MEDICI SI NASCE o SI DIVENTA?
Categoria : professione
Data : 01 gennaio 2024
Autore : admin
Intestazione :
PENSIERINI DI INZIO ANNO
Testo :
Cari Colleghi inizia un nuovo anno. La nostra professione è radicalmente cambiata e quotidianamente ci propone nuove sfide che potremo affrontare non solo raccogliendo nuove conoscenze, ma piuttosto acquisendo nuove competenze. Dobbiamo cambiare per assistere meglio i nostri pazienti ma anche per ottenere maggiori gratificazioni dal nostro lavoro( e quindi star meglio noi...) Ogni cambiamento tuttavia nasconde alcune insidie: la assistenza a distanza ad esempio ( la cui migliore espressione è la Telemedicina) ha evidenziato molti aspetti positivi nel corso della pandemia ma sta evidenziando anche preoccupanti limiti e "bias" che approfondiremo in una prossima pillola.
Intanto per iniziare l'anno vi proponiamo la prima parte di una nostra riflessione condivisa, pubblicata in un recente testo(1)
Quando si decide di diventare medico sicuramente ci si espone a una scelta con alcuni rischi. Durante la vita professionale, infatti, si potranno avere molte soddisfazioni ma anche molte delusioni, vari insuccessi, stress e difficoltà che potranno minare il benessere psichico e le relazioni familiari. Se per esempio si sceglie di fare il medico di famiglia ci saranno giorni di intenso lavoro dove si dovranno visitare decine e decine di persone ed effettuare varie visite domiciliari. Spesso a ogni paziente non si potrà dedicare che una manciata di minuti durante i quali si dovrà fare una diagnosi e proporre una terapia. Il rischio di sbagliare non è trascurabile e, soprattutto nei primi tempi, il medico dovrà confrontarsi con la paura dell’errore. Se si sceglie la carriera ospedaliera si dovrà essere pronti a turni di lavoro prolungati, a sacrificare le festività, ad affrontare colleghi e superiori non sempre propriamente affabili. Ne potrà anche risentire la vita familiare con incomprensioni e difficoltà. Buoni medici quindi non si nasce, però si può fare molto per diventarlo. Ma quali sono le qualità indispensabili a un buon medico? Da un punto di vista generale possiamo dire che esse sono di due tipi: le competenze tecniche e le qualità umane. Le qualità umane di un medico sono importanti come quelle più prettamente scientifiche e tecniche. E forse lo sono anche di più perché sono quelle che migliorano e rendono stabile e soddisfacente il rapporto con il paziente. Sono qualità relazionali ed emozionali che qualificano il medico come uomo e non come un freddo tecnico con il camice bianco. La relazione medico-paziente è radicalmente cambiata negli ultimi decenni. Fin dalla notte dei tempi questa relazione era di tipo paternalistico. Secondo questa concezione chi è depositario del sapere (il medico) agisce per il bene del paziente senza che sia necessario il suo assenso, che viene dato per implicito per il fatto stesso di richiedere una cura. Si tratta di una relazione fortemente asimmetrica perché il paziente viene considerato non solo privo delle conoscenze tecniche per poter decidere, ma gli si nega anche l’autodeterminazione. Nel corso degli ultimi decenni del ventesimo secolo, tuttavia, la pratica medica ha subito delle profonde trasformazioni, anche per la sempre maggiore autonomia decisionale richiesta dai pazienti. Oggi nessuno nega il diritto del paziente di decidere per sé, di essere adeguatamente informato e di poter scegliere le cure che più ritiene opportune oppure di rifiutarle. In altre parole la relazione si è fatta più paritaria perché viene riconosciuto il diritto del paziente di esprimere la propria volontà e autonomia decisionale. Rimane sempre un rapporto squilibrato dove il paziente è la figura più debole (sia perché malato sia perché obiettivamente non in possesso del bagaglio culturale e tecnico per valutare appieno per esempio l’efficacia di una terapia o la bontà di un intervento chirurgico). Ma la relazione tra medico e paziente ha bisogno soprattutto che ci sia fiducia reciproca. La fiducia è un bene prezioso che va conquistata giorno per giorno. Non si può ignorare che oggi la fiducia delle persone nei medici e nella medicina in generale ha subito un grave colpo. Spesso il paziente si chiede: ma questo farmaco che mi è stato prescritto è veramente utile per la mia malattia oppure il medico me l’ha ordinato perché ha un interesse economico? Mi hanno detto tutta la verità? E si può arrivare al sospetto o alla diffidenza come ha recentemente dimostrato la sfiducia di molte persone nei vaccini per la Covid-19.
Competenze tecniche
È pleonastico affermare che un medico deve essere in grado di fare il suo lavoro. Per un medico di famiglia o un internista è indispensabile saper raccogliere una buona anamnesi, saper effettuare un esame obiettivo, essere in grado di elaborare delle ipotesi diagnostiche, saper scegliere gli accertamenti e le consulenze più appropriate e decidere la terapia adatta per quel paziente. Per un chirurgo sono necessarie doti di manualità, una buona dose di resistenza fisica (si possono passare molte ore in sala operatoria) oltre che capacità diagnostiche relativamente almeno all’area di propria competenza. Insomma, per ogni tipo di medico, saranno indispensabili capacità tecniche specifiche. Tutto questo è ovvio, ma non può prescindere da un punto essenziale: si deve sempre avere l’umiltà di sapere di non sapere. Lo aveva sottolineato già Socrate durante il suo processo. Il filosofo greco sosteneva che il vero sapiente è colui che si rende conto di non sapere e non si illude di sapere ignorando la sua stessa ignoranza. Tuttavia è proprio partendo da questa consapevolezza che si possono migliorare le proprie competenze studiando continuamente, aggiornandosi, ascoltando i suggerimenti di colleghi più esperti, non esitando a chiedere una seconda opinione quando si è incerti. Ammettendo che le nostre conoscenze non possono essere che parziali e incomplete diventeremo un medico migliore. L’esempio che segue è illuminante. F.R. è una paziente di 44 anni che lamenta da qualche mese una sintomatologia caratterizzata da facile faticabilità e mialgie/artralgie diffuse. L’esame obiettivo è del tutto negativo. La pressione arteriosa è di 110/65 mmHg, la frequenza cardiaca di 65 bpm, nulla a livello polmonare, addome trattabile, non dolente. Il medico è orientato a ritenere la sintomatologia come conseguenza di un periodo di stress e ansia secondari a problematiche familiari. Inoltre forse i valori di pressione ai limiti inferiori possono essere una concausa che aggrava i sintomi. Tuttavia il medico ha anche l’umiltà di pensare che potrebbe sbagliare e per precauzione decide di approfondire il caso. Procede quindi a fissare un altro appuntamento alla paziente e intanto prescrive un placebo: “La rivedo tra qualche giorno, così vediamo come va” dice. In serata controlla alcuni siti internet e un paio di testi di diagnosi differenziale e così riapprende (durante la visita non ci aveva pensato) che un’astenia che dura da qualche mese potrebbe essere causata anche dalla miastenia. Lui però casi non ne ha mai visti, data la relativa rarità della malattia. Per avvalorare il sospetto diagnostico si possono eseguire alcune facili manovre semeiologiche. Dopo qualche giorno F.R. si ripresenta in studio per la visita di controllo. Il medico effettua le manovre che confermano che effettivamente potrebbe essere una miastenia gravis. Ma ora il medico è preparato e sa quali esami di laboratorio richiedere, esami che confermano in pieno l’ipotesi diagnostica. Un caso se si vuole anche abbastanza banale, ma quanti pazienti vediamo che riferiscono astenia e quante volte eseguiamo le manovre per escludere una patologia rara come la miastenia? E ce le ricordiamo? Il medico del nostro esempio ha avuto la capacità e l’umiltà di ammettere con sé stesso che la prima diagnosi di una sintomatologia su base ansiosa poteva essere sbagliata e non ha esitato a studiare e richiamare nozioni che aveva appreso all’università ma che giacevano nascoste e dimenticate da qualche parte nella sua memoria.
L’ascolto e l’interrogazione del paziente
Varie ricerche hanno dimostrato che molti medici interrompono il paziente già dopo meno di un minuto da quando costui ha iniziato a parlare. Questo modo di procedere frammenta il racconto e può rendere incompleta la raccolta dell’anamnesi con perdita di informazioni importanti per la diagnosi. Inoltre il paziente, se interrotto precocemente e troppo spesso, può ricavarne un’impressione di fretta e noncuranza. Si deve quindi lasciare al malato la possibilità di esprimersi liberamente, di descrivere con il proprio linguaggio i disturbi che lo affliggono senza giudicarli magari bizzarri, curiosi, strampalati. I pazienti non sono medici quindi non possono avere una capacità di espressione codificata entro i canoni scientifici. Se si devono porre delle domande è utile all’inizio ricorrere alle domande aperte. Le domande aperte sono quelle che mettono più a loro agio il paziente e si possono definire come domande in cui chi risponde è libero di esprimersi senza condizionamenti nella descrizione dei suoi sintomi (vedi tabella 1). Questa modalità di interrogatorio indica al paziente che ci stiamo veramente interessando al suo problema e non lo legano a una risposta preconfezionata. Le domande chiuse invece obbligano a una risposta rigida tipo “sì o no” e quindi obbligano il paziente a una risposta rigida e obbligata (vedi tabella 2) Non esiste una regola fissa ma in linea generale si può dire che, dopo aver ascoltato il paziente esporre liberamente i suoi problemi, è utile ricorrere a domande aperte che permetteranno di avere un quadro più ampio e completo della situazione. In seguito, quando già nella nostra mente cominciano a farsi strada le prime ipotesi diagnostiche, si potrà ricorrere a domande chiuse per ridefinire e meglio circoscrivere i disturbi e i sintomi lamentati.
Tabella 1. Esempi di domande aperte
Mi descriva con parole sue cosa si sente Come descriverebbe il suo disturbo? Cosa pensa circa la sua malattia? Quali crede che siano le conseguenze che questi disturbi avranno sulla sua salute?
Tabella 2. Esempi di domande chiuse
Il dolore compare prima o dopo i pasti? Dopo uno sforzo? La vertigine si accentua se muove la testa? La stanchezza è presente solo alla sera o anche al mattino? La diarrea si associa anche a vomito? La cefalea si accompagna a fotofobia?
Alla fine è utile riassumere al paziente quanto si è ascoltato iniziando con una frase tipo: “Allora, vediamo se ho capito bene…”. Utile anche chiedere: “C’è qualcosa d’altro di cui desidera parlarmi?”. Questa strategia evita la cosiddetta domanda sulla porta. È una domanda che il paziente pone quando sta per uscire e che spesso nasconde il vero motivo della visita. È importante anticiparla per evitare che il problema venga relegato alla fine senza potervi dedicare il tempo e l’attenzione necessari. Continua in una prossima pillola
Tratto da:
Giampaolo Collecchia, Riccardo De Gobbi, Roberto Fassina, Giuseppe Ressa, Renato Luigi Rossi, Daniele Zamperini
GUIDA ALLA PROFESSIONE DI MEDICO IL MIO LIBRO EDIZIONI
http://ilmiolibro.kataweb.it/libro/medicina-e-salute/666455/guida-alla-professione-di-medico/
Rielaborato da Riccardo De Gobbi
|