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Al paziente bisogna dire la verita’, anche se e' scomodo

Categoria : medicina_legale
Data : 28 aprile 2013
Autore : admin

Intestazione :

Un evento purtroppo molto frequente in cui si imbatte il medico, e’ la necessita’ di comunicare una “cattiva notizia” al proprio paziente. La cosa e’ particolarmente difficile e drammatica allorche’ si tratti di comunicare una malattia particolarmente grave e una prognosi infausta o la necessita’ di intraprendere percorsi terapeutici particolarmente difficili o di esisto incerto. E’ comprensibile la difficolta’ del sanitario, combattuto tra il “dire” e il “non dire”, con la tendenza ad evitare questo difficilissimo compito magari cercando intermediari (familiari del paziente, ad es.) o addirittura nascondendo la verita’ dietro affermazioni vaghe, elusive o perfino menzognere.
Una panoramica delle norme e delle tendenze attuali.



Testo :

Due parole di storia

Guardandoci indietro (e i piu’ anziani di noi lo ricorderanno) il primo modello di relazione medico-paziente vigente fino oltre la meta’ del 1900 fu quello improntato sul “principio di beneficialita’”, basato essenzialmente su alcuni concetti che si fanno risalire addirittura ad Ippocrate: la medicina deve farsi carico del paziente nella sua globalita’, il dovere del medico è sollevare il paziente dalla malattia, dalla sofferenza e dall’ingiustizia. Questa dottrina fu di ispirazione per la maggior parte dei codici deontologici (nel 1989 la vecchia versione del Codice Deontologico prevedeva che "Il medico potrà valutare, segnatamente in rapporto con la reattività del paziente, l’opportunità di non rivelare al malato o di attenuare una prognosi grave o infausta, nel qual caso questa dovrà essere comunicata ai congiunti.". ) giustificando quindi che, in difesa del miglior interesse del paziente, si potesse in certe circostanze tacere la verita’. E’ quella visione che poi fu definita come "paternalismo medico".
Ma ora, come regolarsi? Sono ancora valide tali regole?

Nella seconda meta’ del 1900 ha cominciato a diffondersi la dottrina del “consenso informato”. Tale termine, derivato dall’inglese informed consent ha iniziato a diffondersi con la Dichiarazione di Ginevra (1948) ed entrò nel lessico legale solo nel 1957 negli Stati Uniti. Malgrado i numerosi pronunciamenti etici, sanitari e legali, il termine "consenso informato" non ha significato univoco nelle diverse legislazioni nazionali e si e’ diffusa in tempi e modalita’ diverse.
Uno degli aspetti fondamentali del Consenso Informato, addirittura il fondamento del concetto stesso e’ l’ obbligo di una completa, esauriente e comprensibile informazione data dal medico a cui poi conseguono tutte le altre decisioni.

L’ evoluzione etico-normativa e i casi concreti

Spesso sono i familiari, riferendo di una particolare “fragilita’” del congiunto, a chiedere al medico che il paziente non venga informato. E spesso il paziente, pur conscio dei propri disturbi, tende a negarli assumendo un atteggiamento di rifiuto.
In assenza quindi di una esplicita richiesta di “sapere” da parte del paziente, quanto e’ giusto “forzarlo” all’ informazione?
Gli studi disponibili (soprattutto in oncologia) dimostrano importanti cambiamenti di tendenza negli anni: negli USA negli anni ’50/‘60, circa il 90% dei medici dichiarava che in caso di diagnosi di cancro preferiva non dirlo al paziente (Oken, 1961)
A tal fine erano stati persino pubblicati metodi per eluderne le domande (Kline, 1951)
Venti anni dopo, meno del 5 % dei medici dichiarava di persistere in questo atteggiamento (Novack, 1979).

Alcuni studi statistici effettuati con interviste ai medici italiani hanno evidenziato invece, ancora nel 2003, un atteggiamento piu' vicino al vecchio sistema con percentuali piu’ alte di medici favorevoli ad una informazione selettiva.
La tendenza a nascondere la verita’ al paziente mostrerebbe una ampia variabilita’ tra Nord e Sud raggiungendo percentuali, in alcune regioni meridionali, di oltre il 50% di medici “negazionisti” (ricerca Datanalysis).
Non abbiamo notizia di studi piu' recenti e che rispecchino i reali comportamenti e non solo le opinioni.

Poiche’ questo atteggiamento si riferisce sempre a prognosi infauste in rapporto alla situazione dell’ epoca, l’ evoluzione dei punti di vista non e’ collegabile direttamente ai progressi della medicina quanto piuttosto alla nuova visione etica dei diritti dei singoli. Altri motivi possono essere, le remore morali dei medici (restii a trasformarsi in latori di cattive notizie) e, in gran parte dall’ incapacita’ di integrare la propria propensione empatica con le opportune tecniche comunicative, idonee a fornire supporto.

Per superare le difficolta’ dei medici, spesso troppo coinvolti per essere obiettivi, sono state infatti sviluppate una serie di metodiche comunicative che aiutano a trasmettere, nel modi piu’ indolore possibile, notizie cosi’ drammatiche, soprattutto in ambito oncologico.
La piu’ diffusa metodica ad hoc (ma non e’ l’ unica) e’ il protocollo americano per la comunicazione di cattive notizie, denominato SPIKES, un acronimo formato dalle lettere dei sei passi fondamentali costitutivi dell’intervento (Baile, 2000)

La comunicazione di cattive notizie secondo il modello SPIKES
– S = Setting up Preparare il contesto e disporsi all’ascolto
– P = Perception Valutare le percezioni del paziente per capire ciò che sa già e l’idea che si è fatta dei suoi disturbi
– I = Invitation Invitare il paziente ad esprimere il proprio consenso ad essere informato o meno sulla diagnosi, la prognosi e i dettagli della malattia
– K = Knowledge Fornire le informazioni necessarie a comprendere la situazione clinica
– E = Emotions Facilitarlo ad esprimere le proprie reazioni emotive, cercando di rispondere ad esse in modo empatico
– S = Summary Discutere, pianificare e concordare con la persona una strategia che consideri possibilità di intervento e risultati attesi; lasciare spazio ad eventuali domande; valutare quanto la persona ha compreso e riassumere quanto detto.

Alcune di queste tappe sono piu’ facili per i medici italiani, maggiormente disposti all’ empatia e all’ ascolto rispetto ai colleghi d’ oltreoceano, altri punti risultano invece particolarmente difficili per cui ho sottolineato il punto I (Invitation) in quanto particolarmente importante alla luce delle attuali disposizioni normative.

Quali sono le norme vigenti a questo proposito? Una breve rassegna
- Carta dei Servizi Sanitari 1995 - Art. 4 Il paziente ha il diritto di ottenere dal medico che lo cura informazioni complete e comprensibili in merito alla diagnosi della malattia, alla terapia proposta e alla relativa prognosi
- Comitato Italiano di Bioetica: La richiesta dei familiari di fornire al paziente informazioni non veritiere non è vincolante. Il medico ha il dovere di dare al malato le informazioni necessarie per affrontare responsabilmente la realtà, ma attenendosi ai criteri di prudenza, soprattutto nella terminologia.
- Codice di Deontologia Medica: Art. 33: Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico terapeutiche… che "Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza. La documentata volonta’ del malato di non essere informato o di delegare ad altri l’informazione deve essere rispettata. Art. 34 L’informazione a terzi è ammessa solo con il consenso esplicitamente espresso dal paziente, fatto salvo… allorché sia in grave pericolo la salute o la vita altrui

Cenni di giurisprudenza: attenzione ai problemi di reponsabilita’ professionale!

- Cassazione civile, sent. N. 364/1997: Il paziente capace di intendere e di volere ha il diritto di conoscere la verità sulla sua malattia. I familiari, senza il suo consenso informato, non hanno diritto di prendere decisioni per lui
- Cass. civile, sez. III, 18/9/08, n. 23846: condannato il medico a risarcimento danni per omessa informazione: E’ dovere del medico informare correttamente della diagnosi, in quanto tacendola si verifica un danno alla persona a cui viene negata la possibilita’ di poter programmare il suo “essere persona” e, quindi, in senso lato l’esplicazione delle sue attitudini psico-fisiche, in vista e fino all’evento mortale.
- Cass. pen Sez. 4, 26/10/07 n. 39609: Addirittura omicidio colposo per il medico che, dopo un’operazione, non comunica la diagnosi di cancro al paziente. Un sanitario dopo aver effettuato un intervento, non aveva comunicato alla paziente l'esito dell'esame istologico dal quale risultava la presenza di una forma tumorale maligna. La mancata comunicazione non aveva permesso di intraprendere le terapie necessarie ed opportune… La Corte ravvisava una negligenza del medico, penalmente imperdonabile a causa del ruolo ricoperto.
- Cass. n. 6464, 8 luglio 1994: Anche se dal punto di vista medico non c’e’ nulla da fare permane l’ obbligo di ottenere il consenso informato del paziente, del tutto autonomo rispetto alla riuscita del trattamento sanitario, e perciò il medico, che abbia omesso di raccogliere il consenso informato, incorre in responsabilità anche se la prestazione sanitaria viene eseguita in concreto senza errori

Solo in caso di incoscienza o di incapacita’ ad esprimere un valido consenso, oppure per espressa volonta’ dell’ interessato e’ possibile delegare ai familiari il potere decisionale, che altrimenti e’ assolutamente personale.

Appare poco sostenibile il concetto (pur difeso da alcuni) di "privilegio terapeutico" (therapeutic privilege degli anglosassoni),. con cui si intende la facoltà da parte del medico di omettere di dare alcune informazioni in circostanze particolari, purché ciò sia a vantaggio del paziente. Esso puo’ attuarsi solo con l’ esplicito e documentato consenso preventivo del paziente o in circostanze particolarissime.

In conclusione:
In passato, all’ epoca dell’ assistenza “paternalistica” mi e’ capitato di assistere a veri e propri abusi commessi ai danni di persone che ignoravano le proprie disperate condizioni di salute: testamenti non fatti, affari sballati, figli naturali non riconosciuti, necessita’ religiose e spirituali non adempiute.

Non deve piu’ succedere: seppure con i dovuti modi al paziente si deve dire sempre la verita’, anche se e’ difficile

Eccezioni:
- Paziente incapace di intendere (soggetto minore, o interdetto o incapace, anche temporaneamente, di intendere)
- Stato di necessita’ (art. 54 C.P.), piuttosto raro: necessita’ di proteggere la vita o la salute di terze persone. .
- Documentata volonta’ del paziente di delegare l’ informazione unicamente a terzi

Per esperienza personale e’ piu’ semplice “contrattare” quest’ ultima disposizione in un periodo tranquillo (all’ inizio del rapporto di fiducia in un momento che, pur nel timore di risultati infausti sia precedente alla diagnosi finale di malattia) e’ tuttavia possibile, con le opportune cautele comunicative, effettuarlo in qualsiasi momento soprattutto trovandosi di fronte alla ben nota tipologia del “paziente dipendente”, quello che tende a delegare al medico le scelte difficili.

I Medici di Famiglia potrebbero ad esempio includere tale accordo nel modulo di consenso ai dati personali che viene fatto firmare ad ogni paziente: basterebbe una riga con due-tre opzioni, del genere: “desidero che i dati inerenti le mie condizioni di salute, in caso di gravi patologie, vengano comunicati 1) solo a me 2) solo ai miei familiari XXYY 3) a me e anche a WWWZZZ”.
Una simile postilla potrebbe evitare in seguito parecchie situazioni difficili.

Per il resto, tenendo a mente le raccomandazioni del Codice Deontologico, ci si affidera’ alla naturale empatia del medico, o alle tecniche comunicative del modello SPIKES, gia’ accennate e che cerchero’ di approfondire in un prossimo articolo.

Daniele Zamperini



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