L'attività fisica come mezzo di prevenzione cardiovascolare
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Bolognesi: Nel momento in cui le condizioni del paziente si presentano stabili (non prima delle 2-6 settimane dall’evento coronario), può essere effettuato un test per controllare i sintomi. Nella prevenzione secondaria questo test è essenziale per tutti i pazienti prima di consigliare un programma di attività fisica. Se non ci sono indicazioni per un’ecocardiografia o un’angiografia, si può prescrivere in maniera molto dettagliata un programma di attività fisica che tenga conto del test summenzionato. Per ottenere un buon allenamento, i grandi muscoli dovrebbero essere impegnati nell’attività per almeno 20-30 minuti (preceduti da un riscaldamento e seguiti da un defaticamento), almeno 3-4 volte a settimana. La prescrizione di questi esercizi dovrebbe essere basata sul test di valutazione funzionale cardiorespiratorio di cui si parlava prima. Inizialmente è consigliabile seguire il paziente per regolare il processo rieducativo, assicurarsi che l’attività sia ben tollerata e scongiurare eventuali situazioni rischiose. Per individui a basso rischio, è accettabile un’attività domiciliare a patto che i pazienti siano ben motivati e che abbiano ben compreso i principi basilari dell’attività fisica.
Rossi: Immagino che i principi che regolano la prescrizione dell'attività fisica nei coronaropatici sia diverso a seconda del rischio dei pazienti.
Bolognesi: Si. Esaminiamo dapprima il caso di pazienti senza ischemia o aritmie significative. L’intensità dell’esercizio dovrebbe raggiungere approssimatamene il 50-80% del consumo massimo di ossigeno, come determinato da un test fisico ergospirometrico o di valutazione indiretta da parte di un medico sportivo internista o cardiologo dedicato. Se questo test non viene fatto inizialmente, si prende in considerazione il battito cardiaco: 20-30 battiti al minuto in più rispetto al normale battito a riposo è un riferimento adeguato in attesa di effettuare il test sull’esercizio fisico, a meno che non vi siano interferenze farmacologiche che limitino il consumo di ossigeno miocardico come ad esempio i betabloccanti.