Il nesso causale e la medicina legale: un chiarimento indifferibile
Categoria : medicina_legale
Data : 28 febbraio 2002
Autore : admin
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1. La pubblicazione dell'importante opera monografica - la cui lettura è da considerare indispensabile anche per i medici legali - dedicata dal penalista Federico Stella al tema della Giustizia e Modernità offre un'occasione, da non perdere, per un indispensabile e addirittura urgente chiarimento sul tema della causalità in medicina legale.
La severa critica che Stella rivolge alla Medicina Legale - cui egli imputa due peccati capitali che sarebbero la conseguenza di una tara di origine risalente agli inizi del ventesimo secolo - è forse in parte eccessiva e frutto di alcuni equivoci, ma tuttavia adduce anche motivi che impongono una seria riflessione, ed un tentativo di fare chiarezza. Invero in questi ultimi anni dei tentativi in tal senso sono stati compiuti, alcuni anche recentemente. Anche in questo ambito, tuttavia, come per altri cruciali temi della Medicina Legale, non si è soddisfatta l'esigenza di dar seguito ad isolati interventi e convegni ad hoc, con una conclusiva Conferenza di Consenso che elabori un documento chiaro ed univoco da sottoporre agli studiosi ed operatori della materia, nonché a giuristi, magistrati ed avvocati.
La tara di origine, secondo Stella, consisterebbe in un antico articolo di Antonio Cazzaniga che, nel lontano 1919, ha rivendicato l'autonomia del concetto di causa nell'ambito della medicina legale negando che essa possa accogliere la concezione condizionalistica e proponendo una criteriologia per l'accertamento del nesso causale rimasta in vita nel corso del secolo, sia pure con modificazioni di qualche concetto, e della terminologia, apportate da alcuni autori.
Da questa lontana impostazione dottrinale sarebbero derivati i due peccati capitali della medicina legale.
Il primo "peccato capitale" è così individuato da Stella: "l'aver ripudiato e il continuare a ripudiare il concetto di condizione necessaria, cioè il concetto pacificamente utilizzato nel nostro ordinamento".
Il secondo "peccato capitale" è "l'aver elaborato dei criteri di accertamento del rapporto causale, la c.d. criteriologia, che nulla hanno a che vedere con l'accertamento del nesso di condizionamento".
Questo breve passaggio critico dell'analisi compiuta nell'opera di Stella - che dedica l'intero suo quinto capitolo a "La mancanza di certezze della scienza" - è inserito nell'ampia trattazione comparatistica, che, con un linguaggio accessibile anche per chi non sia giurista, affronta il problema cruciale della giustizia penale europea. L'Autore ritiene, con il conforto di molti altri studiosi italiani e stranieri, che essa sia tuttora profondamente influenzata dal retaggio autoritario che deriva dalla storia dell'Europa. Mentre nei paesi di common law si esigono in sede penale prove "oltre il ragionevole dubbio" - sia in ordine alla colpevolezza che alla causalità - in Europa domina ancora il pericoloso ed opinabile principio del "libero convincimento" del giudice che si riflette molto negativamente sul principio democratico fondamentale della "presunzione di innocenza".
Nel corso della sua approfondita analisi, che prende spunto soprattutto dai problemi giudiziari connessi allo sviluppo tecnologico - come i processi per danni da prodotti industriali, da inquinamento, da vendita di taluni farmaci come il talidomide; per il disastro del Vajont ed altri noti eventi giudiziari italiani e stranieri - Stella denuncia lo slittamento del diritto penale di evento e della causalità verso la sostituzione della condicio sine qua non con la causalità generale: si tende sempre più ad interpretare la condicio sine qua non come condizione necessaria non già dell'evento, bensì dell'aumento del rischio.
È un pericolo incombente che si è manifestato proprio nei settori che maggiormente connotano la "modernità" cioè l'attività medica, le alterazioni ambientali, i danni da prodotto. In questi settori una parte della giurisprudenza italiana del merito e di legittimità, in sintonia con parte della dottrina, ha compiuto negli ultimi vent'anni passi che allontanano sempre di più il diritto di evento e di causalità condizionalistica. Questa evoluzione, che è da molti giudicata negativa, è stata autorevolmente richiamata con chiarezza dalla Commissione ministeriale istituita con D.M. 1 ottobre 1998 che ha elaborato un nuovo Progetto preliminare di riforma del codice penale.
Nella relazione al Progetto, la Commissione ha espresso analoghe preoccupazioni specie al riguardo di quel minimo indispensabile per imputare a chiunque un reato: cioè che sussista il nesso causale tra la sua azione, od omissione, e l'evento.
Lo scivolamento verso l'impiego progressivo del criterio di probabilità in luogo di quello di certezza del nesso causale - che sembra abbia avuto una battuta di arresto in più recenti sentenze della Corte di Cassazione - ha indotto la Commissione a progettare due articoli che, se davvero faranno parte dell'annunciato nuovo codice penale, non consentiranno equivoci, perlomeno in linea di principio. L'art.13 prevede infatti che "Nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato". A sua volta il progettato art. 14 prevede, circa i reati omissivi, che "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento".
Il progetto di riforma pone dunque basi precise e chiare non solo al principio della condizione necessaria, essenza della dottrina condizionalistica, ma anche a quello della certezza del nesso causale anche nel caso di condotte omissive.
La civiltà giuridica delle democrazie avanzate si misura, in sede penale, nelle regole che devono garantire da un lato la protezione dell'innocente dall'altro quella della vittima attraverso un sistema rigoroso di prove raggiunte "oltre il ragionevole dubbio" quale richiesto nei paesi di common law. È questo il tema di fondo della monografia di Federico Stella.
2. A sostegno della sua critica rivolta al primo peccato capitale della medicina legale, Stella cita dei passi di alcuni autorevoli medici legali nei quali la teoria della causalità adeguata (di von Kries) sembra presentata come preferibile o, addirittura, come quella accettata dal vigente ordinamento italiano che invece, come già ricordato, si basa, indiscutibilmente, sulla teoria della condicio sine qua non (di von Buri), cioè della condizione necessaria o dell'equivalenza delle cause. Così risulta dagli art. 40 e 41 del vigente codice penale benché in essi l'espressione "condizione necessaria" non figuri.
Non può negarsi, riandando alla lettura di alcuni tra i più noti testi di Medicina Legale, che la giusta esigenza didattica di presentare ai lettori le due principali teorie della causalità nel diritto che si sono contese il campo a partire dalla seconda metà dell'ottocento, non è sempre accompagnata dalla chiara informazione conclusiva: cioè che i paesi europei seguono la teoria condizionalistica e non quella della causalità adeguata. Ne consegue il rischio di equivoci, purtroppo spesso realizzato, e della conseguente diffusione di concetti giuridicamente impropri, e di applicazioni medico-forensi altrettanto improprie ed erronee.
Questo è il nodo sul quale non sono ammessi equivoci ed incertezze per cui il richiamo, allarmato e severo, di Federico Stella, è da ritenere in linea di massima motivato. E lo è ancor più dopo la citata presa di posizione della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale.
Un'attenuante si deve invero riconoscere agli autorevoli medici legali che hanno dato luogo a quello che riteniamo sia più che altro un equivoco. Essa consiste senza dubbio nel frequente intrecciarsi del loro duplice ruolo di studiosi e di operatori nella pratica forense.
Il compito dello studioso di Medicina Legale è particolarmente difficile, talora arduo, quando rivolge le proprie analisi e valutazioni a quegli aspetti dottrinali della disciplina che appartengono all'area denominata Medicina Giuridica per distinguerla dalla Medicina Forense.
La prima riguarda lo studio dei problemi giuridici che richiedono l'intervento della Medicina Legale e se è ben vero che essa si occupa prioritariamente del diritto condendo - proponendo ai giuristi ed al legislatore suggerimenti nella fase di elaborazione di nuove norme - è altrettanto vero che anche i grandi problemi del diritto vigente richiedono continuamente analisi e proposte, si tratti di norme vigenti da tempo ovvero, a fortiori, di norme di recente emanazione. È anche evidente che la Medicina Giuridica del diritto vigente è in più stretta connessione con la Medicina Forense, intesa come quella parte della disciplina che si esprime nella professione giudiziaria ed extragiudiziale.
La Medicina Giuridica che si occupa del diritto condendo - autorizzata a farlo in forza dell'esperienza pratica medico-forense che può suggerire modifiche legislative - gode senza dubbio di una maggiore libertà nel formulare analisi e proposte. Ma anche queste devono ovviamente rimanere entro i binari della scienza giuridica, che d'altro canto sono in genere insufficientemente noti a gran parte di coloro che abbiano un curriculum scolastico medico, a differenza dei pochi medici che sono in possesso anche di una laurea in giurisprudenza.
Nell'ambito del diritto vigente, invece, il compito dello studioso di medicina legale è più ristretto, condizionato com'è, e deve rigorosamente essere, dalle norme esistenti, ed anche dalle interpretazioni di esse elaborate dai giuristi. A queste inderogabili esigenze deve dunque tassativamente adeguarsi la metodologia medico-legale.
Non può sussistere dunque alcun dubbio, nell'ambito della Medicina Forense, sul fatto, di cui il medico legale deve prendere atto operando in conseguenza, che la teoria condizionalistica della causalità - non già quella della causalità adeguata - è quella che sta alla base del nostro attuale ordinamento: e lo sarà probabilmente anche, e forse con ancor maggiore evidenza, nel futuro codice penale.
Non è immaginabile che i medici legali abbiano in proposito idee divergenti nel corso della loro attività pratica, in quanto la loro funzione "ancillare" rispetto alle esigenze della giustizia richiede anzitutto, e primariamente, che essi conoscano la realtà dell'ordinamento vigente e ad essa adeguino sia le proprie elaborazioni dottrinali de jure condito, sia, ancor più, le loro prestazioni professionali.
Ne consegue che non solo i principi seguiti, ed insegnati a studenti e specialisti, devono essere inderogabilmente quelli provenienti dall'ordinamento, ma che anche la terminologia impiegata deve essere quella "ufficiale", proveniente dalle norme giuridiche e non deve consentire divagazioni neologistiche. È questa la ragione per cui si è già in passato raccomandato, in tema di nesso causale, l'abbandono di espressioni come "causa occasionale" "momento sciogliente" "momento rivelatore": concetti ed espressioni assenti dall'ordinamento e fonti non infrequenti di equivoci e di errori in un settore già per proprio conto gravato da grandi difficoltà concettuali e, soprattutto, applicative.
Una cosa è tuttavia la teoria della causalità adeguata (che, fra l'altro, restringe e non amplia la responsabilità dell'imputato) ed altra cosa è il concetto scientifico di idoneità od adeguatezza, il quale è imprescindibile premessa qualunque sia la dottrina causale che un determinato ordinamento adotta.
3. Il secondo "peccato capitale" che Federico Stella addebita alla Medicina legale è, come abbiamo più sopra riferito, è l'aver elaborato dei criteri di accertamento del rapporto causale, la cosiddetta "criteriologia", "che nulla hanno a che vedere con l'accertamento del nesso di condizionamento".
Questa forte affermazione contiene anch'essa, come spesso succede, delle motivazioni che in parte la giustificano ma nel contempo deve essere contestata in linea di principio: con le correlativa conseguenza di riaffermare l'assoluta necessità di avvalersi di un metodo, comunque lo si voglia chiamare.
Corrisponde indubbiamente al vero la constatazione, purtroppo assai frequente, dell'uso improprio, in sede peritale, della "criteriologia" per l'accertamento del nesso causale. Si leggono elaborati peritali nei quali si afferma la sussistenza di un nesso causale senza adeguate analisi, discussioni e coerenti motivazioni conclusive: sostituite dalla mera dichiarazione di aver utilizzato i criteri cronologico, topografico, di idoneità lesiva, di continuità fenomenologica, di esclusione di altre cause, ed altri. Questo penoso espediente vorrebbe far credere al lettore dell'elaborato tecnico, in genere ignaro benché magistrato od avvocato, che il perito possiede magiche formule di analisi dei dati, troppo lunghe da spiegare: ma che garantiscono, solo dichiarando di avervi fatto ricorso, la "bontà del prodotto".
Questa realtà, che non si esita a definire dolorosa per chiunque abbia a cuore la giustizia, prima ancora che la medicina legale, fa comprendere l'indignata reazione di Mauro Barni che giudica i criteri un metodo "antiscientifico" e ne propone l'abbandono, trovando consenso, come si è detto, nell'affermazione di Stella.
Detto questo per amore di verità, non si può e, ad avviso di chi scrive, tanto meno si deve, rinunciare ad avvalersi di un metodo medico-legale di elaborazione scientifica dei dati al fine di esprimere un parere tecnico motivato sull'esistenza o meno di un nesso causale tra un'azione od omissione, ed un evento.
Non è questa la sede, né l'autore dell'editoriale ha competenza adeguata, per affrontare il problema generale del metodo, cui Federico Stella dedica il già citato capitolo quinto della sua opera. È certo comunque che non esiste attività umana, anche la più elementare, che non esiga l'impiego di un metodo inteso come "l'insieme di prescrizioni relative allo svolgimento di un'attività in modo ottimale" o, secondo altre correnti definizioni come "modo di procedere razionale per raggiungere determinati risultati"" od ancora "procedimento atto a garantire, sul piano teorico o pratico, la funzionalità e la costanza di un lavoro o di un comportamento".
Si designa notoriamente con il termine metodologia la dottrina del metodo cioè lo studio o il complesso dei principi di metodo su cui è fondata o dai quali risulta legittimata una scienza o una disciplina.
Nella storia del pensiero occidentale i problemi filosofici del metodo hanno avuto una complessa ed alternante evoluzione, che qui non rileva ricordare, fino alle posizioni di P. Feyerabend (1970) che negano interesse alla ricerca metodologica. Non abbiamo veste per inserirci in un così alto dibattito. Ma, sul piano pratico, non riteniamo tuttavia ragionevole attestarsi su posizioni agnostiche e rinunciatarie, memori da un lato del proverbio che considera "il meglio nemico del bene", dall'altro che la medicina forense si pratica quotidianamente in un numero elevatissimo di casi, per cui sarebbe irrazionale ed ingiustificato lasciarla priva di linee-guida metodologiche.
La Medicina Legale, come tutte le scienze, pure ed applicate, ha dunque un assoluto bisogno di avvalersi di un metodo per ciascuno dei settori che impegnano la sua attività. Anche la conoscenza critica dei limiti del metodo fa parte integrante di esso, ed anzi ne costituisce forse la parte più importante perché aiuta ad evitare gli errori: che in sede giudiziaria sono di particolare gravità e, purtroppo, gravano spesso proprio sulle spalle dei periti la cui opera, trasmessa ai giudici, costituisce di frequente una base decisiva nella formazione del loro "libero convincimento".
La dottrina della condicio sine qua non, nella sua aggiornata versione che la giurisprudenza, anche della Cassazione, sta progressivamente adottando, richiede la "copertura" di leggi scientifiche. Si ricordano i principi enunciati in proposito da Engisch (1931) secondo cui "il concetto di causa penalmente rilevante coincide con il concetto di causa proprio delle scienze naturali" e "il rapporto causale può essere accertato solo impiegando il criterio dell'assunzione sotto leggi naturali".
Alla teoria condizionalistica, nella sua forma originaria, era stata formulata la critica di non soddisfare ai casi in cui mancano conoscenze sicure e probanti circa il valore eziologico di un determinato evento. Il ricorso alle leggi scientifiche può (talora) superare gli ostacoli: ma a questo proposito Stella ritiene non si possa seguire Engisch quando sostiene che la condizione sine qua non deve essere sostituita con il concetto di causa proprio delle scienze naturali.
È comunque indispensabile avvalersi in primo luogo del metodo generalizzante di spiegazione causale anziché del metodo individualizzante.
Il metodo individualizzante si basa sul principio di accertamento del rapporto causale in eventi singoli e concreti, essendo privo di importanza il fatto che essi siano eventualmente unici e non riproducibili in futuro. La prova del rapporto causale sarebbe fornita dallo stesso svolgersi dei fatti nella loro storia e dalla successione temporale che collega il secondo accadimento al primo. In pratica questo metodo si fonda largamente sul principio del "post hoc ergo propter hoc" e, in sede giudiziale, finisce per non obbligare il giudice a ricercare leggi causali idonee a spiegare scientificamente perché e come l'evento sia conseguenza dell'azione criminosa. Seguendo questa linea, applicata ai casi in cui la spiegazione scientifica possa risultare oggettivamente difficile, si lascia in realtà al giudice di decidere in base al proprio convincimento sulla realtà del rapporto causale ed indipendentemente dalla possibilità di conoscere la precisa natura della relazione causale. Di fatto questo "metodo" si applica in numerosi casi, con il contributo rilevante dei periti che raggiungono dapprima un proprio convincimento cui cercano di dare una veste tecnica pur su basi incerte ed opinabili, ed in tale veste lo trasmettono al giudice che finisce spesso col ritenerlo un parere scientificamente fondato e su di esso basa la propria decisione.
Il metodo generalizzante comporta invece il ricorso a leggi generali che individuano rapporti di successione regolare tra l'azione e l'evento, considerati non come accadimenti singoli e unici, bensì come accadimenti ripetibili. Anche questo metodo richiede, ovviamente, che si faccia riferimento all'evento concreto. Ma questo viene ridescritto in modo tale da inserirvi quegli aspetti causali ripetibili mancando i quali l'evento non si sarebbe verificato in quel determinato luogo ed in quel momento. La teoria che si basa sul "metodo generalizzante" obbedisce principalmente alle esigenze di garanzia richieste dal fatto che il nesso causale è un requisito fondamentale nei reati di evento, per cui la sua determinazione non può essere lasciata alla discrezione del giudice ma deve essere affidata a metodi il più possibile verificabili e controllabili.
Poiché il giudizio sul rapporto causale deve essere motivato, la motivazione non può dunque essere basata se non sul modello della sussunzione sotto leggi scientifiche: un antecedente può essere considerato come condizione necessaria (condicio sine qua non) solo se rientra nell'ambito degli antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica (cosiddetta legge generale di copertura), producono eventi del tipo di quello verificatosi in concreto.
È un metodo, quello "generalizzante", da adottare con piena convinzione, specie da parte dei medici legali che, professando una disciplina biomedica scientifica, hanno l'esigenza culturale ed etica di utilizzare i dati della scienza per dare contenuto tecnico adeguato al loro lavoro al servizio della giustizia.
A questo punto, però, bisogna distinguere - per evitare ulteriori equivoci concettuali e semantici - tra "causalità generale" intesa come idoneità o probabilità statistica ex ante, che coincide con il concetto di aumento del rischio, e la "causalità individuale", la cosiddetta causa bur for degli anglosassoni "che deve essere provata da esperti, attraverso tests e pareri che sono espressione di una conoscenza e di un metodo scientifico affidabile".
Tuttavia, come spesso avviene, le enunciazioni di principi incontrano non solo difficoltà applicative a causa delle insufficienze di molti di coloro che devono attuarli in pratica, ma anche per reali difficoltà che si possono talora -ma non sempre - superare solo avvalendosi, appunto, del metodo scientifico. Il quale poggia senza dubbio su pilastri comuni a tutte le scienze, ma deve possedere anche strumenti specifici per singoli settori. Di tali strumenti specifici ha assoluto bisogno la medicina legale per la sua natura di interfaccia tra la biomedicina ed il diritto, la quale richiede modulazioni particolari.
Rinunciare all'elaborazione di un metodo significa dunque abbandonare ulteriormente l'attività peritale medico-legale nelle mani di improvvisatori privi di bussola, non di rado dotati di conoscenze mediche insufficienti, accoppiate a sostanziale ignoranza delle norme giuridiche e della loro interpretazione alle cui esigenze devono conformarsi i pareri tecnici.
4. La Metodologia medico-legale può schematicamente dividersi in due parti interconnesse: la parte medico-biologica e la parte medico-forense.
La parte medico-biologica riguarda tutti gli accertamenti, diretti o indiretti, che il medico legale esegue avvalendosi delle conoscenze, degli strumenti e dei metodi propri della medicina e della biologia: con l'obiettivo di formulare una diagnosi clinica, anatomo-patologica o anche soltanto di laboratorio; e, nel vivente, una prognosi circa l'evoluzione futura delle patologie accertate. In questo settore il rigore nella obiettivazione deve essere almeno pari, ma se possibile ancor maggiore, di quello che qualsiasi medico deve imporsi nella pratica clinica.
Anche la diagnosi eziologica, quando è possibile, può essere formulata già in questa "fase medica" dell'operatività professionale. Ma proprio in questo ambito emergono differenze sostanziali che implicano il trasferimento dei problemi causali nella parte medico-forense del metodo, caratterizzandone specificamente la metodologia.
È comune conoscenza che di molte malattie non si conosce la vera causa e che anche in casi di malattie ad eziologia più nota, non sempre la causa è individuabile con certezza. In molte malattie, inoltre, la causa ha già esaurito la propria azione dannosa per cui al medico non resta che la terapia delle conseguenze che, a maggior ragione, viene attuata nei casi in cui l'eziologia della malattia è ignota. In altri termini il clinico può anche prescindere dalla diagnosi eziologica, avendo come obiettivo principale la terapia: eziologica quando è possibile, sintomatica negli altri casi, che sono la grande maggioranza.
Non è così in medicina legale dove - nella maggior parte delle prestazioni professionali -l'obiettivo centrale è l'accertamento dell'eziologia. Tale accertamento è ineludibile e, quantomeno in linea di principio, risponde alla legge del tutto o del niente.
Nella realtà pratica un certo numero di casi, che attengono alla classica patologia medico-legale (lesioni o morte da armi, da cause asfittiche, da elettricità ecc.) consente l'accertamento del nesso causale in modo relativamente facile e quasi immediato. In altri casi, invece,, è necessaria una valutazione complessa che, pur avvalendosi ovviamente di motivazioni provenienti dalle scienze, deve incanalarsi sui binari dettati dalle esigenze del diritto ed è pertanto procedimento che appartiene più specificamente alla parte medico-forense della metodologia medico-legale. È quella parte che, sulla base dei dati accertati direttamente, o comunque acquisiti agli atti, elabora valutazioni in risposta a quesiti -siano essi proposti in sede giudiziale o stragiudiziale -i quali vengono formulati in rapporto alle peculiari esigenze giuridiche del caso.
È evidente che questa parte medico-forense della metodologia medico-legale implica, per il perito, la conoscenza delle finalità giuridiche dei quesiti e quindi anche la sua consapevolezza della rilevanza probatoria delle valutazioni che egli deve esprimere con adeguate motivazioni.
Queste valutazioni -collocate a ponte tra la biomedicina ed il diritto - devono avvalersi di un metodo, modulato a seconda dei vari settori medico-forensi. Tale metodo implica il possesso di criteri cioè di regole di massima per la formulazione di un giudizio e la verifica della sua validità.
La cosiddetta criteriologia, dunque, altro non è che l'uso di criteri resi necessari dal metodo. In sede medico-legale si impiega tradizionalmente il termine "criteriologia" con riferimento ai problemi dell'accertamento del nesso causale. Ma è ovvio che si può legittimamente parlare di "criteriologia" anche per altri tipi di valutazione che si effettuano nella fase medico-forense dell'attività del medico legale.
Una criteriologia è dunque indispensabile per ragioni metodologiche e lo è particolarmente per accertare medicolegalmente i nessi causali. Pertanto non solo l'impiego di criteri di giudizio non deve essere abbandonato, bensì se ne deve ribadire con convinzione la necessità. Nel contempo, tuttavia, si deve anche affermare l'esigenza che si abbandonino le pratiche applicative improprie del passato e, in sede dottrinale, l'uso disordinato, non sequenziale e disarticolato, di criteri usati "alla rinfusa".
Alle pur autorevoli proposte abrogative di Barni e di Stella riteniamo dunque si possa opporre motivatamente la tesi che afferma l'utilità della rilettura migliorativa dell'antica criteriologia, che è da ritenere allo stato attuale priva di alternative: se non quella di lasciare ciascun perito alla mercé di procedimenti arbitrari ed occasionali, fonte di difficoltà ancor maggiori di quelle che i casi presentano per proprio conto.
Deve essere peraltro chiaro che nessuno, ed anche chi scrive, può pensare seriamente che la pur aggiornata criteriologia medico-legale sia la chiave che risolve sistematicamente i problemi scientifici dei singoli casi che la teoria condizionalistica implica, specie nella sua avanzata variante della sussunzione sotto leggi scientifiche di Engisch, importata in Italia da Federico Stella e richiamata in non poche recenti sentenze della Corte di Cassazione.
Tuttavia decretarne la fine a causa di trattazioni dottrinali non concordi, ed un uso peritale improprio, rappresenterebbe senza dubbio una rinuncia ingiustificata e non contribuirebbe di certo ad un migliore dialogo con i giuristi e, soprattutto, a fornire motivati pareri in sede giudiziaria.
Ma è ovvio che riconfermare l'utilità della classica criteriologia è possibile se si chiariscono il significato ed il valore, e nel contempo i limiti di ciascun criterio, e si adotta la necessaria gerarchia ed articolazione coordinata nella loro applicazione sequenziale. Si tratta, a ben guardare di avvalersi di un metodo che metta in ordine logico-scientifico i dati che il caso offre alla nostra analisi e valutazione diagnostica eziologica: per evitare che in assenza di criteri coordinati la valutazione medico-legale sia priva di un binario sul quale incanalare le risultanze del caso.
È questa la linea che da tempo abbiamo proposto e che sinteticamente riproponiamo per brevi cenni in questa occasione ai fini di un chiarimento che appare doveroso ed urgente, stimolato dalle critiche di Federico Stella.
5. Per accertare che un determinato fattore sia stato, da solo o con il concorso di altri fattori (con-cause) la condizione necessaria alla produzione di un evento di danno, è indispensabile stabilire preliminarmente se tale fattore è potenzialmente idoneo a produrre quel danno, nelle specifiche condizioni del singolo caso.
Questo accertamento sostanzia il criterio di possibilità scientifica - terminologia proposta a suo tempo da Rinaldo Pellegrini - da ritenere fondamentale e preliminare ad ogni ulteriore analisi, non certo esaustivo. Tale criterio costituisce il momento essenziale, il primo e fondamentale passo del "ragionamento controfattuale" su cui si basa la teoria della condicio sine qua non. Infatti quando ci si chiede se in assenza di una determinata azione od omissione, ipotizzata o provata nella sua sussistenza, l'evento si sarebbe o meno prodotto, la risposta al quesito deve basarsi anzitutto su di una prima dirimente controdomanda: se sia o meno scientificamente possibile che l'azione od omissione ipotizzata sia in grado di produrre, da sola o con il concorso di altri fattori, quel determinato evento.
Se alla domanda circa la sussistenza o meno di una possibilità scientifica di nesso causale segue una risposta negativa - cioè si può scientificamente escludere anche la mera possibilità di un ruolo causale del fattore lesivo considerato - l'analisi del nesso causale si interrompe proprio in ragione del principio di sussunzione sotto leggi scientifiche. Infatti se una ipotesi è ritenuta, perlomeno allo stato attuale delle conoscenze, scientificamente impossibile, è evidente che il procedimento analitico deve interrompersi in radice e concludersi con la negazione del nesso causale: in altri termini si deve escludere che quel fattore sia stato "condizione contingentemente necessaria" a produrre l'evento.
Tuttavia accertare la possibilità scientifica che un fattore considerato produca uno specifico danno (cioè sia dotato di potenziale idoneità lesiva), significa soltanto constatare una potenzialità scientificamente riconoscibile e riconosciuta: ma è privo di valore conclusivo, in ambito condizionalistico se, dopo aver accertato la mera possibilità, non si è in grado di accertare, con l'applicazione di altri criteri, la certezza del nesso causale o quantomeno la sua elevatissima probabilità. Non vi è alcuna ragione, a questo proposito, di mettere in discussione il principio della possibilità-idoneità scientifica, quasi si ponesse in contrasto con il principio della "condizione necessaria". Quest'ultima non è accertabile come tale, nella cosiddetta "causalità individuale" (cioè nel caso concreto), se non si prestabilisce che appartiene al novero dei fattori causali riconosciuti dalla scienza medico-biologica capaci di produrre un determinato evento di danno.
È evidente che se il perito si limitasse ad accertare la "possibilità" scientifica, e tale conclusione egli trasferisse nelle mani di chi deve giudicare, la risposta avrebbe caratteristiche tali da renderla utile qualora l'ordinamento si basasse sulla dottrina della "causalità adeguata". Ma poiché in Italia, ed in genere in Europa, la dottrina imperante è invece quella della condizione necessaria è evidente che il solo criterio di possibilità scientifica non può certo bastare dovendosi partire dalla risposta positiva a tale criterio, nella direzione del più difficile obiettivo costituito dalla prova positiva del nesso causale: cioè della dimostrazione che, in quello specifico caso, il fattore considerato è stato condizione necessaria a produrre l'evento.
Il criterio di possibilità scientifica non è invero un criterio che si possa soddisfare con strumenti univoci, data l'eterogeneità della casistica e dei correlativi quesiti causali che vengono prospettati. Esso si avvale dunque di procedimenti differenziati a seconda dei casi, i quali tuttavia possono e debbono ricondursi a principi identificabili, in ultima analisi, nelle "leggi universali" o nelle "leggi statistiche" o quantomeno in "correlazioni scientifiche a carattere empirico e logico".
Esistono senza dubbio casi, di comune osservazione in sede medico-legale, in cui il criterio di possibilità consente, sulla base di leggi universali, una risposta facile ed immediata che altrettanto rapidamente e conclusivamente consente subito l'applicazione positiva del criterio di sostanziale ed umana certezza, senza la necessità di ulteriori elaborazioni criteriologiche intermedie.
In tutti i restanti casi, in cui non è utilizzabile alcuna legge universale, si deve ricorrere ai dati statistici, purché ne esistano di disponibili per quella determinata ipotesi. Oppure, in alternativa, si deve ricorrere a correlazioni logiche fondate su conoscenze scientifiche di base e su informazioni casistiche relative a casi consimili, peraltro spesso numericamente insufficienti per consentire vere indicazioni statistiche.
Sono inoltre numerosi i casi in cui la possibilità scientifica non riguarda una idoneità assoluta del fattore eziologico considerato, a produrre l'evento dannoso, bensì una idoneità relativa. È assoluta l'idoneità a produrre la morte di un proiettile che trapassi il cuore, mentre l'idoneità di un pugno inferto sulla regione toracica anteriore, seguito da morte, è relativa alla esistenza di fattori concausali, come ad esempio un aneurisma aortico di cui il trauma contusivo causi la rottura.
La "possibilità scientifica" è dunque soltanto una porta aperta verso l'auspicabile traguardo della certezza, molte volte irraggiungibile, sostituibile molto cautamente con il criterio di probabilità, che recenti sentenze della Cassazione penale stanno riconducendo a livelli vicini alla certezza allontanandosi così dal pericoloso ed inaccettabile criterio adottato in un non lontano periodo della giurisprudenza di legittimità: che era giunta a riconoscere il nesso causale, perlomeno nei casi di responsabilità medica, perfino con probabilità pari al 30%, equivalenti ad una improbabilità del 70%!
La distanza che il perito deve percorrere, nella sua analisi valutativa, tra il criterio di possibilità scientifica, cui egli abbia potuto dare risposta positiva, ed il criterio di certezza - che si spera venga urgentemente introdotto, in modo esplicito, nel nostro codice penale richiedendosi così la prova "oltre il ragionevole dubbio" richiesta nei paesi di common law - può dunque essere talora assai breve, altre volte molto rilevante, caratterizzata da percorsi tortuosi e non di rado insoddisfacenti.
Se un incidente stradale causa ad un individuo gravi lesioni plurime e la morte ne consegue dopo alcuni giorni di ricovero in un reparto di rianimazione, è quasi immediato il raccordo tra constatazioni mediche (cliniche ed autoptiche) e conclusione medico-forense circa il nesso causale con l'incidente. La possibilità scientifica è ovviamente soddisfatta, il decorso clinico ed i dati autoptici conducono alla certezza del nesso causale.
Ma se in altro incidente stradale un individuo subisce un trauma cranio-encefalico di media entità e, un anno dopo l'apparente guarigione presenta una epilessia, il problema peritale è facile a livello del primo criterio - quello di possibilità scientifica - ma quanto alla certezza del nesso causale è traguardo arduo, sostituibile solo in taluni casi da quello di una probabilità elevata da ritenere ragionevolmente vicina alla certezza. Infatti se le conoscenze mediche statistiche e casistiche danno per assodata da moltissimo tempo la natura traumatica di talune epilessie, soddisfacendo così il criterio di possibilità scientifica, esse di per sé non sono in grado di dimostrare che in quello specifico caso il trauma è stato sicuramente la condizione necessaria dell'epilessia.
Esempi di questo tipo possono ripetersi in numero sempre più elevato e molti di essi concernono la "modernità": nell'ambito dell'attività medico-chirurgica, nei danni ambientali e nei danni da prodotto. In queste varie evenienze la scienza riesce ormai, con elevata frequenza, a soddisfare il criterio di possibilità: ma lascia spesso insoluto il problema del singolo caso. Il tumore polmonare di un operaio esposto per anni all'inalazione di sostanze capaci di azione cancerogena può sicuramente essere stato causato da questa esposizione, eventualmente addebitabile a violazioni di norme da parte del datore di lavoro. Ma quel tumore potrebbe essere stato prodotto da altre cause, come ad esempio il fumo di sigarette.
"Che fare", dunque, per colmare le enormi distanze che spesso sussistono tra possibilità scientifica e certezza del nesso causale come "condizione necessaria"?
La risposta non è agevole. E d'altro canto, lo ripetiamo, non ci si può neppure rifugiare nell'agnosticismo e nella fuga dall'impegno professionale.
6. In altra sede si è cercato di indicare una criteriologia di massima per il passaggio dalla mera possibilità scientifica del nesso causale al suo accertamento in termini di certezza o di elevata probabilità. A questo tentativo di razionalizzazione basato su di una rinnovata articolazione dei criteri di giudizio medico-legale rinviamo il lettore non essendo un editoriale, già troppo esteso, la sede per riproporre un'analisi già compiuta in precedenti occasioni. Ci limitiamo a ricordare che il metodo proposto sposta l'applicazione dei noti criteri cronologico, topografico, quantitativo (o di adeguatezza), di continuità, di sindrome a ponte, nella seconda fase dell'indagine, quella in cui, superato positivamente il criterio di possibilità si affronta l'accertamento in concreto del nesso causale. Il criterio di "esclusione di altre cause" ha suoi connotati particolari che sono stati già considerati altrove . Questi criteri, comunque, appartengono primariamente alle valutazioni realizzate mediante la probabilità logica, che si avvale anche dei dati provenienti dalla statistica e dalla casistica.
Detto questo in estrema sintesi, si deve tentare una risposta al quesito che ci siamo proposti nelle ultime righe del paragrafo precedente. La risposta che ci sentiamo di dovere onestamente dare è che in un'ampia casistica della medicina legale moderna - la quale comprende soprattutto i già menzionati settori della responsabilità medica, dei danni ambientali e da prodotto - i medici legali, anche se si avvalgono di un metodo scientifico razionale ed organico nell'analisi dei dati e nel giudizio conclusivo, non sono in grado, se non in un numero ridotto di casi, di fornire pareri che obbediscano al criterio di certezza o di elevatissima probabilità vicina alla certezza nei casi di condotte commissive, e soprattutto omissive, sottoposti alla loro valutazione.
L'obiettivo - auspicato da Stella e da tanti autorevoli giuristi europei - di basare condanne penali su prove della colpevolezza e, ovviamente, del nesso causale "oltre il ragionevole dubbio" è dunque raggiungibile solo in taluni casi. Il più serio e competente dei medici non è spesso in grado di superare gli ostacoli enormi che si frappongono alla dimostrazione scientifica, nel caso concreto, del nesso causale cioè della caratteristica di condizione necessaria attribuita ad una determinata azione od omissione.
La criteriologia è indispensabile, lo ripetiamo: ma è illusorio pensare che possa risolvere i tanti problemi che la pratica medico-forense ci pone di fronte. Bisogna riconoscere che assai di frequente l'ultimo passo, il passaggio conclusivo costituito dalla risposta positiva al quesito sul nesso causale, è frutto del convincimento personale del perito - purtroppo spesso non presentato come tale ma come verità tecnica acquisita - il quale in tal modo supera i limiti imposti dal suo ruolo di consulente tecnico ed alimenta con motivazioni solo apparentemente scientifiche il libero convincimento del giudice: in una catena di debolezze ed insufficienze probatorie che intacca gravemente i diritti dell'innocente.
Questa presa d'atto di una realtà difficilmente contestabile, induce a ritenere del tutto convincente la tesi conclusiva di Federico Stella, secondo cui una vasta area di condotte, riguardante soprattutto i problemi della "modernità", è auspicabile non sia più perseguita in sede penale - se non si dispone di prove "oltre il ragionevole dubbio" - ma sia invece trasferita negli ambiti del diritto civile ed amministrativo, dove il giudizio probabilistico, non necessariamente "vicino alla certezza", può essere ammesso, sia pure anch'esso entro certi limiti.
Angelo Fiori
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