità le seguenti raccomandazioni conclusive:
1. Non esiste al momento, in base all’evidenza scientifica, indicazione all’esecuzione dello screening di soggetti asintomatici mediante PSA, sia quale provvedimento sanitario di "popolazione" (invito attivo di residenti selezionati in base all’età), che "spontaneo" (raccomandazione alla popolazione di sottoporsi al dosaggio periodico del PSA).
2. Il PSA resta un valido presidio, in occasione di consultazione medica, per la diagnosi differenziale del carcinoma prostatico ove esista un sospetto clinico anche minimo di tale patologia.
3. Il dosaggio del PSA in soggetti asintomatici potrà essere prescritto in occasione di consultazione medica, a giudizio del sanitario, in base agli elementi clinici a sua conoscenza e previa informazione del paziente sui pro e contro della determinazione del marcatore in assenza di un sospetto diagnostico o di fattori di rischio .



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