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La spesa sanitaria e il medico di famiglia |
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pag 2
Osiamo definire “strano e curioso” che la maggiore azienda sanitaria (il SSN, o almeno ogni SSR) non batta la stessa strada e non elabori un prontuario (esisteva ai tempi dell’INAM, non dimentichiamocelo!) con validità annuale, all’interno del quale i medici hanno libertà di scelta secondo scienza e coscienza, il quale conterrà solo i farmaci per i quali l’ente ha spuntato il risparmio maggiore. Già: la scienza e la coscienza che ora potrebbero venir soffocati dall’impellente desiderio di “sottoprescrivere” pur di risparmiare. Suscita legittime perplessità l’assistere all’aggiornamento continuo dei farmaci, del loro prezzo, delle loro prescrivibilità, ma anche delle note CUF/AIFA. Forse semplificare e rendere annuale o semestrale tali aggiornamenti sarebbe, per sé, fonte di risparmio. Assistiamo poi ad altre stranezze: in certe regioni i medici che ordinano farmaci generici sono premiati con percentuali, anche significative, del risparmio regionale. Qui nascono due dubbi: da un lato è vietato al medico effettuare prescrizioni sulla base di un tornaconto economico (si configurerebbe un “comparaggio di stato”), dall’altra nessuno (o quasi) sembra accorgersi che tale manovra è una bufala incredibile: allorché si ordina un prodotto griffato o generico la spesa pubblica è rigorosamente identica, e la differenza è pagata dal cittadino. Dove risiede il risparmio? Ma se consideriamo più nella globalità la spesa sanitaria, vediamo uno sforzo realmente importante che mira a comprimere di una percentuale marginale la spesa farmaceutica: tale obiettivo è meritorio, ma forse modesto. A questo punto dell’analisi nasce una riflessione: se è corretto contenere la spesa sanitaria (benché essa incida sul PIL percentualmente quanto incide in Estonia, e molto meno della Germania e della Francia) perché governo e regioni non agiscono sulle maggiori fonti di spesa? Perché non si interviene calmierando, ad esempio, i DRG? Perché non si modula la specialistica? La risposta non è semplicissima, ma per dare un contributo – perfettibile – all’analisi, credo che sia utile partire da un concetto introdotto alcuni anni or sono: l’aziendalismo in sanità. Fino a pochi lustri or sono esistevano, nel mondo sanitario, solo aziende private (le quali, sia ben chiaro, erano molto attive, anche se talora condotte con sistemi che suscitavano legittimi dubbi (quante degenze protratte al tempo del pagamento per posto-letto, quanto personale sottopagato!). Il pubblico veniva remunerato a pié-di-lista, metodica che induceva talora a lavorare il meno possibile.
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