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Le devastanti conseguenze della sentenza sul risarcimento al soggetto nato Down

Categoria : medicina_legale
Data : 28 ottobre 2012
Autore : admin

Intestazione :

La sentenza 16574/2012 provoca devastanti conseguenze in merito ad un aumento incontrollato della medicina difensiva con aggravio insostenibile per le strutture pubbliche e sancisce un diritto ad abortire slegato dall'accertamento della diagnosi del pericolo per la salute della madre a seguito di condizioni di anomalie dello sviluppo.



Testo :

Con la pronuncia 16574 del 2012 la Corte di Cassazione realizza un clamoroso dietrofornt rispetto agli orientamenti consolidati presso la giurisprudenza di legittimità e di merito in riferimento al risarcimento del danno che si assuma subito dal soggetto nato con disabilità per una omessa o tardiva diagnosi prenatale.

Per la descrizione della vicenda si rimanda all'articolo :

http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=5618

Il diritto al risarcimento del concepito non viene affermato attraverso il riconoscimento di alcuna soggettività giuridica per la dimensione prenatale. La pronuncia definisce, infatti, il concepito come “oggetto di speciale tutela da parte dell’ordinamento”.

Oltre a questo la Corte di Cassazione destituisce l’argomento presente in larga parte delle sentenze su questo tema e per il quale la scelta abortiva, in presenza di malformazioni del feto, costituirebbe l’id quod plerumque accidit al rango di mera presunzione semplice. Essa specifica, infatti, che in ipotesi di contestazione (anche implicita) da parte del convenuto, spetterà alla madre attrice, per il principio di vicinanza della prova, provare che, se avesse conosciuto l’esistenza di malformazioni nel feto, la sua volontà si sarebbe orientata verso l’interruzione della gravidanza.

In buona sostanza si conferisce alla madre il diritto di interrompere la gravidanza senza una diagnosi di grave pericolo per la sua salute.

La legge 194/78 all'articolo 6 e 7 recita:

Articolo 6

L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata:

a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;

b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Articolo 7

I processi patologici che configurino i casi previsti dall'articolo precedente vengono accertati da un medico del servizio ostetrico-ginecologico dell'ente ospedaliero in cui deve praticarsi l'intervento, che ne certifica l'esistenza.

Il medico può avvalersi della collaborazione di specialisti. Il medico è tenuto a fornire la documentazione sul caso e a comunicare la sua certificazione al direttore sanitario dell'ospedale per l'intervento da praticarsi immediatamente.

Qualora l'interruzione della gravidanza si renda necessaria per imminente pericolo per la vita della donna, l'intervento può essere praticato anche senza lo svolgimento delle procedure previste dal comma precedente e al di fuori delle sedi di cui all'articolo 8. In questi casi, il medico è tenuto a darne comunicazione al medico provinciale.

Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l'interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell'articolo 6 e il medico che esegue l'intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto.


Quindi non può esistere un diritto assoluto ad abortire dopo i 90 giorni, ma tale possibilità è lecita solo se sono accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

L'accertamento prevede dunque necessariamente una diagnosi sia della presenza delle malformazioni che del pericolo per la salute della madre.

Si pone il problema innanzitutto della diagnosi della malformazione. La stima probabilistica dell'anomalia Down mediante tests di screening non invasivi ha una sensibilità del 95% con un 5% di falsi positivi ed un 10% di falsi negativi e costituisce un bilanciamento tra rischi e benefici. Infatti le procedure invasive come la villocentesi e l'amniocentesi comportano un rischio di aborto tra lo 0,5 e l'uno per cento. Pertanto è scientificamente corretto e sostenibile per le strutture sanitarie pubbliche procedere ad effettuare esami invasivi quando i tests non invasivi indichino un rischio di almeno uno a 300, proprio in funzione del bilanciamento tra rischi (aborto conseguente alla procedure diagnostica invasiva) e benefici (sicurezza della diagnosi).

Cosa avverebbe se si seguisse la logica della Cassazione?

Se la donna non volesse "correre comunque rischi" si dovrebbe procedere ad effettuare, a semplice sua richiesta, un esame diagnostico invasivo, gravato dal rischio di aborto ed effettuabile in pratica dopo i 90 giorni quando l'interruzione della gravidanza è possibile solo se ci sono gravi pericoli per la salute della madre. Questo determinerebbe un aumento spropositato di richieste con aumento degli aborti, evitabili proprio perchè conseguenti a procedure diagnostiche scientificamente inappropriate, e un fardello insostenibile per le Strutture sanitarie pubbliche, sia in termini di costi che di necessità logistiche ed organizzative.

Ma la conoscenza dell'eventuale malformazione costituisce, in re ipsa, sempre un grave rischio per la salute della madre? Chi dovrebbe accertarlo e soprattutto con quali strumenti diagnostici?

Il sottoscritto ha inviato al Direttivo della Società Italiana di Psichiatria una richiesta di chiarimenti in merito all'eventuale esistenza di procedure, tests, strumenti diagnostici idonei ad oggettivare e quantificare tale rischio senza ottenere alcuna concreta indicazione in merito.

Ci si chiede inoltre come possa essere affermato un diritto che presuppone un esame che, a sua volta, può essere effettuato solo dopo i 90 giorni, quando per poter poi interrompere la gravidanza non basterebbe la volontà della madre, ma dovrebbe essere accertato un grave pericolo per la salute della donna.

Non meno gravido di enormi criticità è l'aver sancito il diritto al risarcimento del danno da errata diagnosi prenatale anche in favore dei fratelli e delle sorelle del soggetto disabile per una minore disponibilità dei genitori nei loro confronti e per un rapporto parentale meno sereno a causa dello stato d’animo con il quale padre e madre dovranno coesistere che, considerata la disabilità del figlio, è “di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza”.

Insomma una sentenza contro la quale, per le valutazioni etiche e le implicazioni pratiche, è un imperativo categorico opporsi, appellandosi, se tecnicamente possibile, alla Corte Europea di Strasburgo.

Luca Puccetti



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