Gli unici mezzi che abbiamo per dimostrare una riduzione della mortalità sono gli studi clinici randomizzati e controllati o RCT (vedi capitolo sulla tipologia degli studi clinici). Però quando parliamo di screening oncologico vi sono altri aspetti da considerare. Per esempio molti degli studi eseguiti finora hanno dimostrato che alcune pratiche di screening riducono la mortalità specifica (cioè la mortalità dovuta a quel tipo di tumore) ma non intaccano la mortalità totale. Come mai? Una delle ipotesi è che negli studi si verifichi una errata attribuzione delle cause di morte: può succedere che nel gruppo non sottoposto allo screening decessi dovuti a cause diverse vengono attribuiti al tumore mentre nel gruppo screenato decessi dovuti a complicanze della terapia o del trattamento (infezioni, embolie polmonari post-chirurgiche, complicanze da chemioterapia) non vengano attribuiti alla neoplasia ma classificati in altro modo. Si realizza quindi una divaricazione per cui alla riduzione della mortalità specifica non corrisponde una riduzione della mortalità totale. Secondo alcuni autori una riduzione nella mortalità cancro-specifica non dovrebbe essere considerata una prova forte di efficacia quando la mortalità totale è la stessa o più alta nel gruppo screenato [1]. I trials di screening sono più complicati di quanto non si pensi. Il problema è che gli studi disegnati per dimostrare un miglioramento della mortalità totale come end-point primario richiedono un numero molto elevato di soggetti, un follow-up lungo e spese quasi insostenibili. Tuttavia alcuni autori ritengono che non si possano giustificare programmi di screening, costosi sia per gli individui che per la comunità, se vi sono incertezze circa la loro utilità perché i rischi potrebbero superare i benefici [2]. Uno screening può infatti produrre anche effetti collaterali. Come tutti gli esami, anche quelli usati per gli screening hanno una certa percentuale di falsi positivi e di falsi negativi.