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Il paziente con sintomi inspiegabili |
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Secondo uno studio [1] questi soggetti hanno la propensione a interpretare in modo errato le spiegazioni mediche che vengono loro fornite, anche quando queste negano che vi sia una patologia organica sottostante. Va da sè che prima di etichettare un soggetto come "psicosomatico" è importante escludere che i disturbi lamentati siano in realtà espressione di una malattia che non emerge chiaramente o che si fatica ad evidenziare perchè rara o di diagnosi difficile. Depone per una genesi non organica la cronicità del disturbo, la continua negatività degli accertamenti, la mancanza di effetto delle rassicurazioni fornite. Alcuni consigliano di far riassumere al paziente, con parole sue quanto è stato appena spiegato, per verificare cosa sia stato veramente compreso, ma questo potrà servire a ridurre le visite e i disturbi?
Ressa: E' importante comunque quanto hai appena detto: bisogna essere sicuri che non si tratti di una vera sindrome organica, non su base funzionale, che non riusciamo a spiegare, a catalogare, cioè, in una malattia nosologicamente definita.Questo può accadere per vari motivi: per incapacità di saper unificare tutti i sintomi in un’unica patologia (che al clinico non viene in mente in quel momento) oppure perché questi ultimi, esplicitati dal paziente, sono riconducibili, in realtà, a malattie distinte e separate che ci ostiniamo a voler, a tutti i costi, mettere sotto un unico ombrello. In quest’ultimo caso, quello che non rientra nella conclusione diagnostica, viene considerato “inspiegabile” e il goffo clinico lo liquida con una scrollata di spalle, ricorrendo spesso all’aforisma “che essendo la medicina una scienza non esatta, non tutto si può spiegare”.
Rossi: Direi che corriamo tutti ogni giorno un doppio pericolo. Da una parte quello di etichettare come funzionali o psichici dei sintomi che invece hanno una causa organica e dall'altra di richiedere molti esami alla ricerca di una patologia organica che non esiste. Ovviamente non c'è un metodo sicuro per districarsi tra questi due fuochi. Una pratica che è abbastanza peculiare della Medicina Generale è quella di sfruttare il fattore tempo: il fatto che noi siamo il punto di riferimento costante del paziente ci permette talora di "star a vedere cosa succede", di prendere tempo, nell'attesa che magari quel sintomo che non riusciamo a capire o a interpretare non si risolva spontaneamente o non si chiarisca meglio. E' una pratica a cui, devo dire, ricorro non raramente, magari somministrando nel frattempo un placebo (per far capire al paziente che comunque mi prendo carico del suo malessere). E' sempre importante però rivalutare il caso a distanza di 1-2 settimane per non correre il rischio di errori brucianti. D'altra parte sarebbe vano cercare di interpretare questi casi con le armi classiche della medicina tradizionale, quella universitaria per intendersi: pazienti di questo tipo non si trovano nelle pagine e nelle classificazioni dei trattati di clinica e di patologia medica, neppure nei più prestigiosi. Il medico di famiglia si trova persino sprovvisto delle armi e degli armesi adatti per affrontare la molteplicità e la variabilità del disagio che sta sotto i vari quadri clinici presentati dai pazienti con sintomi inspiegabili perchè nessuno glieli ha insegnati. Perciò se li deve inventare giorno per giorno, una volta negoziando, una volta temporeggiando, una volta cedendo alle richieste del paziente, un'altra opponendo rifiuti motivati, altre volte ancora elaborando strategie che solo l'esperienza gli permette di escogitare. Sarebbe francamente illusorio pensare di giudicare questo modus operandi con il metro delle linee guida, della medicina EBM, dei protocolli diagnostici e terapeutici. Per ora nessuno ha ancora descritto compiutamente e formalizzato questo aspetto peculiare della Medicina Generale, che ne fa una specialità medica diversa da tutte le altre. Gli stessi medici di famiglia spesso non sono incosapevoli di esercitare una medicina diversa, anche se poi tutti i giorni la mettono in pratica.
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