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La statistica in medicina |
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Rossi: Perché parlare di statistica in un manuale di Clinica Pratica? Che c’azzecca?
Ressa: Perché è incredibile come un medico, anche di ottimo livello, possa per anni dispensare ai suoi assistiti consigli e terapie senza chiedersi quanto, statisticamente , questo incida sul decorso naturale delle patologie. Ovviamente parliamo principalmente di quelle a carattere cronico (ad es. ipertensione, diabete), perché nelle acute il problema non si pone, nell’immediato, in quanto, generalmente, si passa subito all’azione, senza frapporre indugi. Quando poi l’ignaro medico decide di mettere il naso nel campo della statistica viene travolto da un’infinità di formule che gli causano, di solito, un’immediata ripulsa e lo ricacciano immediatamente nella condizione precedente di ignoranza. Ci limiteremo, quindi , a trattare solo l’essenziale, l’irrinunciabile, di cui ogni medico dovrebbe essere padrone.
Rossi: Mi hai quasi convinto. Da dove cominciamo?
Ressa: Di solito, per verificare l’effetto del nostro operare terapeutico su pazienti affetti da una determinata patologia, usiamo degli studi clinici in cui dividiamo i soggetti arruolati in due gruppi: il gruppo dei trattati e quello dei non trattati (di controllo). Ci si pone degli obiettivi da raggiungere in un X tempo e si verificano, alla fine, i risultati con le differenze tra i due gruppi. E’ chiaro che il discorso è inficiato, fin dall’inizio, da un vizio di fondo, noi mettiamo insieme soggetti che sono affetti da medesima patologia ma che sono diversissimi dal punto di vista genetico, psicologico, ambientale; dall’altra parte queste variabili non sono facilmente standardizzabili.
Rossi: Allora, che possiamo fare?
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