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Lo screening del cancro prostatico |
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Ressa: Sono molto perplesso, dopo le recenti acquisizioni, circa l’utilità di questo screening.
Rossi: Il problema principale è che il cancro prostatico è una neoplasia molto frequente. Dati autoptici dimostrano che foci di cellule neoplastiche si ritrovano nella prostata di circa il 30-40% degli uomini oltre i 50 anni e nel 70% degli ultraottantenni. Tuttavia solo in una ridotta percentuale dei casi il tumore diventa sintomatico e porta a morte il paziente. Esistono, infatti, neoplasie evolutive e forme non evolutive, che non sarebbero mai diagnosticate se non venissero ricercate attivamente con lo screening. Attualmente è possibile diagnosticare la malattia in una fase iniziale: si ritiene che lo screening con il dosaggio del PSA possa portare ad un’anticipazione diagnostica di parecchi anni. Però non si riesce a prevedere quali casi evolveranno negativamente. Con uno screening ed un trattamento indiscriminato si rischia, pertanto, di "curare" neoplasie che non avrebbero mai dato segni clinici e che sarebbero rimaste quiescenti per tutta la vita. In altre parole molti muoiono "con" un cancro prostatico ma "non a causa" di esso. Un altro problema nasce dal fatto che, nelle forme localizzate iniziali di cancro della prostata, non è ben chiaro quale debba essere il trattamento ottimale. Uno studio recente, che confrontava prostatectomia e "vigile attesa" nel cancro prostatico localizzato, ha dimostrato che l'intervento chirurgico riduce la mortalità specifica ma non la mortalità totale [1].
Ressa: Credo che sia il momento di parlare del famoso PSA.
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