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Un vestito a misura d'uomo |
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Rossi: Intendevo dire che dobbiamo passare da una relazione di tipo paternalistico (il medico sa e fornisce le risposte ad un paziente a cui si richiede solo un atteggiamento supino di accettazione) ad una relazione di partnership tra soggetti uguali. In questo sta la sostanziale differenza tra la medicina ospedaliera e quella del territorio. Nella prima l’ammalato è un “caso”, visto nell’ambiente asettico dell’ospedale, da studiare e soppesare alla ricerca più o meno difficile della “malattia”: gli si richiede unicamente l’accettazione dei trattamenti e degli accertamenti decisi da altri, con al più la firma su un burocratico foglio di consenso informato; ma egli non ha reali poteri decisionali e se per caso non è disposto ad accettare le cure o gli esami proposti lo si dimette sottolineando nella cartella che il paziente rifiuta quanto consigliato dai sanitari. Con il che la relazione si interrompe. La Medicina Generale, al contrario, incontra il paziente nel “suo territorio”, spesso nella sua casa: da soggetto pressoché passivo diviene attore e decide della propria salute, può rifiutarsi di fare un esame, decidere di sospendere una terapia, “contrattare” con il medico le decisioni diagnostiche e terapeutiche. E anche in caso di rifiuto verso certi farmaci o certi esami la relazione continua, non possiamo disinteressarcene o scaricarlo.
Ressa: Da questo punto di vista è molto più difficile operare sul territorio, anche perché, ammettiamolo, il medico di struttura pubblica se perde il paziente non ci rimette denaro, i medici di famiglia, ahimè, sì. Questo, a volte, può addirittura far passare dal PATERNALISMO di una volta, al SERVILISMO di oggi, mi sembrano delle situazioni agli esatti antipodi ed entrambe censurabili con la stessa forza.
Rossi: In una parola, la Medicina Generale ha come carattere peculiare la “negoziazione”, la "contrattazione" delle cure, e le sue fondamenta sono il “patto” che si instaura tra medico e assistito.
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