DIARIO DI UN MEDICO - Terza puntata
Categoria : Narrativa
Data : 12 gennaio 2024
Autore : admin
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Questa è la terza puntata di un breve racconto che abbiamo trovato nelle pagine ingiallite di un vecchio diario tenuto da un medico di campagna. Qui le prime due puntate: http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8307 http://www.pillole.org/public/aspnuke/news.asp?id=8308 Buona lettura.
Renato Rossi
Di solito durante il giro dei malati il professore guardava la cartella clinica appesa alla testata del letto e commentava gli esami, mentre l’infermiera prendeva la pressione. Qualche volta si arrabbiava perché si erano dimenticati di riportare la temperatura o la diuresi delle ultime 24 ore. Un giorno notai che un paziente guardava il professore con viso ansioso e preoccupato e cercava di carpire qualcosa di quello che dicevamo. Ma il nostro era un linguaggio tecnico, per addetti ai lavori, che lui non poteva comprendere. Quando stavamo per andare via il poveretto prese coraggio e timidamente, con fare titubante, quasi volesse scusarsi per l’ardire, si rivolse a noi dicendo: – Mi scusi professore, allora cosa mi può dire, cosa risulta dagli esami che ho fatto ieri? Si percepivano nel tono della voce l’ansia e la paura. Il professore si fermò, forse indispettito per essere stato interrotto in quella maniera, e si inoltrò in una spiegazione complicata e per il malato incomprensibile. Mentre uscivo osservai la faccia del pover’uomo e mi fece pena. Forse la mia faccia esprimeva quanto mi stava passando per la mente perché uno degli assistenti mi prese per il braccio, facendo cenno di fermarmi. Quando il professore e tutto il codazzo che lo seguiva si furono un poco allontanati, l’assistente mi disse: – Non aver pensiero, e so quello che ti passa per la testa. Con calma andrò poi a spiegare a quel poveretto, in una lingua comprensibile, cos’è la sua malattia e cosa possiamo fare per curarla. Quell’assistente mi era simpatico, avrà avuto sui trentacinque anni, portava i capelli un po’ lunghi sul collo e aveva il camice sempre sbottonato. Veniva in reparto con i jeans e le scarpe da ginnastica bianche e scherzava continuamente con le infermiere. Era benvoluto da tutti per il suo carattere gioviale e sempre disponibile. Se gli facevo una domanda era prodigo di consigli. Mi aveva detto di non esitare a chiedere se avessi avuto dei dubbi o delle incertezze. Purtroppo un giorno non lo vidi più. Chiesi se per caso fosse malato e la caposala mi rispose che aveva fatto domanda di essere trasferito in un ospedale al suo paese. Lì vivevano i genitori anziani e lui era figlio unico e voleva poterli assistere. Ne fui molto dispiaciuto, lo consideravo quasi un amico su cui potevo contare. Durante gli ultimi mesi di università, prima della laurea, l’assistente di reparto che ci seguiva ci fece fare un’esercitazione pratica, che consisteva nel visitare un paziente di cui non sapevamo nulla. Dopo la visita dovevamo esporre le nostre conclusioni diagnostiche e impostare una terapia o, se era il caso, prescrivere degli esami di approfondimento. In seguito tutti i laureandi facevano i loro commenti e poi l’assistente visitava il paziente e traeva le conclusioni. Era un esercizio molto utile per mettere alla prova le nostre abilità, visto che tra poco avremmo dovuto farlo non come prova ma come pratica quotidiana. La cosa interessante era che anche l’assistente vedeva per la prima volta il paziente e quindi non conosceva la diagnosi. A me toccò di visitare una paziente di sessant’anni che riferiva di soffrire da qualche tempo di dolori alle mani e di sentirsi molto stanca. Raccolsi una completa anamnesi, come mi avevano insegnato a fare, e venni a sapere che aveva avuto tre figli e un aborto, che suo marito era morto in un incidente stradale e che in passato era stata operata di appendicite e le era stata riscontrata la pressione un po’ alta, per cui il suo medico curante le aveva prescritto dei farmaci, ma ora lei non si ricordava il nome. Disse solo che erano delle pillole bianche che avevano un sapore un po’ amarognolo. Dopo l’anamnesi eseguii un’accurata visita. A quel punto l’assistente mi invitò a trarre le conclusioni a cui ero giunto e che io esposi un po’ titubante. Poi fu la volta dei laureandi che mi fecero delle domande ed avanzarono delle ipotesi. L’assistente chiese se la mia diagnosi era convincente. Alcuni concordavano con me, ma altri formularono diagnosi diverse. A quel punto fu la volta dell’assistente che domandò alla donna molte più cose di quante non ne avessi chieste io, poi proseguì con la visita che fu lunga e molto accurata. Alla fine espresse la sua diagnosi, molto diversa dalla mia. Credo di essere diventato rosso dalla vergogna, mi sentivo avvampare. Ebbi il coraggio di chiedere come era arrivato a quelle conclusioni. L’assistente sorrise e mi fece notare dei particolari che mi erano sfuggiti. Alla fine controllammo la cartella clinica e vedemmo che effettivamente la diagnosi corretta era quella dell’assistente. Io ero convinto, dopo le notti passate sui libri, tutte quelle nozioni mandate a memoria, tutti quegli anni trascorsi a studiare malattie, di essere pronto ad affrontare la professione di medico. Non avevo incertezze né dubbi. Quella prova mi metteva invece di fronte a un fatto incontestabile: non avevo saputo applicare con diligenza le nozioni che avevo appreso. Mi sentivo molto demoralizzato e triste e mi era di poca consolazione vedere che anche gli altri laureandi non facevano una figura migliore.
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