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Il certificato malattia ai fini lavorativi in assenza del medico di famiglia: a chi tocca?
Inserito il 28 settembre 2004 alle 23:56:28 da admin. Stampa Articolo | Stampa Articolo in pdf
obblighi e sanzioni
Obblighi e sanzioni per i medici inadempienti
Da quanto detto si rileva come ogni medico che rilevasse la presenza di una inabilita’ lavorativa sia sempre tenuto a specificarlo in sede di certificazione.
L' omissione di questo obbligo puo' essere sanzionata amministrativamente nei confronti dei medici di famiglia, per i quali puo' rilevarsi un' inadempienza contrattuale; non esistono invece norme contrattuali da invocare nel caso di altre categorie mediche, come ad es. i medici ospedalieri.
Trattandosi pero' di una violazione di legge, essa puo' rientrare in un ambito sanzionatorio piu' generale.
Per i medici operanti in struttura pubblica potrebbe infatti essere ipotizzata l’ipotesi, ad esempio, di una "omissione d' atti d' ufficio" o addirittura un “falso per omissione” (13). E' possibile inoltre ravvisare un illecito disciplinare.

Sebbene alcune di tali ipotesi possano apparire francamente eccessive, va considerato che la legge 33/80 ha stabilito un preciso obbligo, a cui sono tenuti, in particolare, soprattutto i sanitari che rivestano qualifica di pubblico ufficiale.
Per quanto riguarda l' aspetto disciplinare, e’ anche da tener presente la posizione presa dalla FNOMCeO sulla materia, (come citata in precedenza).
Tali aspetti non vanno percio' assolutamente sottovalutati.

In realta’ non abbiamo rinvenuto precedenti giurisprudenziali su tale specifico argomento; cio' puo' essere dovuto (oltre che a lacune nella nostra ricerca) al fatto che tali figure di reato non vengono direttamente contestate, ma occorre che vengano portate all' attenzione dell' Autorita' Giudiziaria attraverso una denuncia o una segnalazione (cosa che certamente non avviene in assenza di conflittualita' o per casi che vengano in qualche modo risolti).
Cio' infatti viene quasi sempre evitato, a nostro parere, sia per le autonome procedure decisionali stabilite dall' INPS, che per i comportamenti concilianti dei medici di famiglia i quali hanno sempre tenuto precipuamente conto degli interessi del paziente, adoperandosi per minimizzare gli effetti negativi delle certificazioni incomplete di altre categorie.
I medici di famiglia hanno percio' provveduto sovente, seppure non tenuti a farlo, a regolarizzare e a validare i certificati incompleti di altre categorie sanitarie, evitando cosi', in nome di un diverso rapporto medico-paziente, innumerevoli contenziosi giudiziari.
E’ illusoria pero' la convinzione che omettendo la diagnosi “lavorativa” si possa essere esentati dalle eventuali responsabilita’ connesse a questo aspetto: nelle vesti di P.U. (e quindi tenuto, per obbligo del suo ufficio, al rispetto delle leggi vigenti) il medico "pubblico" puo' essere, al contrario, particolarmente vulnerabile, anche in seguito alla mutata consapevolezza degli utenti circa i propri diritti, e al clima conflittuale che puo’ venirsi a creare in caso di contenziosi.

E' facilmente ipotizzabile poi che da una "cattiva" certificazione ospedaliera o di P.S. possa scaturire in alcune situazioni, per l' utente, un "danno ingiusto" che richiamerebbe, senza dubbio, la responsabilita' del medico certificatore, anche in ambito civilistico.
Questo puo' verificarsi, a puro titolo esemplificativo, nei casi di negato pagamento della diaria da parte dell' Ente assistenziale, oppure nel caso di contratti o di polizze che comprendano il risarcimento di una diaria giornaliera solo nel caso di espressa "inabilita' lavorativa": la mancata certificazione di una prognosi lavorativa in caso di patologia che certamente la comporti, qualora provochi un danno al paziente, puo' essere senza dubbio perseguibile (14).
Molto opportunamente diversi Enti Ospedalieri, pur continuando ad usare un modulario non regolamentare, appongono una doppia prognosi: clinica e lavorativa. Questa procedura appare senza dubbio ottima, tale da evitare qualsiasi dubbio interpretativo. E' necessario pero' che non venga vanificata dal comportamento dei singoli medici che ritengano di non doversi adeguare.
Dovrebbe essere cura delle Direzioni Sanitarie curare il rispetto di tali norme; puo' essere inoltre opportuno in simili casi avviare (da parte degli interessati) quei procedimenti che, attraverso decisioni o sentenze ufficiali prese dalle competenti Autorita', possano finalmente sancire l' effettiva soluzione di questo problema.

Quanto scritto circa l' obbligo di certificazione ha poi valore, a maggior ragione, per altre categorie di medici deputati all' intervento di "urgenza" festiva, come i sanitari di Continuita' Assistenziale.
Per essi (come gia' esposto) oltre alla norma generale, e' valida anche una specifica norma contrattuale, che stabilisce, tra i loro doveri, che " Il medico utilizza, solo a favore degli utenti registrati, anche se privi di documento sanitario, un apposito ricettario, con la dicitura «Servizio continuità assistenziale», fornitogli dalla Azienda per le proposte di ricovero, le certificazioni di malattia per il lavoratore per un massimo di 3 giorni..." (15) .
Questi sanitari, analogamente ai Medici di Famiglia, sono quindi vincolati da una specifica norma amministrativa che li obbliga a certificare la condizione di inabilita' lavorativa, e impone l' uso dello specifico ricettario; queste incombenze rientrano senza dubbio anche negli obblighi d' ufficio della categoria, con tutto cio' che ne consegue. La comune pratica clinica ci informa pero' che spesso questo non accade.

E' evidente come, in attesa di qualche sentenza chiarificatrice, ciascuno sia libero di dissentire dalle nostre conclusioni, e di regolarsi come crede, ma sia consapevole di assumersene la completa responsabilita'.

Daniele Zamperini (pubblicato su Doctor, maggio 2004)

 
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