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Cardiopatia ischemica |
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pag 9
Rossi: L’argomento è molto complesso e vi sono numerosi varianti da tenere in considerazione: il tempo intercorso dall'inizio dei sintomi, la gravità del quadro clinico, la presenza di controindicazioni alla terapia trombolitica, la disponibilità sul territorio di strutture adeguate, ecc. La materia è in continuo divenire e si accumulano studi che in parte contraddicono i risultati di lavori precedenti, le lineee guida devono essere continuamente aggiornate ed è difficile schematizzare tutte le possibili opzioni. La superiorità delle procedure più aggressive di tipo invasivo rispetto alla terapia medica è stata dimostrata negli RCT ma sembra ridursi quando trasferita nel mondo reale. I dati del registro GRACE (Global Registry of Acute Coronary Events), recentemente pubblicati, amplificano i dubbi sulla effettiva possibilità di trasferire i dati ottenuti negli RCT al mondo reale e suggeriscono un uso oculato e selettivo dell'approccio invasivo. Per esempio nelle sindromi coronariche acute senza elevazione di ST (angina instabile o infarto NSTEMI) è probabile che l'approccio invasivo precoce sia da riservare solo ai pazienti più a rischio (diabete, sesso maschile, età > 65 anni, troponine elevate, ecc.) mentre la terapia conservativa può essere attuata se vi è un rischio basso, con eventuale coronarografia e rivascolarizzazione solo in caso di recidiva o di ischemia inducibile [46-49], per quanto una meta-analisi dei 7 principali RCT sull'argomento dimostra che la terapia invasiva precoce ottiene a lungo termine un miglioramento della sopravvienza ed una riduzione degli eventi cardiovascolari [51]. In una revisione Cochrane [53] sull'argomento gli autori ammettono che l'approccio invasivo precoce nell'angina instabile e nell'infarto con ST non sopraslivellato è preferibile alla terapia conservativa, tuttavia nel lungo termine la differenza tra le due scelte non è eclatante: NNT a 2-5 anni per prevenire un decesso = 43. Ci saranno però effetti avversi (emorragie o infarti legati alla procedura) con un NNT = 35-36. Considerando queste cifre gli autori concordano che futuri studi dovranno valutare i benefici delle varie scelte stratificando il rischio dei pazienti. Inoltre gli studi dovrebbero avere maggiore durata e arruolare più donne. Un’altra revisione [56] sostiene che le evidenze non sono sufficienti per affermare se sia preferibile un approccio invasivo di routine o solo selettivo, riservato ai pazienti più a rischio. Nell’infarto miocardico ad ST sopraslivellato trombolisi ed angiopastica sembrano sovrapponibili se effettuate entro 3 ore dall’insorgenza dei sintomi mentre se sono trascorse 3-12 ore viene raccomandata l’angioplastica. L’angioplastica di “salvataggio” si effettua qualora la trombolisi non ottenga la riduzione del sopraslivellamento di ST del 50%. L’angioplastica “facilitata” (trombolisi seguita da angioplastica entro 12 ore dall’insorgenza dei sintomi) è stata proposta come mezzo per ottenere la riperfusione in ospedali periferici nell’attesa di effettuare la PTCA nel centro di riferimento, ma i pochi dati disponibili non permettono per ora di raccomandarla di routine. In effetti un ampio studio ed una meta-analisi concludono che l'angioplastica facilitata è gravata da una frequenza di esiti negativi maggiore rispetto alla angioplastica primaria [44,45]. Recentemente poi è stato pubblicato uno studio che suggerisce che nell'infarto miocardico con ST sopraslivellato i vantaggi dell'angioplastica rispetto alla trombolisi dimostrati negli RCT si possono ottenere anche nella comune pratica clinica [50].
Ressa: Credo che sia più interessante per il clinico pratico sapere esattamente cosa fare nel sospetto di una SCA.
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