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Nanopatologie: le malattie del XXI secolo

Data : 09 marzo 2006
Autore : admin

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L’argomento non è dei più semplici, e poi, come dicono “quelli che hanno studiato”, non è scritto sui libri. Per quanto riguarda la complessità, vedrò di sfrondare moltissimo e di semplificare per quanto possibile, mentre per il non essere sui libri, posso dire che qualcosa già c’è, e anche di un certo rilievo, e l’argomento sta attirando grande interesse in ambito scientifico.



Alcuni anni fa, lavorando al mio Laboratorio dei Biomateriali dell’Università di Modena e ReggioEmilia, mi accorsi che alcuni frammenti di ceramica micro- e nanometrici (per micro, s’intendono dimensioni intorno ai milionesimi di metro, mentre, per nano, dimensioni di qualche decina o centinaia di miliardesimi di metro) provenienti da una protesi dentaria erano finiti nel fegato e nei reni di un paziente che aveva, per questo, sviluppato delle granulomatosi a carico di quegli organi con una grave compromissione delle loro funzioni. Tolta la protesi e messa in atto una terapia cortisonica appropriata, i sintomi si affievolirono in modo notevolissimo, tanto da risparmiare al paziente il trattamento emodialitico cronico cui pareva inevitabilmente destinato.

Da questo caso concluso felicemente nacque un progetto finanziato dalla Comunità Europea che mi permise, con partner come le università di Magonza e di Cambridge, la FEI, costruttrice di microscopi elettronici, e la Biomatech, azienda di ricerca francese, di allestire una metodica del tutto innovativa di microscopia elettronica e di cominciare una ricerca su malattie di possibile natura infiammatoria definite criptogeniche, vale a dire di origine ignota.



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Da quella ricerca scaturirono scoperte interessantissime che si possono riassumere nell’aver stabilito senza possibilità di equivoco come particelle, cioè polveri, delle dimensioni di cui si è detto possano venire inalate o ingerite e finire, superando con facilità barriere una volta credute impenetrabili o quasi, nel circolo sanguigno. Da lì, portati dal sangue, quei minuscoli oggetti vanno a terminare la loro corsa negli organi più disparati, dal fegato ai reni, dalle ghiandole linfatiche al cervello dove restano imprigionate.

Malauguratamente, le particelle di cui mi occupo non sono biodegradabili, cioè non possono essere “smembrate” fino a diventare eliminabili, e allora l’organismo, impossibilitato a disfarsene, le isola, contornandole di un tessuto infiammatorio che è, appunto, la granulomatosi che io avevo visto nel fegato e nei reni del primo paziente. Come dovrebbe ora essere chiaro, questa infiammazione è provocata da qualcosa d’indistruttibile, e così la patologia diventa cronica, con tutte le conseguenze del caso. E le conseguenze sono tutta una serie di malattie che potrebbero andare da diverse forme di cancro a quelle che sono volgarmente chiamate sindrome del Golfo e sindrome dei Balcani e che io ho classificato in una famiglia, solo apparentemente disomogenea, battezzata da me “nanopatologie”, vale a dire malattie innescate da nano- (e micro-) particelle.

Occorre aggiungere che quelle particelle sono quasi sempre non biocompatibili, il che, in medicina, è un sinonimo di patogeniche, cioè capaci di provocare l’insorgenza di malattie.

A questo punto, è interessante vedere da dove vengono queste polveri che tanti guai paiono provocare.

La sorgente principale è quella dei processi ad alta temperatura, processi che esistono anche in natura e che si estrinsecano principalmente nei fenomeni vulcanici. Insieme con la lava incandescente vengono espulse enormi quantità di sostanze inorganiche (detto un po’ alla buona, sono quelle sostanze che non contengono carbonio) sotto forma di particolato di dimensioni micrometriche, e queste galleggiano nell’aria per giorni o anche per settimane, per poi posarsi a terra, sull’erba, cibo per gli animali, e sui vegetali, cibo anche per gli uomini. Quando le particelle sono sospese, vengono inalate da chi si trova nella zona, mentre quando sono cascate sul cibo, con questo vengono ingerite, iniziando il processo del quale ho detto. I vulcani, tuttavia, non sono particolarmente numerosi (circa 1.500 nel mondo) e, dunque, quella forma d’inquinamento non è presente se non in alcune zone bene individuabili.



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Molto più diffuse e, dunque, molto più importanti, sono le sorgenti antropiche, cioè quelle create dall’uomo.

Le alte temperature sono una conquista relativamente recente della tecnologia: motori a scoppio, fonderie, cementifici, inceneritori, centrali elettriche ad oli pesanti o a carbone, ecc. funzionano tutte sviluppando grandi quantità di calore o necessitano di grandi quantità di calore per funzionare, e sono proprio queste sorgenti le maggiori responsabili dell’inquinamento di cui solo da poco ci stiamo tutti accorgendo, se non altro per i blocchi periodici al traffico automobilistico.

Prendiamo come esempio un inceneritore, ma, con le opportune modifiche, ognuna delle altre sorgenti può funzionare altrettanto bene per comprendere il meccanismo. Nell’inceneritore, dunque, s’introducono rifiuti della natura più disparata, li si brucia e dalla combustione originano fumi e ceneri. Tralasciando il problema dello smaltimento delle ceneri, se si prendono in esame i fumi, si vedrà che questi contengono grandissime quantità di polveri inorganiche di dimensioni piccolissime e della più varia composizione chimica. Per la maggior parte, queste polveri saranno formate da leghe metalliche la cui composizione dipende esclusivamente da quanto era occasionalmente presente nel crogiolo al momento della combustione. Poiché i filtri disponibili per i fumi industriali non sono in grado di fermare il particolato fine (vale a dire quello inferiore alle PM10 sempre più alla ribalta della cronaca), è quel materiale sfuggito, preponderante per numero di particelle, che va disperso nell’aria. Purtroppo, però, è proprio quel tipo di particella, quello che nessun filtro industriale può catturare e quello di cui la legge non tiene conto, a causare alla salute i danni di gran lunga più pesanti, e questo perché, come regola generale ormai riconosciuta da tutti gli studiosi (e riportata sui libri), più fine è il particolato, maggiore è la sua capacità di penetrare all’interno dei tessuti dell’organismo. Particelle molto piccole, dell’ordine di grandezza di poche centinaia di nanometri, possono addirittura insinuarsi fin dentro il nucleo delle cellule con conseguenze ancora da studiare.

Gl’inceneritori più moderni ricorrono a temperature sempre più elevate, riducendo con ciò la dimensione del particolato, in questo modo eludendo le capacità dei normali rilevatori d’inquinamento atmosferico, ma di fatto, paradossalmente, immettendo nell’aria materiale molto più dannoso.



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Discorso analogo si può fare per alcuni tipi di filtri antiparticolato usati per i motori Diesel, la cui tecnica consiste proprio nel ridurre le dimensioni delle polveri emesse dagli scarichi fino a renderle non rilevabili dalle normali apparecchiature.

Dunque, il ricorso a temperature sempre più alte pare non essere una scelta particolarmente saggia. Anzi, non ha proprio l’aria di un sistema per evitare che questi rifiuti ci facciano male ma piuttosto un gioco di prestigio per sottrarre alla vista (e, soprattutto, alla sensibilità degli strumenti di uso normale) qualcosa che non ci fa piacere.

Per concludere, ogni giorno arrivano al nostro laboratorio Nanodiagnostics di Modena reperti bioptici provenienti da soggetti ammalati nei cui tessuti, con il nostro metodo di microscopia elettronica, troviamo polveri fini ed ultrafini (le PM10 si classificano come “grossolane” e sono assai meno patogeniche). I militari italiani, e non solo italiani, e i civili coinvolti nelle esplosioni ad alta temperatura delle guerre del Golfo e dei Balcani sono tra i soggetti che incontriamo più frequentemente, ma vediamo anche materiali provenienti da New York e appartenenti a persone che hanno respirato le polveri prodotte dal crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre 2001, insieme con persone abitanti in zone influenzate da centrali elettriche ad olio pesante o da fonderie.

Al momento si sta lavorando a livello europeo per dar vita ad un istituto di eco-nanotossicologia che, unendo le forze degli scienziati che del problema abbiano reale competenza, arrivi ad individuare parametri meno incerti per quanto riguarda, ad esempio, tossicità chimica e dimensionale delle polveri, e concentrazioni tollerabili e, soprattutto, arrivi ad individuare sistemi efficaci di prevenzione.

Nel frattempo, il principio di precauzione dovrà essere applicato in ogni caso incerto e il vecchio, troppo spesso dimenticato, buon senso dovrà servire da guida.

Come ho detto all’esordio, l’argomento è molto complesso ed articolato e non può certo essere esaurito in questo breve articolo, non sfiorando nemmeno molti aspetti del problema.

Chi vorrà altre informazioni potrà consultare il sito www.nanodiagnostics.it o scrivere all’indirizzo info@nanodiagnostics.it.

Antonietta M. Gatti, S. Montanari*

Laboratorio dei Biomateriali, Dipartimento di Neuroscienze, Università di Modena e ReggioEmilia

*Nanodiagnostics, Modena




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