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Un paziente che non potrò dimenticare |
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pag 2
Dopo un mese, altra telefonata: «Scusami, ma ho una diarrea che non passa con le solite cose.» Visita. Aspetto emaciato. Pallore. «Senti, professore, facciamo anche qualche analisi.» E truffaldinamente gli infilo anche il test per l’AIDS. Ritorna. Analisi tutte negative. E lui, piuttosto evasivo: «Ma infatti sto già meglio. Ciao, dottore!» Dopo qualche tempo, ritelefona: «Giuseppe, scusa! È tornata la febbre e la tosse. Puoi vedermi?» Altra broncopolmonite. Terapia inefficace. Progressivo dimagramento, all’ennesimo controllo gli dico: «Professore, senti! In tutta franchezza, non riesco a capire che cos’hai: forse è un germe strano. Se ti ricoveri, ti faccio fare una lastra, una coltura dell’espettorato... Ho un amico al Forlanini [ospedale pneumologico romano]; ti posso seguire anche là. Sai, vivi da solo, e a casa non mi fido più a lasciarti. Ti vuoi decidere? Sei pelle e ossa!» ma egli, inaspettatamente, si chiude a riccio ed esclama: «Se è giunta la mia ora, che sia fatta la volontà di Dio!» Dopo pochi giorni, telefona il fratello: «Dottore, stanotte è morto.» E piange. Vado alla casa. Certificato di morte. Bacio il superstite. (Provo sempre commozione quando vedo un mio paziente morto, ma quella volta fu terribile, perché era una commozione mista a rabbia). Torno in macchina e mi dispero. Pomeriggio in studio, a far finta di ascoltare i pazienti, il mio cervello era da un’altra parte. Dopo una settimana, viene da me il fratello: «Dottore, ho trovato una busta chiusa per lei nella roba di mio fratello. Non so che cosa sia, ma gliela consegno.»
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